Autore: Paola Sabatini

La LettriceDeiDueMondi. Dai Caraibi alle Crete, tutto per lei è cambiato,
tranne la sua occupazione principale: leggere, senza sosta.

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Gogol’, Dostoevskij e Tolstoj. Tre racconti, tre matti

Qualche mese fa, curiosando tra uno stand e l’altro, durante una fiera dedicata al libro, la mia attenzione è stata catturata da una raccolta di tre racconti curata da Paolo Nori, forse perché gli autori sono tre grandi firme della letteratura universale - Gogol’, Dostoevskij e Tolstoj -, o forse perché gli scrittori russi dell’Ottocento mi hanno sempre appassionata; fatto sta che [...]

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Il Principe felice di Oscar Wilde

È da poco passata l’Epifania (per alcuni, la Befana), una festa che ci porta indietro nel tempo, a ripensare a quando eravamo piccoli, ai nostri ricordi più lontani e alle storie che ci venivano raccontate a proposito di questa vecchietta, un po’ strega e un po’ nonna. Nel mio caso, ogni anno torno con la memoria al gennaio del 1970. Avevo sei anni e sotto la calza, insieme alla mia prima bicicletta, trovai il mio primo libro: Le avventure dell’Orso Teddy.

Wilde ai suoi figli le storie le scriveva e poi gliele leggeva. Il Principe Felice è il racconto dal quale prende il nome la prima raccolta da lui pubblicata nel 1888 (The Happy Prince and Other Tales), cinque fiabe dedicate ai suoi bambini, Cyril e Vyvyan, di tre e due anni. Sono storie malinconiche, adatte forse più ai grandi che ai piccoli, popolate da personaggi indimenticabili, talvolta un po’ irritanti.

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Flannery O’Connor, il racconto compreso tra grazia divina e libertà umana

Ho letto per la prima volta di Flannery O’Connor circa tre anni fa, nonostante avessi in casa una sua raccolta di scritti e racconti acquistata almeno quindici anni prima. La raccolta porta il nome di uno dei suoi racconti più famosi, La schiena di Parker, e per qualche strana ragione mi ero convinta che quel racconto – come del resto tutto il libro - parlasse di [...]

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Joseph Roth. I suoi racconti, i suoi coralli

Provo una certa irritazione ogni volta che Joseph Roth, autore austriaco dell’ultimo periodo asburgico, viene confuso con Philip Roth, quello americano. Sia perché anagraficamente distanti – quando il primo moriva, l’altro aveva solo sei anni -, sia perché pur avendo avuto cognome, origini ebraiche e mestiere in comune, tali elementi hanno avuto un peso decisamente diverso nella biografia di ciascuno. E mentre di Philip ne parliamo e ne scriviamo sempre, soprattutto in prossimità del conferimento annuale del Premio Nobel per la letteratura, di Joseph non ce ne rammentiamo quasi mai, purtroppo. Dunque, eccomi qua a rendere omaggio e merito ad uno degli autori che hanno reso ricca e universale la letteratura mitteleuropea del primo Novecento, insieme a Canetti, Kafka, Musil, Schnitzler e Zweig.   

Joseph Roth
Un ritratto di Joseph Roth

Joseph Roth è stato giornalista, oltre che scrittore, e metà della sua produzione ne è la testimonianza; l’altra metà è composta di romanzi, saggi, novelle, racconti e poesie. Mi sono accostata a lui, per la prima volta, alcuni anni (decenni?) fa, quando da giovane studentessa universitaria, figlia di emigranti italiani rimpatriati cresciuta nel Nuovo Mondo, cercavo nelle mie letture quegli autori capaci di raccontare mondi perduti, società sgretolate, esili forzati, case dimenticate a cui non si poteva fare più ritorno. Li sentivo vicini, amici, provavo la loro stessa nostalgia, il loro stesso smarrimento, e leggerli mi era di grande conforto. Poi, gli anni sono passati, io sono cresciuta, e alcuni amici li ho dimenticati.

Poche settimane fa, insieme ad alcuni scratchreaders, ho riletto per combinazione uno dei suoi romanzi più famosi, La Cripta dei Cappuccini. Be’… è stato come ritrovare un vecchio amico che non è cambiato affatto, rimasto giovane e al tempo stesso saggio, così come lo avevo lasciato. Non ricordavo molto né delle sue storie né del suo stile, ma ricordavo di aver provato una bella sensazione quando lo avevo letto in passato: quella di poter credere nei miracoli. Solo chi ci crede veramente riesce a trasmettere ad un lettore una tale sensazione, la stessa che ho ritrovato nei giorni scorsi sfogliando, come fossero vecchi album di fotografie, tutti i libri che di lui possiedo. E così, subito dopo le vicende della famiglia Trotta, ho rispolverato una vecchia raccolta di racconti, otto in tutto, scritti da Joseph Roth nel corso di vent’anni, pubblicata in Italia per la prima volta da Adelphi negli anni settanta e intitolata Il mercante di coralli.

J. Roth è stato uno scrittore dallo stile generoso: ognuno di questi racconti, infatti, ruota intorno ad un personaggio e di ciascuno ci offre, sia pure in poche pagine, un passato che spiega il presente e che talvolta lascia intravedere un futuro, un insieme di storie utili a comporre quella grande casa con molte porte e molte stanze che Roth nella vita reale aveva perduto, in seguito al crollo dell’Impero Asburgico guidato dall’Imperatore Francesco Giuseppe, nel 1918.

I suoi personaggi abitano quella porzione di mitteleuropa che, sotto la guida degli Asburgo, racchiudeva popoli, religioni e tante lingue diverse, avvezza a coltivare le proprie radici senza rinunciare alla propria cultura, ad esprimere il proprio credo qualunque esso fosse, a preservare le proprie tradizioni identificandole con la terra in cui si è cresciuti e con il contesto in cui si è stati amati, educati e sorretti, cioè, la famiglia, a venerare il proprio imperatore, ad accettare, infine, lo smarrimento e la nostalgia conseguenti alla caduta della monarchia austro-ungarica.

Il castello di Schönbrunn (Vienna), residenza dell’imperatore Francesco Giuseppe

Tuttavia, i personaggi creati da Roth non sono degli eroi, ma un campionario di varia umanità. Anton Wanzl, in L’allievo modello, è ambizioso e falso, per tutta la vita offrirà di sé un’immagine contraria – di rettitudine e fedeltà -, aspettando di svelare finalmente se stesso in modo grottesco, tra le pareti della sua bara, con una risata, ridendo forte della credulità degli uomini e della stupidità del mondo. La piccola Fini, invece, protagonista de Lo specchio cieco, è l’immagine di chi crede ciecamente nelle false promesse di una vita migliore, per poi ritrovarsi sola e abbandonata, per di più senza poter fare ritorno a casa. In Aprile, la storia di un amore, un io narrante racconta una strana vicenda amorosa, dai toni vagamente surreali, che condurrà il protagonista a maturare la decisione di fuggire e di salpare verso New York, più per sottrarsi alle proprie responsabilità che per un sincero desiderio di scoperta.

Poi c’è Il capostazione Fallmerayer (uno dei miei racconti preferiti), di lui scopriremo che «distrusse la sua vita che, del resto, mai sarebbe stata brillante – e forse neanche a lungo andare felice – in un modo sorprendente»… il dottor Showronnek testimone, nel racconto Trionfo della bellezza, di ciò che seduzione e bellezza possono far ottenere e di ciò che la gelosia può invece distruggere, metafora di una società decadente… il conte Morstin, fedele al sovrano decaduto e a Il busto dell’imperatore, che una volta rimpatriato al termine della Grande Guerra, si domanda se quella sia davvero ancora la sua patria, poiché in realtà «si sente il cadavere di se stesso» ed è fermamente convinto che non sia «della politica mondiale che il popolo vive – e in ciò si differenzia simpaticamente dai politici, ma della terra che coltiva, del commercio che esercita, del mestiere che sa fare. Eppure, vota alle elezioni, muore nelle guerre, paga le tasse all’erario». Il conte rimarrà talmente fedele al suo passato da lasciare disposizioni testamentarie affinché la sua salma venga sepolta accanto alla fossa in cui giace il busto (non il corpo) di Francesco Giuseppe, busto rimosso dal giardino di casa sua per ordine delle democratiche autorità cittadine e sepolto non lontano da lì.

Ma è sugli ultimi due che vorrei soffermarmi: Nissen Piczenik – protagonista de Il leviatanoe Andreas Kartakquello de La leggenda del santo bevitore.

Il primo è un mercante di coralli, rispettato da tutti, «un ebreo di pelo rosso, la cui barbetta caprina color rame faceva pensare a una varietà di alga rossigna e conferiva a tutta la persona una sorprendente somiglianza con un dio marino». Un uomo convinto che i coralli fossero minuscoli animali marini che «solo per accorta modestia si fingevano alberi e piante, così da non essere attaccati o divorati dai pescecani». Piczenik è nato e cresciuto in pieno continente ma anela al mare e farà di tutto per trasferirsi laddove sente che il suo destino si potrà compiere, compreso imbrogliare i propri clienti vendendo loro coralli di plastica. Perderà tutto: clienti, denaro e moglie.

Alla fine, conscio di essere stato raggirato da un ciarlatano suo concorrente, di aver accettato di vendere chincaglieria pur di avere maggiori guadagni e di non aver più nulla da perdere, parte in un giorno d’aprile dal porto di Amburgo alla volta del Canada ma, pochi giorni dopo la partenza, la nave affonderà. Ma di lui non diranno mai che è annegato, solo che è «tornato dai suoi coralli, sul fondo dell’Oceano dove si torce il potente Leviatano».

Questo racconto, pubblicato per intero dopo la sua morte, è una struggente metafora di ciò che in vita Joseph avrebbe desiderato: ritornare in patria, dal suo imperatore, lui che era nato nel 1894 sotto l’Impero asburgico ed è morto in esilio dopo l’avvento del nazismo, nel 1939.

E se II Leviatano è una metafora, La leggenda del santo bevitore è una sorta di premonizione. Andreas Kartak, il protagonista, è un vagabondo che vive sotto i ponti lungo la Senna. Un giorno, incontra un misterioso benefattore che gli porge duecento franchi e che lui si impegnerà a restituire la domenica successiva, non allo stesso donatore ma come obolo da versare alla statuetta della piccola Santa Teresa di Lisieux – santa a cui l’ignoto benefattore è molto devoto -, che si trova nella cappella di Santa Maria di Batignolles.

Da quel momento in poi, prende il via un susseguirsi quasi ininterrotto di miracoli, il vagabondo sente di essere stato toccato dalla grazia ma non per questo inizierà a condurre una vita sana e proba, anzi, spenderà ogni franco in donne, alcol e cibo, rimandando di domenica in domenica la restituzione promessa fino a quando, colto da improvviso malore mentre si sta recando finalmente in chiesa, si accascia e viene trasportato di peso fino ai piedi della piccola statuetta della santa, dove poco dopo morirà. Il racconto si conclude con questa frase: «Conceda Dio a tutti noi, a noi bevitori, una morte così lieve e bella». Un auspicio personale?

Joseph Roth era un uomo di fede, nato ebreo ma morto cattolico, dopo essersi convertito al cristianesimo. Roth nella sua vita beveva, viaggiava e scriveva senza sosta. Un giorno, mentre era seduto al tavolino di un caffè parigino, dove spesso annotava i suoi pensieri, si è accasciato all’improvviso, morendo quattro giorni dopo.

Un passaggio sotto un ponte sulla Senna (Matt J Herring su Flickr)

A raccontarlo è Cees Nooteboom nel suo libro Tumbas, libro dedicato alle tombe di poeti e pensatori, tra cui figura quella di Joseph Roth. Riporta anche alcuni versi composti da Roth stesso proprio lì, in quel caffè, ora scolpiti in una targa ricordo:

Un’ora è un lago,
un giorno un mare,
la notte un’eternità,
il risveglio l’orrore dell’inferno,
l’alzarsi una lotta per la chiarezza.

Joseph Roth è stato un “mercante di coralli” che amava i suoi coralli, e i coralli erano le sue storie, nate dal suo vigile occhio osservatore, avvezzo a distinguere il vero dal falso, come un buon mercante deve saper fare.

Joseph Roth è stato un gran bevitore, a modo suo “santo” poiché credeva nei miracoli ed era convinto che all’interno di un miracolo non c’è nulla di cui ci si possa stupire.

Joseph Roth è stato un uomo d’onore anche se senza indirizzo, come il suo personaggio Andreas Kartak, costretto a vagare da un paese all’altro senza mai poter far ritorno a casa.

Mi auguro che alla fine Dio gli abbia concesso ciò che desiderava e che abbia trovato requie almeno nella patria celeste in cui credeva.


Nota: tutte le citazioni in corsivo sono tratte da Il mercante di coralli, Adelphi, 1981. Tranne quella di Nooteboom tratta da Tumbas, Iperborea, 2015

Di cosa parliamo quando parliamo di amore… e racconti?

amore racconti
Photo by Darwin Vegher, Unsplash

Domani è San Valentino.

Era ben presto di mattina

quand’io fanciulla innocente,

bussai alla tua finestra

per essere la tua Valentina.

(Amleto, atto IV scena V, di William Shakespeare)

Ogni anno, il 14 febbraio a San Valentino, si celebra la festa degli innamorati, in un tripudio di cuori di cioccolato, baci perugina, rose rosse, cene a lume di candela, dediche alla radio, canzonette stucchevoli e filmetti romantici in tv. Tutte attività che fanno molto bene al commercio e che hanno sostituito, nel corso del tempo, il semplice – e certamente desueto – scambio di biglietti d’amore d’origine anglosassone da cui è nato questo carosello: le c.d. Valentine.

E se invece volessimo scambiarci un racconto d’amore o sull’amore? Ecco… non fatevi troppe illusioni, spesso l’amore sta ai racconti come le acciughe stanno alla pizza Margherita: è del tutto assente!

Forse perché l’amore è difficile raccontarlo in poche pagine? O perché per scrivere un buon racconto occorre quella freddezza d’esecuzione, di cui parlano spesso gli autori di short stories americane, che le intermittenze del cuore e le sue mille implicazioni non favoriscono? Eppure, si dice spesso che un buon racconto dovrebbe prendere spunto da un particolare e condurre il lettore verso una piccola verità universale. E cosa c’è di più universale dell’amore?

O forse è vero che l’amore, con le sue mille sfaccettature, è meglio lasciarlo ai romanzieri, alla loro capacità di costruire intrecci complessi, malintesi fuorvianti, trame contorte, storie corpose che tanto servono a rendere quanto siano complicate le vicende del cuore, immaginando situazioni che possono culminare, a seconda dell’esigenza narrativa, in un finale felice o in una conclusione straziante?

Camus, ne L’uomo in rivolta, sosteneva che

Il mondo del romanzo non è che la correzione di questo mondo, secondo il desiderio più profondo dell’uomo. Perché si tratta proprio dello stesso mondo. La sofferenza è la stessa, e la menzogna e l’amore. I suoi eroi hanno il nostro linguaggio, le nostre debolezze. Le nostre forze. Il loro universo non è più edificante e più bello del nostro. Ma essi almeno corrono fino in fondo al loro destino e anzi, non ci sono eroi più commoventi di quelli che vanno all’estremo della loro passione». [1]

Ma nei racconti, invece, cosa succede quando di mezzo c’è l’amore? Il primo racconto a cui ho pensato mentre riflettevo sull’argomento, forse perché già il suo titolo è un invito a farlo, è stato Di cosa parliamo quando parliamo d’amore di Carver, un racconto che molti di voi conosceranno, per via di quella fortunata circostanza che qualche anno fa – tra il 2014 e il 2015 – lo portò alla ribalta, insieme al pluripremiato film Birdman di Iñarritu.

Nel film, di quel racconto veniva proposta una riduzione teatrale ad un gruppo di attori, e gli stessi si stavano preparando per portarlo in scena a Broadway; durante le prove, le due coppie protagoniste si vedono costrette, loro malgrado, a fare i conti con le domande piuttosto provocatorie e imbarazzanti che Carver pone, o fa porre, ai personaggi del racconto, passando così dalla finzione della recitazione teatrale a quella cinematografica, da una storia all’altra, in un continuum. Una di queste domande potremmo riassumerla così: dov’è che va a finire l’amore che abbiamo provato per qualcuno che ora non amiamo più?

C’eravamo messi a parlare d’amore. Secondo Mel, il solo vero grande amore era quello spirituale. (…) In effetti che ne sappiamo noi dell’amore? – ha proseguito Mel – Secondo me, siamo tutti nient’altro che principianti, in fatto di amore. (…) C’è stato un momento in cui credevo di amare la mia prima moglie più della vita. Invece ora la detesto con tutto il cuore. Davvero. Voi come lo spiegate? Che cosa è successo a quell’amore? (…) come se sapessimo di cosa parliamo quando parliamo d’amore. [2]

Già… dove va a finire? Certo, oggi non sarebbe proprio il giorno adatto per chiederselo, però si sa che noi di Tre racconti siamo un po’ lettori e un po’ samurai.

Comunque, un altro aspetto interessante è che nei racconti l’amore non è mai quello impacciato del corteggiamento o infuocato dell’innamoramento e gli eventi, di solito, precipitano in fretta: un tradimento, un terribile segreto, una morte improvvisa, un abbandono… insomma, in quattro e quattr’otto, tutto si compie! Qualche volta c’è il lieto fine, il più delle volte si consuma la tragedia.

E poi, i titoli! Non sono d’aiuto nemmeno quelli, alcuni sono perfino ingannevoli. La prima volta che ho letto Primo amore di Turgenev, ad esempio, sono rimasta un po’ delusa – da quella inguaribile romantica che sono -, perché è la storia di un sedicenne che s’innamora, per la prima volta e con ardore adolescenziale, di una principessina di cinque anni più grande di lui, e quindi uno si prefigura un’iniziazione amorosa mentre invece, nel giro di poche pagine, si passa dallo struggimento d’amore all’attraversamento della linea d’ombra che trasforma un ragazzo in un adulto, un Otello geloso in uno scolaretto: il giovane scopre che la ragazza, di nome Zinaida, è l’amante del padre e che questi è dunque il suo improbabile rivale in amore.

Altri sono fin troppo letterali. È il caso di Amore cieco di Pritchett. Dal titolo potremmo pensare ad una travolgente ed accecante passione amorosa, invece, è proprio la cecità in senso stretto a far incontrare e poi unire due persone che, altrimenti, forse non si sarebbero mai incrociate.

Poi ci sono i titoli fuorvianti. Anche la Welty, per esempio, ha intitolato un suo racconto Primo amore ma, in quel racconto, di amore in senso stretto non ce n’è traccia; il tema centrale è, in realtà, il fascino subito e l’ammirazione provata da un orfanello, sordo e dodicenne, che si trova casualmente a vivere la Storia con la esse maiuscola, niente baci e languide carezze.

Ma i miei racconti preferiti sono quelli in cui l’amore, se c’è, si tinge di grottesco e i personaggi diventano ridicoli, perché credo che non ci sia niente al mondo che ci renda più ridicoli dell’amore, o forse dovrei dire dell’innamoramento. Per il grottesco, chiamo in causa la regina del genere, Flannery O’Connor. In Brava gente di campagna c’è uno dei dialoghi amorosi più bizzarri che io ricordi: lui, venditore porta a porta di bibbie, ha furbescamente circuito una ragazza disabile con una gamba di legno, la porta in un fienile perché vuole una prova d’amore e quello che le chiede è di mostrarle la sua gamba di legno:

«Lo sapevo», brontolò lui, rizzandosi a sedere, «tu mi prendi in giro».
«Oh no!» gridò Hulga. «Si attacca al ginocchio, solo al ginocchio. Perché vuoi vederla?».
Il ragazzo le lanciò uno sguardo lungo e penetrante. Perché è quella, che ti rende diversa. Non sei come nessun’altra. [3]

Anche Cortázar mi ha regalato dei bei momenti col racconto Circe. Delia, una ragazza di ventidue anni, già al secondo lutto per via di due fidanzati morti stecchiti per cause non del tutto chiare, è oggetto dei pettegolezzi a mezza bocca di tutto il vicinato; si lascia corteggiare da Mario, che ha tre anni meno di lei; presto inizierà anche lui a frequentare la casa dei Mañara, in qualità di terzo fidanzato. Lei aveva una strana abitudine: preparare cioccolatini e bon bons (non necessariamente per una ricorrenza, tanto meno per San Valentino!) e farli assaggiare solo e soltanto al proprio fidanzato di turno. Be’, il fatto è che i cioccolatini di Delia erano molto particolari: contenevano un ingrediente segreto, croccante e munito di zampette… che lo sventurato fidanzato scopre al primo morso, giusto in tempo per darsela a gambe e lasciare la povera Delia ancora una volta senza fidanzato ed irrimediabilmente proiettata verso il nubilato perpetuo.

Il racconto si chiude con queste parole: «Gli fecero molta pena i Mañara che erano lì acquattati sperando che lui – finalmente qualcuno – facesse tacere Delia che piangeva, facesse finalmente cessare il pianto di Delia».

Parenti serpenti!

Insomma, per farla breve, se cercate qualcosa di romantico nei racconti (una frase, un’immagine) da dedicare a qualcuno, di romanticismo ne troverete sempre ben poco. Per quello, meglio rivolgersi alla poesia oppure sfogliare un bel romanzo che ruoti intorno all’amore. Però, attenzione: siate originali, niente frasi dal Piccolo Principe, troppo inflazionato.

Parola di Lettrice!

P.S. Oggi è anche il Mercoledì delle Ceneri, quello della locuzione latina memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris, che per tutti è quel famoso “polvere sei e polvere ritornerai”, il giusto richiamo per ridimensionare i nostri slanci e i nostri afflati amorosi.

____________________

[1] Albert Camus, “L’uomo in rivolta”, Bompiani, p. 287.

[2] Raymond Carver, “Da dove sto chiamando”, Einaudi, pag. 170 – 186. 

[3] Flannery O’Connor, “Tutti i racconti, Bompiani, p. 314. 

Tra Dante e Borges, El Aleph

Borges Dante e l'Aleph
www.wikimedia.org

«Perché negarci la gioia di leggere la Commedia?»
Jorge Luis Borges

«Tutto ebbe inizio poco prima della dittatura. Ero impiegato in una biblioteca del quartiere Almagro […] Il caso – ma non esiste il caso, ciò che chiamiamo caso è la nostra ignoranza della complessa meccanica della casualità – mi fece imbattere in tre piccoli volumi nella Libreria Mitchell, oggi scomparsa, e che mi evoca tanti ricordi. Quei tre volumi […] erano l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, tradotti in inglese da Carlyle.»[1]

Con queste parole, pronunciate durante una conferenza tenutasi il 1° giugno del 1977 a Buenos Aires, Borges racconta il suo primo incontro con la Divina Commedia di Dante, opera che leggerà molte volte, in edizioni diverse e a cura di commentatori diversi, per tutta la vita. Arriverà a sostenere che l’unico italiano che conosceva era quello delle terzine dantesche, lette e rilette, sia in silenzio che ad alta voce. Pochi sanno, però, che da questo fortunato incontro nascerà, qualche anno dopo, uno dei racconti più famosi dell’autore argentino, El Aleph.

«L’incandescente mattina di febbraio in cui Beatriz Viterbo morì, dopo un’imperiosa agonia che non si sottopose un solo istante né al sentimentalismo né alla paura, notai che i cartelloni in ferro di Plaza Constitución avevano rinnovato non so quale pubblicità di sigarette; il fatto mi addolorò, perché compresi che l’incessante e vasto universo cominciava già ad allontanarsi da lei e che quel mutamento era il primo d’una serie infinita.»[2]

Beatriz Viterbo era la donna sposata della quale l’io narrante – alter ego di Borges – si era innamorato. Nonostante fosse stato respinto, dopo la sua morte quell’amore si trasformò in devozione, alimentata da un desiderio insensato di contemplazione dei numerosi ritratti della defunta appesi ai muri della casa di famiglia in calle Garay, motivo che lo spinse a coltivare ancora per anni i rapporti con il padre di lei e con suo cugino Carlos Argentino, gli unici abitanti rimasti in quella casa.

Leggendo i Nove saggi danteschi di Borges, apprendiamo che Beatriz  in realtà è una trasposizione della ben più nota Beatrice Portinari, la giovane donna di cui Dante s’innamorò, da cui fu rifiutato e con la quale forse non scambiò mai neanche una parola. Le cronache dell’epoca narrano che Beatrice andò in sposa ad un banchiere fiorentino e morì poco dopo, a soli ventiquattro anni, lasciando un vuoto inconsolabile nel cuore di Dante.

Scrive Borges a questo proposito, in uno dei saggi: «Morta Beatrice, perduta per sempre Beatrice. Dante giocò con la finzione di ritrovarla, per mitigare la tristezza; io personalmente penso che abbia edificato la triplice architettura del suo poema per introdurvi quell’incontro.»[3]

Il poema a cui si riferisce è – naturalmente – la Divina Commedia e il momento dell’incontro è quello suggellato da quei ‘segni de l’antica fiamma’ che Dante avvertirà su di sé nel momento stesso in cui incrocerà lo sguardo di Beatrice, nel XXX canto del Purgatorio. Non saranno necessarie altre parole. Dante avrà così compiuto quel processo di spiritualizzazione che farà di Beatrice una santa donna, mitigando il dolore per la sua perdita.

Al contrario, Borges ne L’Aleph – molto più prosaicamente- avvierà un impietoso processo di denigrazione[4] di Beatriz Viterbo, di colei che lo ha rifiutato per sposare un altro uomo, dal quale poi comunque divorzierà, morendo anch’ella molto giovane e lasciando  di sé nient’altro che i dipinti che la ritraggono, esposti nella sua casa di calle Garay dove il nostro, il 30 aprile di ogni anno, si recherà per commemorarla insieme al padre e al cugino.
Questo lutto, silenzioso e prolungato, culminerà in una scoperta tragicomica:  quella di un’antica tresca tra la defunta e il cugino Carlos, rivelazione che avrà luogo in un modo piuttosto insolito, ovvero, attraverso una delle più belle invenzioni letterarie di Borges: guardando dentro l’Aleph, «uno de los puntos del espacio que contienen todos los puntos»[5] mostratogli dall’incauto  cugino di Beatriz, un punto che si trova nei sotterranei della casa di calle Garay,  luogo magico che rischia di scomparire poiché la casa sta per essere demolita, e proprio per evitarlo viene chiesto al protagonista del racconto di intercedere presso chi di dovere.  Ma l’aver scoperto l’inganno farà rinsavire definitivamente il narratore della storia e farà di Beatriz una parodia della Beatrice dantesca.

L’Aleph, l’altro punto di contatto tra Dante e Borges, altro non è che la rappresentazione borgesiana dell’Empireo dantesco, di quel luogo dove tutto è perfetto, vicino e lontano, al contempo presente e passato perché lì tempo e lo spazio non esistono ma sono. Dove, per dirla con Dante

“a quella luce cotal si diventa,
che volgersi da lei per altro aspetto
è impossibil che mai si consenta:
però che ‘l ben, ch’è del voler obietto,
tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella
è defettivo ciò che lì è perfetto”[6]

Infatti, la piccola sfera di due-tre centimetri che sprigiona, illuminata dal sole, un’intollerabile fulgore, è il prodigioso Aleph che contiene lo spazio cosmico per intero, dove ogni cosa diventa un’infinità di altre cose diverse, un luogo pieno di occhi che ci guardano e di specchi che non riflettono alcunché, dove tutte le lettere di tutti i libri dell’intero universo sono presenti, dove il giorno e la notte, l’alba e il tramonto coesistono, e dove, al termine delle sue osservazioni attraverso la sfera, il narratore dopo aver visto circolare il sangue all’interno del proprio corpo, aver scrutato gli ingranaggi dell’amore, visto i cambiamenti della morte, e poi ancora, scoperto la Terra dentro l’Aleph e l’Aleph nella Terra, guardato il suo volto, le sue viscere… scoprirà le compromettenti lettere di Beatriz indirizzate a Carlos, piene di oscenità erotiche.

Povero Borges e povero Dante, cosa non si farebbe per una donna!


[1] Conferenza sulla Divina Commedia tenuta la sera del 1 giugno 1977 al Teatro Coliseo di Buenos Aires
[2] Incipit di “El Aleph”, edizione Alianza Editorial, p. 155, tdr
[3] Nove saggi danteschi di Jorge Luis Borges, edizione Adelphi, p. 93
[4] idem, p. 153
[5] El Aleph, edizione Alianza Editorial, p. 165
[6] Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, canto XXXIII, vv.100-105

Racconti? Perché no! (un anno dopo)

Alan Turing Enigma’s notes – Bletchley Park Trust

«Ah, dimenticavo, la prossima volta parleremo di qualche racconto indimenticabile».

Si erano lasciati così questi due strani personaggi, la Lettrice Dei Due Mondi (L) e il SignorNo (S) – la conversazione iniziale la trovate qui. Un anno dopo, del tutto casualmente, si ritrovano all’interno di una piccola libreria, lui intento a sfogliare romanzi fantasy, lei in cerca di novità tra i romanzi d’autore. Riprendono così il dialogo interrotto.

L: «…Insomma, hai letto per caso qualche racconto tra quelli che ti ho suggerito? Ne hai trovato almeno uno indimenticabile?»

S: «Ehm… Definisci indimenticabile?»

L: «Bella domanda. Be’, non credo che ci sia un’unica risposta perché dipende sia dal lettore che dallo scrittore. Comunque, per me indimenticabile è un racconto che posso anche definire classico, uno di quelli che ‘non hanno mai finito di dire quel che hanno da dire’ per citare Calvino, uno che di racconti se ne intendeva»

S: «Di solito, però, è più facile definire classico un romanzo, non un racconto»
L: «Si ma, a pensarci bene, ci sono dei racconti di cui basta citare l’incipit per riconoscerlo proprio perché appartengono alla categoria degli indimenticabili. Ad esempio, questo: Gregor Samsa, destandosi un mattino da sogni agitati, si trovò trasformato nel suo letto in un enorme insetto immondo; sono certa che perfino tu sapresti indicare titolo e autore…o no?»

S: «Oh…ma che siamo, a una partita di Trivial Pursuit Letterario?»

L: «Non dirmi che non lo riconosci?»

S: «Io di ‘Gregor’ conosco solo la saga della Collins, quella che ha scritto anche Hunger Games»

L: «Uhm… la faccenda è grave, allora. Proviamo con questo: Per tutta una fosca giornata, oscura e sorda, d’autunno, col cielo greve e basso di nuvole, avevo cavalcato da solo traverso a una campagna singolarmente lugubre fino a che mi trovai, mentre già cadeva l’ombra della sera, in vista della malinconica casa degli Usher»
S: «Usher… Usher… Usher… non è il consigliere personale del Presidente in House of Cards

L: «Non ci posso credere! Mi verrà un infarto, di questo passo. Facciamo un altro tentativo, l’ultimo. Ti cito questo incipit facile facile: Dicevano che sul lungomare era comparso un nuovo personaggio: la signora col cagnolino»

S: «Questa la so, è il racconto che tanto piaceva alla protagonista del film The reader!»

L: «Sì, ma…chi era l’autore di quel racconto?»

S: «Ehm…uhm…boh, non lo so»

L: «Incredibile. Impossibile. Inammissibile. Intollerabile. Inaccettabile. In…»

S: «Ehi, ehi… Hai finito con le critiche? Oppure stai facendo una lista di aggettivi che iniziano con la ‘i’ per giocare a Nomi-Cose-Città? Non è poi così grave, dài!»

L: «No, certo che non è grave, è gravissimo. Secoli di favole, fiabe, novelle e racconti buttati al cesso, se tutti fossero come te»

S: «Guarda che, se non leggo racconti, mica divento una statua di sale, eh! Vivo bene lo stesso»

L: «Si, certo, è che…»

S: «È che…cosa?»

L: «Che non posso invitarti a partecipare alla gara del secolo, quella a cui si iscrivono dei veri nerd letterari, ti saresti divertito. È un concorso tipo Sarabanda, solo che invece di indovinare il titolo di una canzone ascoltando qualche nota musicale, bisogna indovinare quello di un libro partendo dall’incipit. C’è un elenco di autori da studiare e ci sono delle selezioni da superare ma una di queste riguarda proprio il racconto»

S: «Interessante. Lo sai che il lato ludico della vita è ciò che stimola maggiormente la mia materia grigia. Mi piacerebbe molto partecipare, come possiamo rimediare?»

L: «Ho un’idea. Ti propongo un brano crittografato che contiene sei incipit, più o meno famosi, di altrettanti racconti. Ti darò una dozzina di libri da leggere, un elenco di raccolte di racconti da consultare o leggere in biblioteca e una settimana di tempo per risolverlo. Se ci riuscirai e, senza esitazioni, saprai citarmi autori e racconti, verrai con me alla gara. Che ne dici?»

S: «Le sfide mi piacciono. Sono pronto»

L: «Mi sento come gli altissimi ministri Ping, Pang e Pong. Naturalmente, non hai la minima idea di chi siano, vero?»

S: «Già…»

L: «Lascia perdere. Una cosa in più da scoprire. Ecco il testo:

“1 2 3 4 5 4 6      2 7     8 9 1 10 6 3 2 3 8     5 10     3 8 11 12 6     7 5     13 5 6     1 2 7 3 8,    7 5     11 5 6 3 12 6     5 12    11 5 6 3 12 6     14 2 7 6     2 10 10 6 12 4 2 12 2 12 7 6 13 5     7 2 10 10 2     15 5 4 4 2     8     10 8     12 6 4 5 19 5 8      15 16 8     13 5     11 5 17 12 11 6 12 6     9 5    18 2 12 12 6     9 8 13 1 3 8     1 5 17     3 2 3 8.”   

“12 6 12     15’8`     11 3 2 12 15 16 8´     7’2 9 1 8 4 4 2 3 9 5     7 2     17 12     13 2 8 9 4 3 6     7 5     9 15 17 6 10 2: 19 17 8 9 4 6     10 6     9 6     15 6 12 8     6 11 12 5     2 10 4 3 6.”

“15 2 7 8 3 8     12 8 10    14 17 6 4 6     15 6 13 8     15 2 7 8 14 6     5 6, 12 89 9 17 12 6     7 5     14 6 5     9 2    15 6 9 2    14 17 6 10     7 5 3 8.”

“5 10 10 2 14 6 3 6     7 5     2 13 13 6 3 20 5 7 5 3 8     5 10     13 2 4 4 6 12 8     4 17 4 4 5     5     11 5 6 3 12 5, 5 10     10 2 14 6 3 6     7 5     2 1 3 5 3 9 5     17 12     1 2 9 9 2 11 11 5 6     12 8 10 10 2     13 2 9 9 2     2 1 1 5 15 15 5 15 6 9 2     15 16 8     9 5     1 3 6 15 10 2 13 2     13 6 12 7 6, 6 11 12 5     13 2 4 4 5 12 2    5 12 15 5 2 13 1 2 3 8     12 8 10     1 2 3 2 10 10 8 10 8 1 5 1 8 7 6     7 2 10     12 6 13 8    3 5 1 17 11 12 2 12 4 8.”

“4 8     10 2     18 2 15 15 5 6     14 8 7 8 3 8     5 6, 10 2    9 1 10 8 12 7 5 7 2     11 5 6 3 12 2 4 2, 9 8     12 6 12     9 15 8 12 7 5     7 2     19 17 8 10 10 2     14 2 10 5 11 5 2     5 13 13 8 7 5 2 4 2 13 8 12 4 8.”

“8`     12 6 4 4 8     18 6 12 7 2    8     15’8`     17 12     1 17 1 6     2 10 10 2     13 5 2     18 5 12 8 9 4 3 2.»       

S: «Vado. Alea iacta est. Comincio subito a leggere»

L: «Ti aspetto tra una settimana. Buona fortuna».

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Mentre il SignorNo si prepara, anche voi potreste provare a scoprire i racconti e gli autori nascosti e inviarci la soluzione a  redazione@treracconti.it . Il primo che ci riuscirà, avrà una menzione speciale… da qualche parte!

La soluzione verrà in ogni caso pubblicata sulla nostra pagina https://www.facebook.com/treracconti/ fra una settimana. Buon divertimento!