Gabo, Isabel e la pioggia su Macondo

Si dice che alcuni autori sfruttino la loro vena creativa dedicandosi ad un unico lungo racconto, talmente lungo da impegnare tutta la loro esistenza nel farlo. Si dice che narrino sempre la stessa storia, ma da prospettive diverse, e lo si capisce perché è ambientata sempre nello stesso luogo, abitata dagli stessi personaggi, con piccole varianti che riguardano spesso la forma e non la sostanza, perché passano dal testo breve al romanzo – o viceversa – , dal racconto al testo teatrale, dal reportage al romanzo, e così via.

Macondo Gabriel Garcia Marquez
Foto di Anahi Martinez su Unsplash

Un autore che ha dedicato buona parte della sua vita a scrivere di uno stesso luogo,  immaginario ma così astrattamente concreto da diventare un microcosmo letterario cui attingere a più riprese, che ha dato  fiato a decine di personaggi  e costruito infiniti intrecci, che ha permesso a soggetti  secondari di diventare protagonisti in altrettante storie secondarie,  quasi a rappresentare  queste ultime delle porte cui si accede da un corridoio centrale e che immettono il lettore nel dietro le quinte della trama principale, è Gabriel García Márquez.

Per me García Márquez è stato uno di quegli autori approfonditi  a scuola, uno di quelli da programma scolastico di letteratura castigliana, perché, chi mi conosce lo sa,  ho trascorso sia l’infanzia che l’adolescenza in un luogo incantato e forse altrettanto irreale dal momento che oggi non esiste più, sopravvive solo nel ricordo di chi ci ha abitato. Era un piccolo paradiso tropicale sul Mar dei Caraibi, spazzato via dal degrado e dalla criminalità, trasformatosi da accogliente zona residenziale a quartiere malfamato, per cui sono particolarmente sensibile a chi insiste nel raccontare luoghi e storie che lo riportano “a casa”, come ha fatto Gabo con Macondo, trasposizione della sua Aracataca in Colombia. Il mio Macondo si chiamava Palma Sola (da non confondere con uno dei penitenziari più violenti e famosi del mondo, un carcere di massima sicurezza che si trova a Santa Cruz, in Bolivia).

Ma sto divagando… il fatto è che qualche giorno fa, mentre cercavo di ordinare in senso logico i tanti libri che possiedo, mi sono imbattuta in un libretto che, con la sua copertina giallo canarino e il titolo in caratteri anni settanta, mi ha catapultata in un attimo nel 1978 e ai miei quindici anni, età cruciale per ogni ragazza che viva e cresca in America Latina. Mai sentito parlare di quinceañera?

Tornando alle mie periodiche attività di catalogazione da bibliotecaria mancata, il libro emerso dal marasma è un racconto,  Isabel viendo llover en Macondo1, che oggi fa parte di una antologia successiva a Cien años de soledad,  ma che fu scritto e pubblicato  molto tempo prima, nel 1955,  su un quotidiano colombiano: El Espectador. La sua importanza  risiede, innanzitutto, in un dettaglio importante: è il primo testo in cui compare Macondo, anche se solo nel titolo. In secondo luogo, è un embrionale tentativo di flusso di coscienza alla Joyce (anche se io non sono molto d’accordo con chi sostiene che Gabo sia stato influenzato dal suo Ulisse); è in verità  un monologo, nato come tale e originariamente inserito nel primo romanzo di Gabo, La hojarasca2, un breve romanzo rifiutato da vari editori prima che fosse rimaneggiato  profondamente dal suo stesso autore. Questo monologo fu una delle tante parti a farne le spese ma alla fine è diventato un racconto autonomo.

A Macondo è sempre piovuto molto, qualcuno infatti ricorderà l’incipit di uno dei capitoli più esilaranti di Cent’anni di solitudine: «Piovve per quattro anni, undici mesi e due giorni»3, riuscite ad immaginare un fatto così straordinario? Temo di no se non siete mai stati per un lungo periodo in un paese tropicale, ma la pioggia che avvolge Isabel, isolandola dal mondo,  e che per un attimo la rende così  vulnerabile e inquieta, non è la stessa. Durerà molto meno, solo una settimana. Un tempo sufficiente però a farla precipitare in uno smarrimento tale da farle credere, a un certo punto, di essere morta: ha smesso di piovere, il silenzio ora avvolge tutte le cose, ma lei non se n’è accorta, e quando lo fa, le viene il sospetto che il tempo si sia  fermato, che  non sia trascorso in avanti ma che l’abbia riportata indietro, seguendo un’evoluzione  circolare, facendole rivivere la stessa domenica mattina di una settimana prima, all’uscita dalla messa:

«No sé cuanto tiempo estuve hundida en aquel sonambulismo en que los sentidos perdieron su valor. Solo sé que después de muchas horas incontables oí una voz en la pieza vecina. Una voz que decía: “Ahora puedes rodar la cama para ese lado”. Era una voz fatigada, pero no voz de enfermo, sino de convaleciente. Después oí el ruido de los ladrillos en el agua. Permanecí rígida antes de darme cuenta de que me encontraba en posición horizontal, entonces sentí el vacío immenso. Sentí el trepidante y violento silencio de la casa, la inmovilidad increible que afectaba todas las cosas. Y subitamente sentí el corazón convertido en una piedra helada. ‘Estoy muerta – pensè – Dios. Estoy muerta.’» 4

Al termine del racconto e a mo’ di postfazione, in questo libretto all’epoca pubblicato nell’ambito di una collana diretta da Ricardo Piglia – nome senz’altro noto agli appassionati di letteratura sudamericana -,  c’è un breve saggio di Ernesto Volkening, un critico letterario  di origine tedesca che, a proposito dell’opera di Márquez, sosteneva come fosse un esercizio del tutto inutile quello di capire quali fossero stati i suoi modelli ispiratori; Joyce? Woolf? No, forse Faulkner,  ma solo in parte, perché Gabo è prima di tutto un narrador de tierra caliente, nei suoi testi il clima tropicale è una presenza costante, il caldo è dappertutto, ovunque si muovano i suoi personaggi,  ed è proprio la temperatura torrida a riempire gli spazi vuoti tra un personaggio e l’altro – questo pensava Volkening -, l’elemento unificante, ineludibile e soffocante. Il caldo unifica, la pioggia invece isola, aliena, separa…  come accade a Isabel.

E lei che non è neppure  un personaggio di Cent’anni di solitudine prestato ad un racconto bensì  una delle tre voci narranti dei protagonisti di Foglie morte – romanzo corale a sua volta ambientato a Macondo -, con il suo monologo rappresenta  una di quelle porte infilate dal lettore che immergono in quella zona del mondo dove la pioggia persistente,  in certi periodi dell’anno, acquista un’intensità uniforme, un suono costante, come quello che accompagna chi percorre centinaia di chilometrico stando in treno, fino a intorpidirlo, ottundendogli i sensi. La madre era morta di parto, dopo aver trascorso gli ultimi tre mesi di gravidanza, spossata, sfinita e stanca, sulla sedia a dondolo che è in veranda, la stessa in cui Isabel, in attesa del suo primo e unico figlio, si trova ora a riflettere sulla pioggia che cade su Macondo, così copiosa e dirompente da far scoppiare le tombe e da riportare a galla, per le strade del paese, i corpi tumefatti e in decomposizione dei morti. Non succede molto altro; e a questo proposito, è molto interessante l’ annotazione finale dello stesso Volkening:

«En efecto los cuentos de García Márquez habrán de parecer estrañamente fragmentarios y dejarán perplejos a muchos lectores que, confiando en pisar tierra firme por dondequiera que vayan, dan un paso tras otro hasta quedar, de repente, con un pié en el aire. Allende la zona habitada de Macondo bosteza el vacío.» 5

Proprio così, si rimane con un piede per aria, in attesa del prossimo passo o della porta successiva.

  1. Editorial Estuario, Buenos Aires; il titolo in italiano è Monologo di Isabel mentre vede piovere su Macondo
  2. ovvero, Foglie morte
  3. [3]p. 308, edizione Oscar Mondadori
  4. “Non so per quanto tempo sono rimasta sprofondata in quel sonnambulismo che fa perdere valore ai nostri sensi. So soltanto che dopo molte interminabili ore udii una voce nella stanza accanto. Una voce che diceva: “Ora puoi girare il letto da quella parte”. Era una voce affaticata, non di un malato ma di un convalescente. Poi, ho sentito il rumore dei mattoni nell’acqua. Sono rimasta ferma prima di rendermi conto che ero in posizione orizzontale. Allora, ho avvertito un vuoto immenso. Ho sentito il trepidante e violento silenzio della casa, l’immobilismo che aveva colpito ogni cosa. E ho sentito il mio cuore diventare una lastra di ghiaccio. “Sono morta – pensai – Dio. Sono morta”  – traduzione propria
  5. ibidem [1], p. 42: “In effetti, i racconti di Gabriel García Márquez possono sembrare frammentari e lasciare perplessi molti lettori che, sperando di calpestare terra ferma ovunque vadano, danno un passo dopo l’altro fino a rimanere, all’improvviso, con un piede per aria. Oltre Macondo, non c’è che il vuoto.” – traduzione propria
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