C’è un amico di famiglia che ogni anno, in occasione del Natale, regala a me e alla mia compagna un sacchetto di cuneesi. Avete presente quei deliziosi cioccolatini il cui cuore di crema pasticcera al cioccolato fondente e rum (ma che ormai sono disponibili anche in altri gusti con o senza liquore) è racchiuso tra due cialde di meringa ricoperte di cioccolato? Se non li avete mai assaggiati vi consiglio, la prima volta che passate da Cuneo, di fermarvi in una delle tante pasticcerie del centro che li vendono. Farete un gustoso regalo al vostro palato e capirete anche perché, in un sito che tradizionalmente si occupa di racconti (e in un articolo che promette di parlare nello specifico di antologie di racconti), ho deciso di iniziare parlando di cioccolatini.
Obabakoak, Obaba Koak ovvero Storie di Obaba come traduce lo stesso Bernardo Atxaga (al secolo Joseba Irazu Garmendia) nel prologo a questa raccolta di racconti. Atxaga è considerato il più importante scrittore in lingua basca, e proprio nel prologo di questo libro parla dell’euskera, la sua lingua, una di quelle lingue che: «non hanno sorelle sulla terra». L’identità linguistica come legame fondamentale di una comunità è uno degli aspetti che stanno a cuore all’autore, e uno dei motivi per cui sono state scritte le storie di questo libro. Obaba infatti è un paese immaginario, ideale rappresentazione di un paese qualunque della comunità autonoma dei Paesi Baschi, al quale, appunto, l’autore appartiene.
Già pubblicata nel 1991 da Einaudi la raccolta, tradotta da Sonia Piloto Di Castri, è tornata lo scorso anno nelle librerie, edita da 21 lettere, con una coloratissima copertina verde lime che attira subito l’attenzione.
Se è vero che un libro non andrebbe giudicato dalla copertina è altrettanto vero che una grafica che sappia farsi notare gioca un ruolo chiave nel catturare l’attenzione di un potenziale lettore. Così è stato per me almeno, una copertina accattivante è stata un tramite per conoscere un altrimenti sconosciuto autore nel quale non mi ero ancora imbattuto… o almeno così credevo. Approfondendo un po’ la figura di Bernardo Axtaga infatti viene fuori che è anche autore di libri per bambini e ragazzi, e tra le sue opere figura anche Asini Rock1 una copia del quale era presente nella libreria del me decenne. Insomma, un paio di decenni più tardi è stato piacevole ritrovare un autore che avevo letto, e per quel che ricordo anche apprezzato, da bambino. Questo inciso vuole essere un piccolo aneddoto sui piaceri riservati a noi lettori, e non è un caso forse che sia capitato proprio con la lettura di un libro che di spunti e riflessioni sulla lettura e sul racconto ne fornisce diversi.
La raccolta è divisa in 4 sezioni o capitoli: Infanzie, Nove parole in onore del paese di Villamediana, In cerca dell’ultima parola, Una sorta di autobiografia. Il filo rosso che unisce tutti i racconti e l’ambientazione che fa da sfondo, Obaba o un paese simile, che talvolta è il vero protagonista della narrazione, mentre in altri casi rappresenta una cornice all’interno della quale si sviluppano altre storie. Spesso sono proprio i personaggi che vestono i panni del narratore, è così ad esempio per la terza sezione del volume, un’unica grande storia che ne contiene all’interno molte altre.
Nella sezione intitolata Infanzie si racconta di figure emarginate da una popolazione, quella di Obaba chiaramente, chiusa e legata alle proprie tradizioni, che non vede di buon occhio chi per qualche ragione si discosta dalla norma. Sono racconti un po’ sospesi tra la modernità e un passato che emerge nei comportamenti o nelle caratteristiche dei singoli protagonisti come dell’intera popolazione del paese, che rappresenta quasi un personaggio a parte.
Il piccolo garzone di Mugats aveva un modo di fare e degli atteggiamenti molto diversi da quelli che ci si possono aspettare da un ragazzo di dodici anni. In lui c’era qualcosa di antico, e quando parlava lo faceva con una certa gravità, con il tono di voce di chi ha sempre vissuto all’aria aperta, nei boschi, fra le rocce della montagna, sotto le stelle. In confronto agli altri alunni della scuola sembrava una persona grande e di un’altra epoca; soprattutto di un’altra epoca.
La seconda sezione della raccolta è anch’essa racchiusa in una cornice, espediente a cui Axtaga ricorre spesso. Il protagonista infatti racconta nel racconto, diviso in nove parti, il paese castigliano di Villamediana, attraverso nove storie sono collegate l’una all’altra, ciascuna delle quali dedicata a un aspetto diverso del paese, o a un diverso personaggio, e che si può leggere come un piccolo racconto a sé stante.
Il terzo capitolo del libro, In cerca dell’ultima parola, è il più corposo e ricco di racconti del volume. Tra i tanti mi ha colpito Il servo del ricco mercante una variazione sul tema dell’inevitabilità della morte, della storia resa popolare in Italia dalla canzone Samarcanda di Roberto Vecchioni, con la quale forse il racconto condivide l’ispirazione di origine orientale. Atxaga fa di più che riproporre la storia, e in un altro racconto, intitolato Dayoub, il servo del ricco mercante, immagina un nuovo finale per una questa storia antica, dove è la morte ad essere beffata.
Quella di Atxaga è un’opera fortemente metanarrativa, e tra un’avventura e l’altra i protagonisti si interrogano sul tema del racconto, organizzando sessioni di lettura animate da vecchi zii che recitano la parte dei custodi della tradizione e giovani nipoti affascinati dalla modernità. Tra tutti spiccano titoli come A proposito dei racconti, Come scrivere un racconto in cinque minuti e Breve esposizione sul metodo per plagiare bene, vere e proprie chicche che piaceranno a qualunque lettore e scrittore. Riporto un breve estratto dal terzo dei racconti citati, per dare un’idea del tono generale:
Una notte mi accadde di fare un brutto sogno, nel quale vedevo me stesso nel bel mezzo di una selva, aspra, selvaggia e forte. E poiché la selva era immersa nella più fitta oscurità e pullulava ovunque di ogni sorta di fiere, temendo che in quel luogo sarebbero finiti i miei giorni, ero oltremodo sgomento.
Familiare, vero? In questo caso però la funzione di guida salvifica non è affidata a Virgilio, ma a Pedro Daquerre Azpilicueta, uno dei principali scrittori baschi del diciassettesimo secolo, che come suggerisce il titolo consiglia al giovane scrittore di plagiare con astuzia le opere del passato piuttosto che perdere tempo a crearne di originali. Perché in fondo «tutte le belle storie sono già state scritte, e se non sono state scritte, vuol dire che erano brutte».
Nell’ultima, breve breve sezione della raccolta Axtaga traccia un’autobiografia della propria vita, immaginandola come un gioco dell’oca. Non si tratta propriamente di un racconto, piuttosto di una riflessione in cui l’autore torna a occuparsi della lingua basca riflettendo sulla sua condizione di scrittore, sulla necessità di scrivere libri in euskera, e sulle difficoltà dovute alla mancanza di antecedenti (che esistono, ma non sono sufficientemente numerosi a detta di Atxaga) per creare un linguaggio letterario comune:
Se un lettore legge un romanzo con molti dialoghi, è probabile che non veda gli iterati “disse”, “rispose” e “replicò” del testo. Quelle parole sono lì, ma per lui sono come gli alberi del suo viale: li ha visti tante volte che non li nota più, non ci fa caso. Scrivendo in euskera, non ho problemi con disse (esan), o con rispose (erantzun); ma comincio ad averne con replicò (arrapostu), proprio per il fatto che non è familiare al lettore, perché è come un albero che conosce, sì, e che però non hai mai visto in quel viale. E lo scrittore basco sa che il lettore si soffermerà su quella parola, che la sentirà come un’interferenza. Sono dell’opinione che la prima regola di un linguaggio letterario sia quella di non infastidire. Ed è lì, nella mancanza di antecedenti, nella mancanza di un numero di libri sufficiente a creare un costume, il punto dolente
Questo, come racconta egli stesso, non ha impedito all’autore di produrre, e con Obabakoak (che è stato pubblicato per la prima volta nel 1988) e i suoi lavori successivi ha sicuramente contribuito al rafforzamento della tradizione letteraria basca.
Il mio consiglio è quello di lanciarvi nella lettura, e di lasciarvi trasportare dalle atmosfere di questo piccolo gioiello letterario, che oltre a riflessioni profonde su lingua, letteratura e sull’arte dello scrivere offre al lettore molti bei racconti, con abbondanza di colpi di scena e personaggi memorabili …vi assicuro che a fine lettura non guarderete più un ramarro con gli stessi occhi.
Ho appena finito di leggere tutti i racconti di Virginia Woolf[efn_note]Oggetti solidi. Tutti i racconti e altre prose di Virginia Woolf, Racconti Edizioni[/efn_note] e credo che sia una buona maestra per chiunque decida di dedicarsi alla forma breve. In fin dei conti, ha scritto saggi, prose, racconti, romanzi, articoli di critica letteraria, moltissime lettere e un diario fino a pochi giorni prima della sua morte, quindi, le parole erano il suo pane quotidiano. Lasciamoci dunque guidare da lei per imparare ancora qualcosa sul mestiere (che lei definiva arte) di scrivere [...]
Il 2020, un anno che segnerà la nostra memoria collettiva. Come molti, anche noi di Tre racconti abbiamo cercato di colmare il nostro bisogno di conoscenza, di approfondimento, di evasione e, più in generale, il nostro bisogno di consolazione (per parafrasare il titolo di un bellissimo testo di Stig Dagerman) attraverso il potere delle parole. [...]
Dubus scrive in modo pacato, introduce il lettore nella storia dei personaggi in maniera delicata, ma allo stesso tempo vivida e precisa. Sebbene spesso ai suoi protagonisti capitino fatti spiacevoli, anche sconvolgenti, quello che mi trasmette è l’affetto che sembra provare per tutti loro. E credo sia proprio questa sensazione di calore umano che mi accompagna sempre quando leggo i suoi scritti a farmelo apprezzare tanto e a citarlo sempre per primo quando si parla di racconti. [...]
C’è un punto in cui
Martin Eden si guadagna il cuore dei lettori. La speciale fratellanza con tutti
coloro che riflettono con passione su come si scrive e su come nascono le
storie. Su quale sia il punto, la posta in gioco, su come si fanno le magie con
le parole.
Succede al capitolo quattordici,
quando Martin, dopo mesi di solitario, disordinato e intensissimo studio, si
decide a condividere finalmente con Ruth i suoi racconti. Le storie che ha
scritto e inviato a decine di editori, senza ottenere risposta, nella
convinzione di avere il talento necessario a muoversi in quella immensa «sala
delle carte di una nave» che è la conoscenza.
Una scena del film Martin Eden, liberamente tratto dall’omonimo libro di Jack London (foto 01Distribution)
Ruth è una ragazza di
buona famiglia, appena laureata in lettere, totalmente all’oscuro delle cose
del mondo. Lui è un rozzo marinaio che da lei, e per amore di lei, ha appreso
tutto. I rudimenti della grammatica, le norme del galateo, il linguaggio della
musica e persino l’igiene personale. Per Ruth ha imparato di nuovo a camminare,
a vestirsi, ad ascoltare.
Sa di non aver
scritto un capolavoro, ma quello che spera è che lei senta.
«Non so cosa penserà di questo» disse Martin scusandosi. «È un racconto divertente. Ho paura di aver voluto andare oltre le mie possibilità ma le mie intenzioni erano buone. Non faccia caso ai particolari, veda se riesce a sentire la grande cosa, l’anima del racconto. È grande ed è vera anche se, molto probabilmente, non sono riuscito a renderla in maniera comprensibile».
La condivisione non dà i frutti sperati. Ruth, nel timore di ferirlo, si nasconde dietro apprezzamenti tiepidi e qualche critica alla debolezza formale del testo. Poi arriva il giudizio. È troppo lungo, gli dice. Troppo pieno di cose che non c’entrano nulla. Martin se ne dispiace ma incassa. Dopotutto è una piccola conferma di ciò che pensa già da qualche tempo. Vuoi vedere che gli editori, gli scrittori e i lettori hanno paura del mondo? Ruth ha studiato il greco antico ma non sa nulla della vita, della bellezza di scorgere «i santi nella melma». 1
La «grande cosa»,
quella che Ruth non sente perché è imbevuta di morale borghese e perché giudica
sulla base di una generica idea di buongusto e secondo parametri estrinseci
(cioè la povertà di Martin), è quella che in tutte le epoche parla alle anime
che grattano con ostinazione la scorza che ricopre le cose e le persone. È l’esclusiva
preziosa di chi si mette in ascolto, in contemplazione del mondo e che non
cessa mai di sollevare interrogativi. È la forza che pervade tutto ed è allo
stesso tempo ciò che Martin Eden vuole disperatamente comunicare: la sua
visione del mondo. Magari cruda, a tratti violenta, indigesta, selvaggia, ma la
sua.
È una visione del mondo che contiene una tale urgenza di essere comunicata che esce fuori come una valanga. Sotto forma di saggio, di articolo, di reportage e, ovviamente, di racconti. Racconti di viaggio, di sopravvivenza, di confronto all’ultimo sangue con la natura, di lotta con gli istinti e con il selvaggio. Quella wilderness che è l’universo d’elezione di Jack London, il creatore di Martin Eden.
Jack London e il successo dei racconti
Il Klondike durante la corsa all’oro (1898). Regione in cui London ambienta diverse storie. Public Archives C8797/Library and Archives Canada
Si è molto scritto
della sovrapposizione tra il personaggio Martin Eden e il suo autore Jack
London. In effetti Martin è, in parte, un alter ego del suo creatore ma, come
sempre accade nelle opere metà tra romanzo di formazione e pamphlet, non
comprende appieno l’esistenza del suo autore. Più che un alter ego, Martin Eden
è piuttosto un Frankenstein di idee.
Il romanzo fu scritto tra l’estate del 1907 e il febbraio del 1908, venne pubblicato a puntate sulla rivista Pacific Monthly e poi in volume da The Macmillan Company nel 1909. È ancora oggi un testo potente in cui la denuncia della «mediocrità senza amore» tipica della borghesia americana si mescola con la narrazione della malattia della mente che prese lo stesso London quando arrivò il grande successo di pubblico. 2
Protagonisti di quel successo furono in larga parte i racconti, pagati molto bene dalle riviste. Storie che ripercorrevano le avventure dei cercatori d’oro (come quelle che London stesso aveva vissuto nel Klondike), dei marinai in giro per il mondo, degli uomini che rischiavano la vita in paradisi insidiosi e che spesso la perdevano nel tentativo di sfidare le leggi della natura. Erano storie allo stesso tempo americanissime e non, la cui forza stava (e sta ancora oggi) nella «grande cosa» sintetizzata da Martin Eden.
Un misto di avventura, erudizione e ironia feroce che (a differenza di quanto pensano le varie Ruth in giro per il globo) si sente sempre tra le righe. C’è nelle primissime prove di scrittura come Le mille e una morte3, quando London appena ventenne gira gli Stati Uniti per trovare la sua strada e uccidere simbolicamente il fantasma di suo padre (che abbandonò la madre quando seppe che era incinta e non riconobbe mai Jack).
C’è in Bâtard, che nelle intenzioni di London
doveva fare coppia con Il richiamo della
foresta, in cui uomo e cane lupo lottano in uno scontro incredibilmente
crudo. E c’è in quello che è considerato uno dei racconti più belli di London: Allestire un fuoco. Un racconto che
tiene insieme il magnetismo tipico delle storie raccontate attorno a un fuoco
(appunto), l’inferiorità umana di fronte alla grandezza misteriosa della natura
e degli animali, l’inutilità dell’erudizione quando si scontra con la wilderness, l’inevitabile e impari
confronto con tutto ciò che non è io. Le
leggi impietose della lotta per la sopravvivenza.
La vera conoscenza: a cosa serve accendere un fuoco
Tutto questo, a vari
livelli, si trova in London e nei suoi racconti. Leggerli oggi vuol dire
immergersi in un’arena in cui tutto è all’apparenza essenziale, ridotto ai
termini del primitivo, ma tutto è allo stesso tempo oggetto di ricerca e di
scoperta. Come una porta che può spalancarsi all’improvviso su altri mari da
navigare. La forza della prosa, tra le più incisive della letteratura
americana, si sposa con la ricerca esistenziale, con la conoscenza vista come
àncora di salvezza e di scoperta di sé. Una conoscenza che è allo stesso tempo capacità pratica di accendere un
fuoco e sensibilità di capire perché
quel fuoco ti serve, chi sei tu in confronto a quel fuoco, che senso hai.
Cosa sia questa
sensibilità lo spiega proprio la voce narrante-Jack London, che alla seconda
paginetta di Allestire un fuoco ci fa
dare una sbirciatina alla «grande cosa» che sta sotto scorza di ciò che è
visibile a tutti:
Ma tutto questo – la misteriosa, sterminata, filiforme pista, l’assenza del sole in cielo, il freddo spaventoso, e la stranezza, l’arcano dell’insieme – non aveva effetto sull’uomo. E non perché vi fosse ormai abituato. Era nuovo del posto, un chechaquo, e quello era il suo primo inverno. Il guaio è che era privo di immaginazione. Nelle cose della vita era sveglio, e sempre pronto, ma soltanto nelle cose, non nel loro significato (…) Quaranta gradi sotto zero per lui erano né più né meno quaranta gradi sotto zero. Che potessero celare qualcos’altro era un pensiero che non lo aveva mai sfiorato neanche da lontano.
Come a dire, è
inutile fare cose se non se ne comprende il senso. È come vivere a metà, o come
non vivere affatto. E allora che senso ha? Sarebbe come avere un corpo ma non
percepirne la presenza nello spazio circostante.
Ed ecco allora che in
un percorso circolare torna in mente Martin Eden nel foyer di un teatro. Mentre
con gli occhi cerca la sua Ruth in mezzo a una folla che non gli interessa,
riflette sulla sua posizione. Ricorda di avere sempre avuto «una vita segreta
nella sua mente» e di aver sempre desiderato una persona con cui condividere i
suoi «pensieri nascosti». Poi dice a se stesso anche un’altra cosa: «se la vita
aveva per lui un significato più elevato, allora era giusto chiedere di più
alla vita».
È il punto in cui Martin prende coscienza della decisione di elevarsi, di raccontare la sua visione, «la grande cosa». Il momento in cui decide che la conoscenza gli servirà per realizzare se stesso e unire i puntini della sua esistenza. Martin ha sempre visto sotto la scorza. Si è sempre interrogato sul senso del mondo. Fa parte di quelli per i quali quaranta gradi sotto zero non sono solo quaranta gradi sotto zero, ma un’occasione per sentirsi vivo. Un corpo pulsante che lotta contro il gelo e che esiste per uno scopo.
Martin ha
immaginazione, conoscenza e sensibilità. E vuole scrivere storie.
Prima o poi ci si trova a ripensare alla propria giovinezza. Sei poi sei uno scrittore come Heinrich Böll ripercorrere la strada della giovinezza significa anche scrivere un racconto che diventa un modello esemplare di autobiografia. [...]
Un racconto che funzioni è come una goccia che scava nella roccia, trafigge e si insinua lentamente nella mente del lettore che comunque tornerà a rileggerlo più e più volte perché sa che vi troverà qualcosa che la volta prima gli era sfuggita.
Nei Sillabari, elaborati sul finire degli anni '60, Goffredo Parise condensa la sua ricerca di un linguaggio intimo ed essenziale. I suoi racconti brevissimi, centrati su un sentimento o un'emozione, sembrano piccole favole moderne. Hanno la limpidezza formale delle poesie giapponesi ma sono allo stesso tempo sfuggenti e misteriose perché si scontrano con la parte irrazionale dell'uomo e della sua realtà interiore.
Vite di uomini non illustri di Giuseppe Pontiggia è una raccolta di diciotto brevi biografie organizzate secondo il modello delle Vite di autori classici come Cornelio Nepote e Plutarco. Tuttavia, mentre le biografie di Cornelio Nepote e Plutarco trattano le vite di uomini che hanno avuto un ruolo nella Storia, le biografie di Giuseppe Pontiggia trattano [...]