Il Principe felice di Oscar Wilde

È da poco passata l’Epifania (per alcuni, la Befana), una festa che ci porta indietro nel tempo, a ripensare a quando eravamo piccoli, ai nostri ricordi più lontani e alle storie che ci venivano raccontate a proposito di questa vecchietta, un po’ strega e un po’ nonna. Nel mio caso, ogni anno torno con la memoria al gennaio del 1970. Avevo sei anni e sotto la calza, insieme alla mia prima bicicletta, trovai il mio primo libro: Le avventure dell’Orso Teddy.

Wilde ai suoi figli le storie le scriveva e poi gliele leggeva. Il Principe Felice è il racconto dal quale prende il nome la prima raccolta da lui pubblicata nel 1888 (The Happy Prince and Other Tales), cinque fiabe dedicate ai suoi bambini, Cyril e Vyvyan, di tre e due anni. Sono storie malinconiche, adatte forse più ai grandi che ai piccoli, popolate da personaggi indimenticabili, talvolta un po’ irritanti.

Il Principe Felice di Oscar Wilde
Illustration for the hungarian edition by Ota Janeček

Alta sulla città, in cima a una maestosa collina, si ergeva la statua del Principe Felice. Il suo corpo era interamente ricoperto di sottili lamine d’oro fino, al posto degli occhi aveva due zaffiri scintillanti e sull’elsa della sua spada brillava un grande rubino rosso. [1]

Oltre al Principe Felice (fiaba del cuore spezzato e di un riscatto tardivo), troviamo Il Gigante Egoista (molto natalizia), L’Amico Devoto (una storia di amicizia e di stima non ricambiate), Il Razzo Straordinario (un personaggio pieno di sé, ignorato da tutti e destinato a esplodere senza poter essere ammirato da nessuno) e, infine, L’Usignolo e la Rosa (quello forse più straziante perché racconta di un sacrificio inutile).

Gli occhi del Principe erano pieni di lacrime e altre lacrime gli rigavano le gote dorate. […] “Quando ero vivo e avevo un cuore umano – rispose la statua – non sapevo cosa fossero le lacrime, perché vivevo nel Palazzo di Sans-Souci, dove il dolore non può entrare. Durante il giorno giocavo nel giardino con i miei compagni e alla sera aprivo le danze nella Grande Sala. Il giardino era circondato da un altissimo muro, ma non mi sono mai preoccupato di chiedere cosa ci fosse dall’altra parte, perché tutto intorno a me era così bello. I cortigiani mi chiamarono Principe Felice, e io ero veramente felice, se il piacere può considerarsi felicità. Così vissi, e così morii. E ora che sono morto mi hanno sistemato quassù, così in alto che posso vedere tutte le cose brutte e la miseria della mia città e, anche se il mio cuore è fatto di piombo, non posso fare a meno di piangere.”

Il Principe Felice è la storia di una statua e di una piccola rondine che, in procinto di volare verso lidi più miti, si innamora perdutamente di una canna e decide di rimandare la partenza; una notte, mentre sorvola la città in cerca di un riparo, scorge la scintillante statua del Principe, si posa ai suoi piedi e si addormenta. Nasce così un’amicizia che consentirà al Principe, attraverso i voli del Rondinotto, a dimostrare il suo amore per i poveri facendo loro dono delle gemme e dell’oro di cui è ricoperto, spogliandosi fino a diventare un oggetto sbiadito e grigio. Arriveranno poi la neve e il gelo e la piccola rondine, colpita dal freddo e logorata dalla stanchezza, alla fine crollerà.

Il povero piccolo Rondinotto aveva sempre più freddo, ma non voleva lasciare il Principe. […] Baciò il Principe Felice sulle labbra e cadde morto ai suoi piedi. In quel momento risuonò uno strano colpo all’interno della statua, come se qualcosa si fosse rotto. Il fatto è che il cuore di piombo si era spezzato perfettamente in due. Il gelo era terribilmente forte.

The Happy Prince è anche il titolo del film scritto, diretto, prodotto e interpretato da Rupert Everett. Presentato al Sundance Film Festival 2018 meno di un anno fa, The Happy Prince è incentrato sugli ultimi tre anni di vita dello scrittore, quelli successivi all’uscita dal carcere di Reading nel quale aveva scontato una condanna di due anni per gross indecency, ovvero sodomia.

Una scena del film The Happy Prince girata a Napoli

Ciò che mi rende caro questo racconto in particolare è l’aver scoperto qualche anno fa che Borges, a soli dieci anni, sfruttando il suo bilinguismo, lo scelse per tradurlo in spagnolo e che la sua versione fu pubblicata sul quotidiano El País di Buenos Aires, dando così il via a una delle sue tante apprezzabili attività letterarie: la traduzione.[2]

È sempre difficile per me immaginare Borges bambino, ma sono certa che lo sia stato, sebbene molto precoce.

Tornando a Rupert Everett, per lui Wilde incarnava la figura del Principe Felice, e forse aveva ragione. Quel racconto anticipava il suo destino, in qualche modo. Fino al cinque aprile del 1895, infatti, Wilde aveva vissuto in un mondo dove il dolore non aveva accesso: ricco, famoso, elegante, intelligente, brillante, con una passione sconfinata per il lusso e la bellezza che faranno di lui il principe degli Esteti, autore di commedie che lo renderanno celebre e che ancora oggi vengono rappresentate in tutto il mondo, come L’importanza di chiamarsi Ernesto o Il marito ideale. Pungente, anticonformista, generoso con gli amici e con gli amanti, capace di condensare in aforismi i tanti vizi e le poche virtù dell’era vittoriana. Creatore di uno dei personaggi più noti della letteratura universale – Dorian Gray, colui che di fronte al proprio ritratto, proclama di voler rinunciare alla propria anima in cambio dell’eterna giovinezza, dopo di che, il peso degli anni e dei suoi peccati non compariranno sul suo volto, ma sull’immagine del dipinto, fino all’epilogo che molti di voi certamente ricorderanno. Adulato, corteggiato, ospite fisso nei salotti mondani e, al tempo stesso, simbolo del decadentismo di fine secolo XIX.

Tutto questo fino a quel giorno di aprile in cui fu tradotto in carcere per la prima volta ed ebbe inizio così la sua seconda vita, quella che lo porterà a perdere tutto: moglie, figli (che cambieranno cognome dopo la condanna di Wilde assumendo quello di Holland), patrimonio, fama e salute.

Nel saggio L’età vittoriana nella letteratura, lo scrittore e giornalista G. K. Chesterton, non proprio un suo estimatore, sostiene che dal punto di vista letterario Wilde scrisse molte cose di cattivo gusto. Non necessariamente immorali, ma di quel cattivo gusto che porta a trattare un tema solenne con uno stile fiorito, sconfinando nel ridicolo e suscitando l’ilarità, uno stile misto di sensibilità e rozzezza. Non manca di riconoscergli però una certa forza e un certo peso, pur ritenendo che molti degli errori da lui commessi si confacevano all’unica cosa buona che egli fu davvero: uno spaccone irlandese – un lottatore. [3]

La mattina dopo di buon’ora il Sindaco stava passeggiando nella piazza sottostante in compagnia degli Assessori. Quando passarono vicino alla colonna guardò in alto verso la statua. “Povero me! Come sembra malandato il Principe felice! – disse. […] Poi fusero la statua in una fornace.

Così come il Principe Felice ai poveri, la seconda vita di Wilde ha regalato ai posteri due gemme preziose, come quei due zaffiri che ornavano gli occhi della statua: il De Profundis e La ballata del carcere di Reading (The Ballad of Reading Gaol). La prima è una lunga lettera a Lord Alfred Douglas, il suo giovane amante, che mostra il lato umano e più intimo di Wilde, il suo pentimento e la sua fede in Cristo (reale o presunta), forse la sua vera conversione pur essendo nato cattolico. La seconda è quella che lo stesso Chesterton definisce l’unica cosa vera che egli abbia mai scritto, un’invocazione alla giustizia e alla fratellanza universali, molto più profonda, democratica e fedele ai principi socialisti di quelli pronunciati da chi, in quegli stessi anni, in Inghilterra il socialismo lo propugnava, come George Bernard Shaw ad esempio. [4]

“Che cosa strana! – disse il responsabile degli operai alla fonderia – questo cuore di piombo rotto non si fonde nella fornace. Dobbiamo buttarlo via.” Così lo gettarono su un mucchio di spazzatura dove giaceva anche il Rondinotto morto. “Portami le due cose più preziose della città” – disse Dio a uno dei suoi Angeli; e l’Angelo gli portò il cuore di piombo e l’uccello morto. “Hai scelto in maniera giusta – disse Dio – perché nel mio giardino in Paradiso questo uccellino canterà in eterno e nella mia città d’oro il Principe Felice mi glorificherà.” 

E tra i versi più famosi della sua Ballata vorrei, infine, ricordarne due: «ogni uomo uccide ciò che ama», e l’altro, «chi vive più d’ un’esistenza dovrà morire di più di una morte».

Wilde ha sperimentato entrambe le cose, e se lui è stato il Principe Felice, il suo amico Robbie Ross è stato il Rondinotto della fiaba: dopo aver amato Wilde tutta la vita senza essere stato corrisposto, dopo aver curato la pubblicazione postuma del De Profundis, il cui manoscritto gli era stato affidato da Wilde appena uscito di galera, è rimasto fedele al suo fianco. Oggi le sue ceneri si trovano accanto alle spoglie del nostro caro Oscar, nella tomba parigina dove entrambi riposano.


[1] Questa come e altre citazioni del racconto Il Principe Felice sono tratte da “L’usignolo e la rosa e altri racconti”, traduzione di Francesca Gnetti, Edizione Nova Delphi

[2] “Il fattore Borges” di Alan Pauls, Edizioni Sur, p. 110

[3] “L’età vittoriana nella letteratura” di G. K. Chesterton, Adelphi pp. 182-183

[4] Ibidem, pp. 184-185

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