Inizio con un fatto piuttosto distante dal treno e dalla tematica ferroviaria che caratterizzerà questo articolo. Inizio con un film, un vecchio film di Michalkov con protagonista Marcello Mastroianni. Mi riferisco a Oci ciornie, film uscito alla fine degli anni Ottanta ispirato ad alcuni racconti di Anton Čechov. Be’ qualche giorno fa, dopo aver riletto ancora una volta La signora con il cagnolino, mi è venuta una certa voglia di riguardare [...]
Ogni anno, il 14 febbraio a San Valentino, si celebra la festa degli innamorati, in un tripudio di cuori di cioccolato, baci perugina, rose rosse, cene a lume di candela, dediche alla radio, canzonette stucchevoli e filmetti romantici in tv. Tutte attività che fanno molto bene al commercio e che hanno sostituito, nel corso del tempo, il semplice – e certamente desueto – scambio di biglietti d’amore d’origine anglosassone da cui è nato questo carosello: le c.d. Valentine.
E se invece volessimo scambiarci un racconto d’amore o sull’amore? Ecco… non fatevi troppe illusioni, spesso l’amore sta ai racconti come le acciughe stanno alla pizza Margherita: è del tutto assente!
Forse perché l’amore è difficile raccontarlo in poche pagine? O perché per scrivere un buon racconto occorre quella freddezza d’esecuzione, di cui parlano spesso gli autori di short stories americane, che le intermittenze del cuore e le sue mille implicazioni non favoriscono? Eppure, si dice spesso che un buon racconto dovrebbe prendere spunto da un particolare e condurre il lettore verso una piccola verità universale. E cosa c’è di più universale dell’amore?
O forse è vero che l’amore, con le sue mille sfaccettature, è meglio lasciarlo ai romanzieri, alla loro capacità di costruire intrecci complessi, malintesi fuorvianti, trame contorte, storie corpose che tanto servono a rendere quanto siano complicate le vicende del cuore, immaginando situazioni che possono culminare, a seconda dell’esigenza narrativa, in un finale felice o in una conclusione straziante?
Camus, ne L’uomo in rivolta, sosteneva che
Il mondo del romanzo non è che la correzione di questo mondo, secondo il desiderio più profondo dell’uomo. Perché si tratta proprio dello stesso mondo. La sofferenza è la stessa, e la menzogna e l’amore. I suoi eroi hanno il nostro linguaggio, le nostre debolezze. Le nostre forze. Il loro universo non è più edificante e più bello del nostro. Ma essi almeno corrono fino in fondo al loro destino e anzi, non ci sono eroi più commoventi di quelli che vanno all’estremo della loro passione». [1]
Ma nei racconti, invece, cosa succede quando di mezzo c’è l’amore? Il primo racconto a cui ho pensato mentre riflettevo sull’argomento, forse perché già il suo titolo è un invito a farlo, è stato Di cosa parliamo quando parliamo d’amore di Carver, un racconto che molti di voi conosceranno, per via di quella fortunata circostanza che qualche anno fa – tra il 2014 e il 2015 – lo portò alla ribalta, insieme al pluripremiato film Birdman di Iñarritu.
Nel film, di quel racconto veniva proposta una riduzione teatrale ad un gruppo di attori, e gli stessi si stavano preparando per portarlo in scena a Broadway; durante le prove, le due coppie protagoniste si vedono costrette, loro malgrado, a fare i conti con le domande piuttosto provocatorie e imbarazzanti che Carver pone, o fa porre, ai personaggi del racconto, passando così dalla finzione della recitazione teatrale a quella cinematografica, da una storia all’altra, in un continuum. Una di queste domande potremmo riassumerla così: dov’è che va a finire l’amore che abbiamo provato per qualcuno che ora non amiamo più?
C’eravamo messi a parlare d’amore. Secondo Mel, il solo vero grande amore era quello spirituale. (…) In effetti che ne sappiamo noi dell’amore? – ha proseguito Mel – Secondo me, siamo tutti nient’altro che principianti, in fatto di amore. (…) C’è stato un momento in cui credevo di amare la mia prima moglie più della vita. Invece ora la detesto con tutto il cuore. Davvero. Voi come lo spiegate? Che cosa è successo a quell’amore? (…) come se sapessimo di cosa parliamo quando parliamo d’amore. [2]
Già… dove va a finire? Certo, oggi non sarebbe proprio il giorno adatto per chiederselo, però si sa che noi di Tre racconti siamo un po’ lettori e un po’ samurai.
Comunque, un altro aspetto interessante è che nei racconti l’amore non è mai quello impacciato del corteggiamento o infuocato dell’innamoramento e gli eventi, di solito, precipitano in fretta: un tradimento, un terribile segreto, una morte improvvisa, un abbandono… insomma, in quattro e quattr’otto, tutto si compie! Qualche volta c’è il lieto fine, il più delle volte si consuma la tragedia.
E poi, i titoli! Non sono d’aiuto nemmeno quelli, alcuni sono perfino ingannevoli. La prima volta che ho letto Primo amore di Turgenev, ad esempio, sono rimasta un po’ delusa – da quella inguaribile romantica che sono -, perché è la storia di un sedicenne che s’innamora, per la prima volta e con ardore adolescenziale, di una principessina di cinque anni più grande di lui, e quindi uno si prefigura un’iniziazione amorosa mentre invece, nel giro di poche pagine, si passa dallo struggimento d’amore all’attraversamento della linea d’ombra che trasforma un ragazzo in un adulto, un Otello geloso in uno scolaretto: il giovane scopre che la ragazza, di nome Zinaida, è l’amante del padre e che questi è dunque il suo improbabile rivale in amore.
Altri sono fin troppo letterali. È il caso di Amore cieco di Pritchett. Dal titolo potremmo pensare ad una travolgente ed accecante passione amorosa, invece, è proprio la cecità in senso stretto a far incontrare e poi unire due persone che, altrimenti, forse non si sarebbero mai incrociate.
Poi ci sono i titoli fuorvianti. Anche la Welty, per esempio, ha intitolato un suo racconto Primo amorema, in quel racconto, di amore in senso stretto non ce n’è traccia; il tema centrale è, in realtà, il fascino subito e l’ammirazione provata da un orfanello, sordo e dodicenne, che si trova casualmente a vivere la Storia con la esse maiuscola, niente baci e languide carezze.
Ma i miei racconti preferiti sono quelli in cui l’amore, se c’è, si tinge di grottesco e i personaggi diventano ridicoli, perché credo che non ci sia niente al mondo che ci renda più ridicoli dell’amore, o forse dovrei dire dell’innamoramento. Per il grottesco, chiamo in causa la regina del genere, Flannery O’Connor. In Brava gente di campagna c’è uno dei dialoghi amorosi più bizzarri che io ricordi: lui, venditore porta a porta di bibbie, ha furbescamente circuito una ragazza disabile con una gamba di legno, la porta in un fienile perché vuole una prova d’amore e quello che le chiede è di mostrarle la sua gamba di legno:
«Lo sapevo», brontolò lui, rizzandosi a sedere, «tu mi prendi in giro».
«Oh no!» gridò Hulga. «Si attacca al ginocchio, solo al ginocchio. Perché vuoi vederla?».
Il ragazzo le lanciò uno sguardo lungo e penetrante. Perché è quella, che ti rende diversa. Non sei come nessun’altra. [3]
Anche Cortázar mi ha regalato dei bei momenti col racconto Circe. Delia, una ragazza di ventidue anni, già al secondo lutto per via di due fidanzati morti stecchiti per cause non del tutto chiare, è oggetto dei pettegolezzi a mezza bocca di tutto il vicinato; si lascia corteggiare da Mario, che ha tre anni meno di lei; presto inizierà anche lui a frequentare la casa dei Mañara, in qualità di terzo fidanzato. Lei aveva una strana abitudine: preparare cioccolatini e bon bons (non necessariamente per una ricorrenza, tanto meno per San Valentino!) e farli assaggiare solo e soltanto al proprio fidanzato di turno. Be’, il fatto è che i cioccolatini di Delia erano molto particolari: contenevano un ingrediente segreto, croccante e munito di zampette… che lo sventurato fidanzato scopre al primo morso, giusto in tempo per darsela a gambe e lasciare la povera Delia ancora una volta senza fidanzato ed irrimediabilmente proiettata verso il nubilato perpetuo.
Il racconto si chiude con queste parole: «Gli fecero molta pena i Mañara che erano lì acquattati sperando che lui – finalmente qualcuno – facesse tacere Delia che piangeva, facesse finalmente cessare il pianto di Delia».
Parenti serpenti!
Insomma, per farla breve, se cercate qualcosa di romantico nei racconti (una frase, un’immagine) da dedicare a qualcuno, di romanticismo ne troverete sempre ben poco. Per quello, meglio rivolgersi alla poesia oppure sfogliare un bel romanzo che ruoti intorno all’amore. Però, attenzione: siate originali, niente frasi dal Piccolo Principe, troppo inflazionato.
Parola di Lettrice!
P.S. Oggi è anche il Mercoledì delle Ceneri, quello della locuzione latina memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris, che per tutti è quel famoso “polvere sei e polvere ritornerai”, il giusto richiamo per ridimensionare i nostri slanci e i nostri afflati amorosi.
____________________
[1] Albert Camus, “L’uomo in rivolta”, Bompiani, p. 287.
[2] Raymond Carver, “Da dove sto chiamando”, Einaudi, pag. 170 – 186.
[3] Flannery O’Connor, “Tutti i racconti, Bompiani, p. 314.
«Chiunque non legga Cortázar è condannato», recita l’ormai famosissima citazione di Pablo Neruda. Io aggiungerei che uno scrittore di racconti – o aspirante tale – lo è a maggior ragione. Non solo perché lo scrittore argentino ci ha lasciato delle raccolte di racconti memorabili, ma anche perché Cortázar non ha mai smesso di riflettere sulla forma racconto, né di auspicarne un futuro più radioso rispetto alla condizione di minorità in cui era stato confinato.
«Vivo in un paese, la Francia – scrive Cortázar nel testo di una conferenza sul racconto pubblicato nel 1962 -, dove questo genere ha scarso vigore […]. Mentre i critici continuano ad accumulare teorie e a intrattenere accese polemiche in merito al romanzo, quasi nessuno si interessa alla problematica del racconto».
Cortázar, invece, lo ha sempre fatto, continuando a leggere, a tradurre, a citare e a entusiasmarsi davanti a un testo breve di Poe o di Henry James, di Kafka o di Čechov. Per lui il racconto non è affatto un genere minore, ma è «il fratello misterioso della poesia in un’altra dimensione del tempo letterario»; per Cortázar:
«l’efficacia e il senso del racconto – scrive nel testo Del racconto breve e dintorni (in Ultimo round, 1969) – dipendono da quei valori che danno alla poesia e anche al jazz il loro carattere specifico: la tensione, il ritmo, la pulsazione interna, l’imprevisto dentro parametri pre-visti, quella libertà fatale che non ammette alterazione senza una perdita irreparabile».
Pochi come Cortázar hanno saputo coniugare quell’istinto poetico, quell’esigenza di creazione spontanea, quello slittamento in uno stato di trance, nel cosiddetto état second, con la lucidità della sapienza narrativa e – nei suoi racconti fantastici in modo particolare – con il perfetto dosaggio del soprannaturale nell’intreccio.
La mia ammirazione incondizionata per Cortázar, tuttavia, è recente e risale a pochi anni fa. Avevo già letto Il gioco del mondo e qualche racconto (tra cui Il persecutore, ispirato al sassofonista Charlie Parker, e il meraviglioso Autostrada del Sud), ma la passione è scoppiata quando – un po’ per caso – incontrai in un bar parigino una ragazza spagnola, professoressa di italiano a Barcellona, che tra una birra e l’altra mi parlò di un racconto che non conoscevo: Manoscritto trovato in una tasca. Fissandomi con i suoi occhi scuri e luminosi e stuzzicandomi con il suo sorriso un po’ sornione, mi disse che il testo parlava di un gioco di incontri casuali tra un uomo e alcune donne in metro. C’era di mezzo il riflesso dei loro volti sui finestrini del treno e quell’hasard objectif dall’eco surrealista per cui io andavo matto. Le promisi che l’avrei letto e le chiesi il numero per farle sapere cosa ne pensavo. Le solite scuse, insomma.
La sera stessa, cercandolo su internet, scoprii che il racconto era incluso nella raccolta Ottaedro e in breve tempo realizzai di averlo già comprato ai tempi dell’università. Decisi, quindi, di aspettare di tornare al paesello – laddove tutti i libri di quel periodo della mia vita erano custoditi – per leggerlo. Non solo trovai quel racconto eccezionale, non tanto per la tematica – di per sé molto attraente (oggi un uomo come il protagonista di quel racconto sarebbe stato denunciato per stalking) – ma per lo stile, che mi fece l’effetto di uno stream of consciousness perfettamente decifrabile, ma soprattutto molto elegante ed estremamente onirico, pur nella concretezza della storia che delineava.
Con calma, affrontai anche gli altri sette racconti della raccolta: un uomo che immagina il suo funerale, un letterato che scrive una biografia sul suo mentore smascherando in maniera grottesca le invidie e gli arrivismi dei salotti culturali, la bella e giovane Lina che seduce il vecchio Marcelo e via dicendo. Otto racconti che rappresentano le otto facce dell’ottaedro del titolo e, di conseguenza, la poliedricità di temi, di stili, di linguaggi, di punti di vista, di strategie testuali con cui Cortázar è capace di giocare, senza mai rinunciare alla poesia.
Insomma, Ottaedro – per quanto rappresenti un’opera ambiziosa e non di facile accesso – è stata per me un valido apripista per la progressiva scoperta di tutte le altre raccolte di racconti di Cortázar, ma soprattutto un autentico detonatore della mia voglia di provare a scrivere un racconto e a lavorare su un’idea – in primis – e poi sul suo sviluppo narrativo. Una perla rara. Per palati fini.
Federico Iarlori ha pubblicato L’ora del bucato sul primo numero di Tre racconti. Per leggerlo, puoi scaricare il Pdf disponibile qui. Per sfogliare la rivista, invece, clicca qui.