Ho letto per la prima volta di Flannery O’Connor circa tre anni fa, nonostante avessi in casa una sua raccolta di scritti e racconti acquistata almeno quindici anni prima. La raccolta porta il nome di uno dei suoi racconti più famosi, La schiena di Parker, e per qualche strana ragione mi ero convinta che quel racconto – come del resto tutto il libro – parlasse di piantagioni di cotone, di schiavitù, di intolleranza razziale e di conflitti sociali ambientati nel sud degli Stati Uniti d’America.
Mentalmente, lo associavo a Il buio oltre la siepe di Harper Lee, e quindi a uno di quei libri che è meglio leggere quando si ha la giusta predisposizione ad affrontare argomenti culturalmente e socialmente impegnativi. Ebbene, niente di più lontano dal contenuto di quel libro, ma anche niente di meno impegnativo. Parker’s back, tra l’altro, è diventato uno dei miei racconti preferiti, letto più e più volte, ed è di questo racconto che oggi vi parlerò.
Chiunque ami la forma breve, prima o poi si imbatte in questa scrittrice. Ma chi era Flannery O’Connor? Christian Raimo, nell’introduzione al volume Nel territorio del diavolo[1] la descrive così:
Senza parafrasi […] una narratrice intimamente religiosa, ortodossamente cattolica, sostenitrice dell’importanza dei dogmi, la quale – vissuta quasi tutta la vita in un piccolo paese del Sud provinciale e agricolo degli Stati Uniti, colpita da una malattia genetica, il lupus erythematosus, che porterà via il padre della ragazza, e poi si manifesterà come un destino del sangue sul suo corpo di venticinquenne, deturpandole progressivamente i lineamenti, minandole pesantemente il fisico, per condurla alla morte a soli trentanove anni – ha avuto la dedizione di consacrare questa breve e dolorosa esistenza al dono assoluto della scrittura.
Tutto vero, ma non sono certa che siano queste le parole giuste per invogliarne la lettura: sembra troppo cattolica, troppo dogmatica, troppo religiosa per essere letta, in un’epoca in cui parlare di fede cristiana può sembrare inappropriato, diventare inopportuno e suonare anacronistico.
Il fatto è che se, per combinazione, caso, scelta, coincidenza o fortuna, si leggono i suoi racconti, non la si dimentica mai più; anche quando non siamo certi di aver compreso fino in fondo la sua scrittura o di condividerne i contenuti, quando ci ribelliamo alla violenza che abita le sue storie, quando l’umana debolezza assume contorni grotteschi e la sua ironia pungente frantuma ogni emotività posticcia, sbaragliando il sentimentalismo a buon mercato. Il seme è piantato. E si continua ad apprezzarla, perché non lascia indifferenti, perché trascende la realtà, diventando inevitabilmente una pietra di paragone per ogni altro racconto che leggeremo in futuro.

I suoi racconti funzionano, sempre. Si dice che funzionino perché in mezzo a tutto ciò che è prevedibile, irrompe la grazia, che non è una faccenda di cori celesti o di visioni mistiche, ma è un auxilium Dei, «un evento di fronte a cui, come in un lampo, un protagonista del racconto comprende il suo destino, il suo vero destino. Il che non coincide, naturalmente, con un lieto fine». [2] E nemmeno, aggiungo io, con l’immagine che noi abbiamo di noi stessi e della nostra vita. Ma torniamo al nostro racconto.
La moglie di Parker era seduta sul pavimento della veranda davanti a casa, e stava sgranando fagioli. Parker era seduto su un gradino a una certa distanza da lei e la guardava fissamente, di malumore. Era brutta, davvero brutta. (…) Parker capiva perché l’aveva sposata – non avrebbe potuto averla in un altro modo – ma non riusciva a capire perché restasse ancora con lei. [3]
A quattordici anni, Parker vide per la prima volta, a una fiera di paese, un uomo coperto di tatuaggi dalla testa ai piedi; provò un immenso stupore e un «singolare disagio mise radici dentro di lui. Era come un ragazzo cieco, girato con tanta delicatezza da non accorgersi che la sua destinazione era cambiata». L’uomo tatuato era straordinario ai suoi occhi, a lui che «non era mai venuto in mente che ci fosse qualcosa di straordinario, nel fatto di esistere»; così, decise di diventare lui stesso straordinario agli occhi di qualcun altro. Di lì a poco deciderà di abbandonare la scuola, accetterà qualunque lavoretto pur di pagarsi i suoi tatuaggi – visto che sua madre, metodista, era del tutto contraria – e tatuarsi diventerà una sua ossessione. Si arruola in marina, collezionando tatuaggi in ogni angolo di mondo, fino a quando non viene congedato forzatamente, mentre «una cronica e latente insoddisfazione» si insinuavano in lui. È la domanda di un bene assente, cui tende ogni uomo, ma lui ancora non lo sa.
Dopo molti anni e tanti disegni quanti era in grado di ospitarne il suo corpo, purché a lui comodamente visibili (quindi, mai sulla schiena), Parker conobbe Sarah Ruth, la sua futura moglie, l’unica donna che non fosse stata attratta dai colori sgargianti e dalle figure disordinate che componevano i suoi tatuaggi. D’altronde, per Sarah Ruth, figlia di un predicatore del Vangelo Semplice sempre in giro a far propaganda, quella era solo una forma di pura vanità. Era una ragazza sempre intenta a fiutare il peccato in ogni dove, con la testa piena di versetti biblici e un perenne atteggiamento di condanna, preoccupata solo del rispetto delle regole che le avrebbero garantito la salvezza quando si fosse trovata di fronte al Tribunale del Signore. Una donna di fede ma proiettata verso l’aldilà, preoccupata più della forma che della sostanza.

Proprio questo suo atteggiamento indifferente ai tatuaggi fece presa su di lui. Una volta sposati, Parker comprese però che quel disagio interiore che lo aveva colpito era destinato solo a crescere dentro di lui, e «l’insoddisfazione aumentò al punto tale che non ci fu più mezzo di contenerla, all’infuori di un tatuaggio. E bisognava farlo sulla schiena, per forza. Un’ispirazione nebulosa e informe cominciò a mulinargli nella mente. Immaginava di farsi un tatuaggio al quale Sarah Ruth non avrebbe potuto resistere, un soggetto religioso». Continuava a chiedersi perché le rimaneva accanto, senza mai darsi una risposta.
Un giorno, alla guida di un trattore, mentre raccoglieva il fieno intorno ad un vecchio albero e pensava al disegno più adatto per la schiena, per un attimo fu accecato dal sole, «s’accorse che l’albero allungava i rami per afferrarlo» ma troppo tardi, poiché venne catapultato improvvisamente per aria. Il trattore finì per schiantarsi contro l’albero prendendo fuoco, le fiamme divamparono e, mentre Parker tentava di capire cosa fosse successo, senza rendersene conto urlò «Dio del cielo!». Una vera folgorazione lo colpì, come Paolo sulla strada di Damasco[4], e pensò che se si fosse tatuato Dio sulla schiena, Sarah Ruth non avrebbe più avuto nulla da ridire e ne sarebbe rimasta affascinata.
Si recò senza indugio dal suo tatuatore di fiducia, ancora scosso per quel che era accaduto nel campo, chiese di vedere ‘il libro con tutti i ritratti di Dio’, e «da una pagina, un paio d’occhi gli lanciarono un rapido sguardo»; Parker continuò a sfogliare, ma una voce dentro la sua testa gli disse «Torna indietro!», una scena che richiama il tolle lege, tolle lege – prendi e leggi, prendi e leggi – udito da Sant’Agostino poco prima della sua conversione [5]; Parker tornò indietro e scelse «la testa severa e senza rilievo di un Cristo bizantino, dagli occhi divoranti. Rimase a sedere scosso da un tremito, e il cuore riprese lentamente a battergli, come se una forza inspiegabile l’avesse riportato in vita».
E il momento della grazia, ogni lotta interiore sta per concludersi, l’auxilium Dei è rappresentato da quel richiamo, che per i cattolici è ciò che previene, prepara e suscita la libera risposta dell’uomo. Parker, dopo due giorni e una notte fuori casa, dedicati alle sedute necessarie per realizzare l’opera d’arte sulla sua schiena, con l’ausilio di un paio di specchi «guardò, diventò pallido e s’allontanò, ma gli occhi del ritratto continuarono a guardarlo, immobili, fissi, divoranti, avvolti nel silenzio». Ed anche quando entra in un bar prima di riprendere la via di casa, e gli viene chiesto da alcuni tizi di mostrare il tatuaggio, «nella sala da biliardo scese un silenzio che parve diffondersi dal gruppo intorno a lui fino alle fondamenta, sotto l’edificio, e verso l’alto, più su delle travi del tetto.»
Ma il momento dell’accettazione della grazia, come atto di obbedienza ma al contempo di libertà umana, la O’Connor ce lo racconta così:
Parker rimase a lungo seduto per terra, nel vicolo dietro la sala da biliardo, a scrutare la propria anima. La vedeva come una ragnatela di verità e bugie, assolutamente priva di importanza per lui, ma necessaria a dispetto delle sue opinioni. Gli occhi che ormai dimoravano per sempre sulla sua schiena erano occhi ai quali si doveva obbedire. Ne era certo, come raramente gli era accaduto di esser certo di qualcosa. (…) L’insoddisfazione era sparita, ma non si sentiva del tutto se stesso. Era come se fosse se stesso ma estraneo a se stesso, e viaggiasse in un paese nuovo, sebbene tutto quello che vedeva gli fosse familiare, persino la notte.
Parker è un uomo nuovo, in stato di grazia, un uomo che ha liberamente accettato il dono che gli è stato concesso rispondendo alla chiamata (o all’adrenalina della decisione intossicata di mettersi a sedere per farselo fare sul serio – il tatuaggio -, senza considerare neanche per un momento – e mai, a nessun livello – l’irrevocabilità prodotta da quell’adrenalina, per dirla con D.F.W; senz’altro questione di punti di vista) [6]. Un uomo che finalmente si sente libero obbedendo e che obbedisce per accrescere la sua libertà.
Parker si sentì svuotare le ginocchia. Si girò di scatto e urlò:
-Guardalo! Non stare lì a parlare e basta. Guardalo!
-Ho guardato.
-E non sai chi è? -gridò lui, tra mille tormenti.
-No, chi è? – s’informò Sarah Ruth – Non è nessuno che conosco.
-È lui.
-Lui chi?
-Dio! – gridò Parker,
-Dio? Ma Dio non è così.
-E come fai, tu, a sapere che faccia ha? – gemette Parker – Mica l’hai visto?
-Dio non ha la faccia – spiegò Sarah Ruth – È uno spirito. Nessun uomo vedrà mai il suo ritratto. Idolatria!

Sarah Ruth caccia di casa il povero Parker, a colpi di scopa, come fosse un topo o un ragno, ottusa, guidata dalla sua idea di salvezza, come se non riconoscesse più suo marito. Ciò che avrebbe potuto unirli li dividerà per sempre. Ma per Parker non è una fine, è un inizio, e la storia si concluderà con il suo pianto liberatorio all’ombra del vecchio noce americano che è davanti alla loro casa.
Per la O’Connor, base dell’arte è la verità, anche se le sue opere sono rivolte ad un pubblico di lettori che crede che Dio sia morto, perché per lei la realtà è fatta da e quindi di Dio, e il gesto artistico è una via alla (ri)scoperta della natura misteriosa della realtà. [7] Flannery O’Connor non si sottrarrà mai alla verità, intesa sia come forma che come sostanza; per lei non c’era niente di più vero di un incontro che può cambiare la vita di un uomo, di un percorso che porti ad accettare il reale per quello che è e non per quello che di esso proiettiamo nella nostra mente, senza censurare il dolore, l’imperfezione, la finitezza umana, una realtà che lo renda libero, che lo redima e che lo renda strumento della Gloria di Dio. Perché per la O’Connor Dio non è morto, è presente qui ed ora, è incarnato.
Non è necessario essere credenti e cattolici per leggere storie come quelle di Parker e cogliere il significato più profondo di una ordinaria vicenda umana: chi di noi non ha mai provato il disagio interiore di Parker? Chi non ha mai desiderato di essere amato e accettato dalla persona amata? Chi non si è mai arreso all’obbedienza che la realtà stessa talvolta ci impone? Chi non ha mai avvertito gli «occhi divoranti» del proprio destino sulla sua schiena? È necessario piuttosto essere disposti a una lettura anagogica, capace di vari piani di significati possibili, per trovare quello che maggiormente ci corrisponde e coltivare quel piccolo seme che una lettura del genere impianta in noi, senza fermarsi in superficie alla pura e semplice trama, ma accettando di buon grado la sfida che impone misurarsi con il Mistero.
[1] p. 5, Nel territorio del diavolo, Minimum fax
[2] p. 13, dall’Introduzione di Davide Rondoni a Flannery O’Connor – La schiena di Parker – scritti e racconti, Rizzoli
[3] tutti i brani del racconto sono tratti dalla traduzione di Ida Omboni del racconto La schiena di Parker, contenuta in Tutti i racconti di Flannery O’Connor, Bompiani 1993
[4] Bibbia, Atti 9, 9-1
[5] p. 283, Le confessioni di Sant’Agostino, Einaudi
[6] p. 246, Infinite Jest di D. F. Wallace, Einaudi
[7] p. 7, ibidem nota [2]
Bellissimo articolo, grazie!