Pablo Neruda era lo pseudonimo di Ricardo Eliécer Neftalí Reyes Basoalto, il poeta cileno insignito del Nobel per la letteratura nel 1971. Ma perché Ricardo Reyes Basoalto si faceva chiamare Pablo Neruda?
La respuesta era demasiado simple y tan falta de maravilla que me la callaba cuidadosamente. Cuando yo tenìa 14 años de edad, mi padre perseguía denodadamente mi actividad literaria. No estaba de acuerdo con tener un hijo poeta. Para encubrir la publicación de mis primeros versos me busqué un apellido que lo depistara totalmente. Encontré en una revista ese nombre checo [n.d.r. Jan Neruda] sin saber siquiera que se trataba de un gran escritor, venerado por todo un pueblo, autor de muy hermosas baladas y romances y con un monumento erigido en Mala Strana de Praga. Apenas llegado en Checoslovaquia, muchos años después, puse una flor a los pies de su estatua barbuda.[1]
Questa è la spiegazione da lui stesso fornita in Confieso che he vivido, una raccolta di memorie e di frammenti autobiografici. Fin da quando lessi questo brano, molti anni or sono, mi ero ripromessa di scoprire qualcosa di più su questo semisconosciuto – almeno per me – Jan Neruda, ma mi ci sono voluti più di trent’anni – ed un recente viaggio a Praga – per dare seguito a quel mio proponimento.

Poche settimane fa infatti, prima di partire, avevo rispolverato tutti i racconti di Kafka, riletto Una solitudine troppo rumorosa di Hrabal, approfondito la storia di Vaclav Havel – e della sua Rivoluzione di velluto – attraverso la lettura di un suo breve ma importante saggio, Il potere dei senza potere, e alla fine sono approdata a I racconti di Malá Strana di Jan Neruda[2], purtroppo solo al mio ritorno complice un ritardo nelle consegne postali.
Malá Strana è un quartiere di Praga che si trova a due passi dal “ponte di pietra” – noto ai più come il ponte di Re Carlo – ed è lì dove ho alloggiato durante il mio soggiorno praghese del maggio scorso. Coincidenza? Non esistono le coincidenze.
Ad ogni modo, grazie a Jan e a questi suoi tredici racconti, sono riuscita finalmente a cogliere quello che, mentre ero lì, avevo soltanto intuito: quella «piccola parte» («malá strana» appunto) di città, stretta tra il Castello di kafkiana memoria, la collina di Petrin e il fiume Moldava, brilla di luce propria ed è diversa dai quartieri che si estendono al di là del ponte, sulla riva destra del fiume. Infatti, nonostante i turisti che lo attraversano frenetici tutto il santo giorno, magari solo per scattare un selfie e dimostrare così ad amici e parenti di essere stati lì, in quella splendida città; nonostante i tanti negozietti di souvenir, con le loro vetrine piene di riproduzioni del Bambino Gesù di Praga, una statuetta lignea oggetto di grande devozione tra i praghesi e non solo; nonostante siano passati più di cent’anni dalla pubblicazione di questi racconti, Malá Strana conserva ancora oggi quel «qualcosa di silenzioso, nobile, antico […] persino sonnacchioso» di cui Jan Neruda parla nel racconto I signori Rysanek e Schlegl, il secondo di questa raccolta. E aggiunge: «se il maggio è bello, Malà Strana è un paradiso, con il Petrin alle sue spalle avvolto nei bianchi fiori, come rigurgitasse latte da per tutto, impregnandola di profumo di lillà», proprio come l’ho avvertito io mentre ero lì.[3]

Jan Neruda ha scritto questi racconti ambientandoli tutti nel quartiere in cui è nato e vissuto fino in età adulta. Prima di allora, aveva iniziato molto presto a scrivere feuilletons per i giornali locali, inserti che andavano per la maggiore nell’Ottocento, pieni di vicende, personaggi e colpi di scena che nel suo caso, con ogni probabilità, riproducevano su carta stampata nient’altro che la vita di quartiere di Malá Strana, replicando gli stessi personaggi protagonisti delle sue storie: il birrario, il pittore, il sarto, la vedova, lo studente, gli innamorati, il mendicante, in altre parole il popolo brulicante fra viuzze, portici, abitazioni, taverne, chiese, cimiteri e parchi di quella parte della città.
Mi piace pensare che sia lui stesso l’io narrante di alcune di queste storie: ad esempio, il ginnasiale che osserva con timore e tremore i vecchi militari, impiegati e pensionati abitanti nella “parte sinistra” della Moldava nel racconto già citato; oppure, il bambino temerario e audace che si nasconde di notte nella Cattedrale di San Vito, ingannando la sua povera mamma, per assistere a La messa di San Venceslao e così poter smentire o confermare la leggenda che vuole il santo in carne ed ossa celebrante ogni notte, a mezzanotte in punto, la santa messa, nonché dimostrare ai propri amici il suo coraggio.
O ancora, uno dei quattro sbarbatelli della ”Associazione della pistola” che in pieno agosto preparano un attentato per distruggere l’Impero Asburgico, impadronirsi di Praga, espugnare la Cittadella del Belvedere, armati solo di un’unica pistola priva di polvere da sparo, un paio di fionde e qualche sasso in tasca, mossi da un afflato di indipendenza e di libertà dagli Asburgo, anche in questo caso per mostrare al mondo forza e determinazione (Come accadde che il 20 agosto del 1849 a mezzogiorno e mezzo l’Impero austriaco non fu distrutto è il titolo del racconto, dunque, l’attentato andò in fumo, naturalmente, ma i quattro ragazzini vissero un’esperienza altamente formativa ed esaltante).
Sarà stato sicuramente uno di quei giovani studenti dei Colloqui notturni, che al chiaro di luna si ritrovano sui tetti, durante le caldi notti di giugno, cullati dal mormorio delle chiuse della Moldava e dal canto degli usignoli del Petrin, per scambiarsi battute brillanti e idealiste fintamente esistenziali in dialoghi come questo, per esempio:
-Salve, Horova!
-Salve Kupka!
-Che fai? – chiese Kupka, studente del politecnico e futuro ingegnere, e si distese lentamente vicino a Horova.
-Che faccio? Mi sono rimpinzato di purè di orzo e ora aspetto di sentirmi male. Tu hai mangiato?
-Io ho cenato come cena Dio.
-E Dio che cosa mangia?
-Niente. [4]
Ma se la raccolta si apre introducendo il lettore in un luogo incantato, avvolgendolo nella magia del ricordo che lo stesso Jan Neruda conserva del suo quartiere, la stessa si chiude con Macchiette, una vera e propria galleria di personaggi al limite del grottesco, tutti impiccioni, chiacchieroni e superficiali, uomini e donne che sconvolgono la tranquillità tanto agognata dallo studente di legge che si è appena trasferito lì, a Malá Strana, un forestiero – per i malastranesi – in cerca della pace tanto decantata di quella parte di Praga, quella calma che avrebbe dovuto favorire la concentrazione a lui necessaria per completare i suoi studi; invece, proprio a causa loro dovrà ricredersi e sarà costretto a fuggire, dopo essere stato sfidato a duello e vittima di un equivoco amoroso, trovando rifugio dall’altra parte del fiume.
Jan Neruda ha vissuto in quel quartiere fino ai suoi trentacinque anni; se ne andò dopo la morte di sua madre e probabilmente, l’aver girato buona parte dell’Europa avrà fatto maturare in lui la consapevolezza che sono solo i ricordi e la nostalgia ad alimentare il legame con il luogo in cui si è cresciuti, anche quando rimaniamo da soli o quel luogo non è più lo stesso. Rimarrà pur sempre un rifugio interiore, un’isola che non c’è, ma guai a mitizzarlo: l’uomo, che per sua natura è un essere volubile e imperfetto, muta col mutare del tempo e insieme a lui cambiano e si affievoliscono i suoi ricordi. Tutto scorre. Infatti, sarà lo stesso Neruda a diffidare sé stesso dal coltivare l’inganno di un mondo idealizzato e perfetto, chiudendo il suo ultimo racconto con una frase piena di stizza e di fastidio, pronunciata dallo studente in fuga:
«E che Neruda venga ancora a scocciarmi con qualche “racconto di Malá Strana”!».[5]
Troverebbe pane per i suoi denti!
[1] P. Neruda, Confieso que he vivido, Ediciones Seix Barral – p. 223 – T.d.a. : “…perché Neruda si chiamava Neruda. La risposta era così semplice e priva di fantasia che la custodivo in me gelosamente. Quando avevo 14 anni, mio padre seguiva strenuamente la mia attività letteraria. Non accettava un figlio poeta. Per nascondere la pubblicazione dei miei primi versi, cercai un cognome che lo depistasse completamente. Trovai in una rivista quel nome ceco, senza neppure sapere che si trattava di un grande scrittore, venerato da un intero popolo, autore di bellissime ballate e romanzi e con un monumento eretto in suo onore nel quartiere di Malá Strana di Praga. Appena arrivato in Cecoslovacchia, molti anni dopo, deposi un fiore ai piedi della sua statua barbuta.”
[2] J. Neruda, I racconti di Malá Strana, Edizioni Utet Libreria.
[3] ibidem, p. 100
[4] ibidem, p. 133
[5] ibidem, p. 317