Bernard Malamud e Philip Roth si conobbero in Oregon nel 1961. Roth era lì perché doveva tenere una lezione di writing american fiction e un conoscente organizzò un incontro tra i due scrittori.
Già allora molto diversi, Malamud e Roth divennero amici; il loro fu un rapporto lineare finché Roth fece qualcosa di non troppo simpatico [...]
In un pomeriggio di aprile del 1959, Philip Roth era più impaziente del solito. Tre volte uscì di casa per raggiungere l’edicola sulla Quattordicesima Strada e trovare il nuovo numero del New Yorker; tra quelle pagine c’era Defender of the faith, il secondo racconto che aveva scritto, il primo pubblicato da una rivista importante. In quel periodo Roth aveva lasciato sua moglie Josie, si era trasferito nel Lower East side e aveva deciso che avrebbe provato a vivere soltanto della sua scrittura.
Defender of the faith è una storia ambientata sul finire della seconda guerra mondiale. Il protagonista è Nathan Marx, un sergente ebreo che nel maggio del ’45 viene rispedito negli Stati Uniti per dirigere una compagnia di addestramento a Camp Crowder, nel Missouri. Alcuni soldati cercano di ottenere dei favori dal nuovo sergente sfruttando la comune ebraicità. Uno su tutti: la recluta Glossbart, un diciannovenne subdolo e bugiardo che mette in atto ogni stratagemma possibile per ottenere ciò che vuole. Il sergente Marx sarà costretto a prendere una decisione drastica per mettere in riga il soldato.
Defender of the faith scatenò reazioni violente presso la comunità ebraica, diventò tema di discussione nei sermoni dei rabbini, nei confronti familiari, in ogni dibattito universitario. Roth fu chiamato a rispondere di quel testo outrageous di fronte agli esponenti dell’Anti-Defamation League e a difendersi dalle accuse con articoli e interventi pubblici. Forse perché era il primo racconto che trattava l’argomento senza moralismo, forse perché era il primo racconto che trattava l’argomento su una rivista come il New Yorker (il direttore di allora era l’ebreo William Shaw. Tra i collaboratori ebrei del tempo il giornale vantava scrittori del calibro di J. D. Salinger). Centinaia di lettere di protesta invasero la redazione: il racconto era un attentato alla dignità degli ebrei. Philip Roth guadagnò l’appellativo di scrittore controverso e venne accusato di utilizzare la letteratura per dar libero sfogo alla sua inclinazione antisemita.
Roth non riusciva a capire: Defender of the faith era un’opera di fantasia e come ogni opera di fantasia attingeva dalla realtà senza mai raccontarla davvero. Perché doveva subire un trattamento del genere? Era possibile? Soprattutto: era giusto? Che colpa ne aveva lui se alcuni ebrei si erano riconosciuti nei difetti del soldato Glossbart?
Non tardai a capire che per odio di sé si intendeva una ripugnanza interiorizzata, ma non necessariamente consapevole, per i segni riconoscibili del proprio gruppo che culmina o in una serie di sforzi quasi patologici per espungerli o nella brutale denigrazione di coloro che ne sono così ignari da non provarci nemmeno.
La comunità intravide in quel racconto una mancata sensibilità per la sofferenza del popolo ebraico. Quale sofferenza, si chiedeva Roth. A dispetto dei divieti imposti dalla religione, i ragazzi sentivano sotto la pelle la stessa eccitazione dei loro coetanei, l’emozione di crescere nel più grande paese della terra. Gli ebrei americani non erano gli ebrei europei. Il peso di un passato che alcuni sentivano di portare addosso era solo l’ombra di un fantasma che nessuno aveva mai visto. Nelle scuole, nei campus, i giovani ebrei vivevano da veri americani, e questo era sotto gli occhi di tutti. Se c’era qualche differenza era da ricercare nello spirito, non in ciò che distingue un cattolico da un ebreo, ma un essere umano dall’altro.
Defender of the faith fu incluso nella raccolta Goodbye, Columbus e nel 1960 Roth vinse il National Book Awards. La polemica aveva attirato interessi, acceso discussioni e spinto il racconto più di quanto sarebbe successo se fosse stato scritto da qualcun altro. Roth presentò il libro in diverse occasioni, sia in America che in Europa. I suoi interventi erano brillanti, autoironici ma misurati; sapeva di avere a che fare con un pubblico pronto a scaldarsi al momento opportuno. Nel 1962 accettò di partecipare a un incontro organizzato dalla Yeshiva University di New York. Anche se il titolo della conferenza lo lasciava un po’ perplesso, La crisi di coscienza dei narratori delle minoranze, sapeva che declinare l’invito di una scuola ebrea ortodossa sarebbe stato considerato un affronto, l’ennesimo che gli avrebbero attribuito. Non aveva scelta ma si sentì rassicurato dal fatto che non sarebbe stato solo; insieme a lui erano stati invitati gli scrittori Ralph Ellison e Pietro Di Donato. Per i primi venti minuti i tre si presentarono al pubblico con alcune dichiarazioni introduttive sulla propria carriera. Roth aveva scritto il suo discorso per evitare che l’ansia del momento gli facesse dire cose che potevano essere fraintese. Conclusi gli interventi, il moderatore prese la parola e, quasi ignorando gli altri due, si rivolse a Roth e chiese: «Signor Roth, lei scriverebbe gli stessi racconti che ha scritto se vivesse nella Germania nazista?». Roth si rese conto che qualsiasi cosa avrebbe detto non avrebbe avuto importanza perché il processo era cominciato. Il pubblico fu chiamato a intervenire e lo scrittore capì che quel fervore non era dovuto soltanto a un giudizio negativo sulla sua scrittura: quella gente lo odiava sul serio. Il suo corpo reagì in modo inaspettato; avvertì un senso di profonda spossatezza, come uno stato d’incoscienza. Ralph Ellison condivideva la stessa posizione intellettuale di Roth e dopo trenta minuti di attacchi trasversali, sentì il bisogno d’intervenire per difendere il collega e spegnere gli animi. Il moderatore ringraziò gli scrittori e dal pubblico partì un applauso poco spontaneo. Roth cercò di allontanarsi ma venne circondato dalla cellula più ostile della folla che lo costrinse in una morsa di imprecazioni e insulti. «Fate largo, me ne vado!».
Era arrabbiato, così arrabbiato che promise a se stesso che non avrebbe scritto una parola in più sugli ebrei. Ma in quel giorno, che nella sua autobiografia [1] ricorda come uno dei più duri della sua vita, Roth aveva scoperto anche che l’aggressività che accompagnava il tema dell’autodefinizione ebraica era un magma inesauribile, una fonte d’ispirazione che non avrebbe potuto ignorare.
Dopo un’esperienza come la mia alla Yeshiva, bisognava che uno scrittore non fosse affatto uno scrittore per andare a cercare altrove qualcosa di cui scrivere. L’umiliazione che avevo subito davanti ai bellicosi spettatori della Yeshiva – anzi, la rabbiosa opposizione ebraica che avevo suscitato praticamente dall’inizio – fu l’occasione più fortunata che potessi avere. Ero marchiato a fuoco.
«Fanatica sicurezza, fanatica insicurezza» era questo il dramma degli ebrei d’America, lo stimolo che spinse Roth a creare Nathan Zuckerman, il suo alter ego, a scrivere Pastorale americana (Pulitzer per la narrativa nel 1998). A diventare quello che è oggi: uno dei più grandi rappresentanti della letteratura ebraico-americana nel mondo.