Bernard Malamud e Philip Roth si conobbero in Oregon nel 1961. Roth era lì perché doveva tenere una lezione di writing american fiction e un conoscente organizzò un incontro tra i due scrittori.

Già allora molto diversi, Malamud e Roth divennero amici; il loro fu un rapporto lineare finché Roth fece qualcosa di non troppo simpatico: nel 1974 pubblicò un saggio per il New York Times che intitolò Imagining Jews. Secondo Roth, gli scrittori americani tendevano ad associare gli ebrei a personaggi retti e moderati; schivi rispetto a ogni attività “libidinous and aggressive”, gli ebrei dei libri erano immuni alle trasgressioni e allineati agli standard della società [1]. Per avvalorare la sua tesi, Roth riportò un paio di esempi dai romanzi di Bernard Malamud e di Saul Bellow. Roth aveva sempre manifestato le sue opinioni, fuori e dentro la narrativa (a partire dal racconto Defender of the faith) e anche in quel saggio non andò tanto per il sottile. Malamud reagì con una lettera nella quale scrisse soltanto: «È un problema tuo, non mio». Philip Roth mantenne la posizione, dicendo all’altro che forse non era così consapevole dell’indirizzo che stava dando alle sue storie e che col tempo avrebbe potuto capire qualcosa di se stesso che non riusciva ancora a vedere. Gli disse che il suo saggio avrebbe potuto aiutarlo a fare chiarezza. I due s’incontrarono a Londra un paio d’anni dopo, così impazienti di chiarirsi che andando l’uno contro l’altro arrivarono a scambiarsi un bacio sulle labbra. [2]
Non si può certo dare torto a Malamud; era un “problema” suo, di Roth, che cercò di elaborare in diversi romanzi. Ma ciò non toglie che fosse un problema anche suo, di Malamud. Li distinse soltanto l’approccio che scelsero per affrontarlo.
Bernard Malamud e il significato dell’esperienza ebraica
«Alla base di questa complessa interazione sembrano esserci due forze antagoniste» afferma Giordano De Biasio in Aspettando la fine: note sul romanzo ebraico-americano [3]: «da una parte il fortissimo interesse degli ebrei per la cultura del Nuovo Mondo, dall’altra la tendenza al suo rifiuto e a realizzare il suo manifest destiny su una mitologia essenzialmente autoctona». Ma la contaminazione culturale svela solo il primo strato della questione. L’analisi, che comincia con un quesito di tipo letterario, è destinata a raggiungere livelli più profondi perché la responsabilità di raccontare è figlia di un dolore fantasma. Come scrive Alessandro Piperno, c’è «un altro tipo di vergogna, molto meno terribile naturalmente, ma altrettanto subdola e velenosa. Quella che investì coloro che non avevano vissuto in prima persona l’esperienza concentrazionaria».
In un romanzo del 1979, Lo scrittore fantasma, Philip Roth mise in scena un dialogo abbastanza significativo. La madre accusa il figlio, Nathan Zuckerman, di aver scritto un racconto antisemita: proprio lui, proprio un ebreo. Nathan si appella al concetto di finzione letteraria, insistendo sul fatto che loro non sono i “disgraziati di Belsen”, non sono le vittime di quel delitto, perché devono sentirsi coinvolti? «Ma potremmo esserlo…» risponde la madre, «al loro posto lo saremmo».
L’eco di una tragedia scampata è l’elemento che collega l’opera di Malamud a quella di Roth e di molti altri scrittori ebrei americani; era un fardello che apparteneva a qualcun altro eppure sentivano di doverci fare i conti. Da quel sentimento si formarono le singole personalità letterarie perché ognuno gestì l’argomento in modo differente: accogliendo l’eredità o, al contrario, sovvertendo la tradizione.
Mi definisco, e così spero mi definiate anche voi, uno scrittore americano, che a volte scrive storie con temi dedicati all’ebraismo.
Con quest’affermazione, contenuta nella raccolta di riflessioni sulla scrittura Per me non esiste altro, Bernard Malamud sembra relegare l’ebraismo ad argomento di circostanza. Il discorso, però, mal si applica alla pratica dei suoi libri perché ha scritto quasi sempre di ebrei americani e di quanto la prima condizione determini la difficoltà di sentirsi parte della seconda. La contraddizione di Malamud, figlio di una coppia di immigranti ebrei di origine russa, si evidenzia ancor di più quando riflette sul motivo che lo spinge a scegliere protagonisti ebrei:
Nella mia narrativa sono sicuro di rappresentare l’ebreo come uomo universale. Non è una cosa complicata data la diaspora storica degli ebrei e il fatto che abbiano portato tradizioni e cultura in varie nazioni, intrecciandole con le altre […]. Quello che voglio dire, sono sicuro che capiate, è che la tragedia ebraica è prototipica, concreta e simbolicamente comprensibile. Se lo capisci ti rendi conto che ti appartiene, che tu sia o no un ebreo.
L’angelo Levine e la storia di Giobbe
Diversi racconti di Malamud cominciano con una serie sfortunata di eventi. Prendiamo il racconto L’angelo Levine [4], emblematico fin dall’incipit. Il protagonista, Manischewitz, è un sarto ebreo che nel suo cinquantunesimo anno di età “ebbe a patire molte disgrazie e molte offese”. Segue l’elenco: il suo laboratorio aveva preso fuoco, suo figlio era rimasto ucciso in guerra, sua figlia si era innamorata di un ragazzo poco raccomandabile ed era scappata da casa, sua moglie s’era ammalata e neanche lui stava troppo bene. La domanda che si pone il lettore, che si pone ogni volta che legge un racconto di Malamud, è: perché tanto accanimento? La stessa domanda che i protagonisti girano alla prima autorità in carica: «Mio caro Dio, amor mio, ho meritato che mi toccasse tutto questo?».
Un uomo di colore, Alexander Levine, si presenta a Manischewitz: dice che era ebreo, dice che ora è un angelo, e che può aiutarlo a mettere fine a tutti i suoi guai. Manischewitz non gli crede (già l’idea di un ebreo nero lo destabilizza, figurarsi un angelo, nero, ebreo), così si allontana. La domanda si ripropone, in un soliloquio raccontato da un narratore esterno che però è sempre finalizzato alla ricerca di un dialogo con Dio.
[…] se voleva dargli una piccola lezione, allora una delle tragedie che l’avevano colpito, una sola, sarebbe stata un castigo sufficiente. […] In fin dei conti, chi era Manischewitz per dover soffrire tanto? Un sarto. […] La sofferenza, su di lui, era ampiamente sprecata.
Manischewitz pensa spesso a Levine, così in un giorno in cui si sente più vulnerabile decide di andare a cercarlo. Lo vede dall’altra parte di un vetrina di un cabaret ad Harlem: l’abito sgualcito, le scarpe infangate, una sigaretta all’angolo della bocca. Una “nera popputa” si avvicina al tavolo e incoraggia Levine a seguirla. Manischewitz è sbalordito, ha gli occhi incollati al vetro. La ragazza butta le braccia al collo di Levine, lui si aggrappa alle natiche di lei e volteggiano insieme sulla pista da ballo.
Manischewitz maledice Dio, poi se stesso, per aver creduto.
Quando il sarto torna al locale, qualche giorno dopo, Levine ha un vestito nuovo, una bombetta grigia e beve whisky solleticando col mignolo il lobo dell’orecchio di una ragazza. Manischewitz si avvicina con discrezione, chiede a Levine se possono andare a parlare da un’altra parte, ma ottiene un rifiuto: tutto quello che il sarto vuole dire può dirlo davanti a tutti. La musica cessa; non c’è uomo in sala che non stia fissando la scena, non c’è uomo in sala che non stia fissando Manischewitz.
Perché tanto accanimento? Credere che un nero ubriaco e lascivo sia un angelo non è abbastanza? Perché una punizione tanto amara inflitta proprio a lui, un uomo semplice, corretto e onesto? Il dramma del “giusto”. Eccolo: è il lamento di Giobbe.
Se ho peccato, che cosa ti ho fatto,
o custode dell’uomo?
Perché m’hai preso a bersaglio
e ti son diventato di peso?
Perché non cancelli il mio peccato
e non dimentichi la mia iniquità?
Ben presto giacerò nella polvere,
mi cercherai ma più non sarò! [5]
Il finale del racconto è abbastanza prevedibile ma quel momento di massima umiliazione è perfetto tanto è significativo: ha a che fare con l’universalità di cui parlava Malamud, è una crisi d’identità che si risolve attraverso una scelta («Bisognava sempre fare una scelta», suggerisce Manischewitz).
La letteratura che spiega l’uomo
Riconoscersi nella tragedia, poi decidere da che parte stare. Meglio: che persona diventare. Ma diffondere idee moraleggianti, diceva Malamud, è proprio quello che non si deve fare: «Lo scrittore non deve predicare, ma scrivere al meglio delle proprie abilità con l’obiettivo finale di nobilitare l’uomo e combattere le forze di disumanizzazione della nostra società». L’uomo, secondo Malamud, è una creatura misteriosa. Che senso ha, si chiedeva, scrivere un romanzo che non prova a spiegare l’uomo? Che senso ha, scrivere, senza cercare se stessi?
Nel tentativo di classificare il fenomeno letterario che prese vita tra gli anni Cinquanta e Sessanta, la critica americana coniò il termine jewish american literature, quindi jewish american writers e jewish american novel anche se questo voleva dire mettere insieme visioni differenti. Ma le etichette, lo sappiamo, piacciono sempre ai critici e mai agli scrittori.
«Di recente Philip Roth per scherzo mi ha detto che ha trovato il suo “vero” immaginario: non gli ebrei ma il sesso». [6]
[1]Un po’ di contesto: qualche anno prima, nel 1969, Philip Roth aveva pubblicato Lamento di Portnoy. Il protagonista del romanzo, Alexander Portnoy, è il risultato di un rovesciamento della caratterizzazione dei personaggi ebrei criticata nel saggio: Portnoy è un ebreo americano di successo, morboso, erotomane e nevrotico.
[2]Il racconto dell’episodio è contenuto in Picture of Malamud scritto da Philip Roth nel 1986.
[3]Contenuto in Ebraismo e antiebraismo: immagine e pregiudizio (Giuntina, 1989)
[4]Tratto dalla raccolta Il barile magico (minimum fax, 2011).
[5] Bibbia (Giobbe. 7, 20-21)
[6]Tratto da Per me non esiste. La letteratura come dono (minimum fax, 2015).