
Capire se un testo funziona o meno (e perché) è sempre una sfida. Chiunque legga un libro, si tratti una raccolta di racconti o di un romanzo, e abbia il compito di esprimere un giudizio il più possibile argomentato deve resistere alla tentazione di ricondurre il tutto a schemi prefissati, a correnti e a tendenze in voga o, insidia ancora più forte, al proprio gusto personale. D’altra parte, chi invece le storie le scrive ha davanti a sé sterminate praterie di possibilità. Infinite opzioni che imparerà a scartare o a scegliere a mano a mano che il racconto, i personaggi e i luoghi della narrazione prenderanno forma staccandosi dal magma caotico e istintivo delle prime bozze. La maturazione di una voce, in altre termini, arriva quando si comprende come e cosa scartare.
In questa intervista a Vanni Santoni, scrittore e curatore tra le altre cose della fortunata collana Romanzi di Tunué, abbiamo toccato buona parte delle questioni che stanno più a cuore a noi di Tre racconti. Aspetti che tornano sempre in ogni fase di lettura, scrittura e valutazione; aspetti che presi singolarmente rappresentano altrettanti punti di partenza per riflessioni ampie e articolate. In primis sullo stile, su cosa definisce una prosa di qualità, sugli elementi che rendono una storia coerente, fluida, credibile e di valore. Agli occhi allenati di un editore e a quelli esigenti dei lettori.
Tra le tante valide risposte contenute in questa intervista ci sentiamo di evidenziarne una in particolare che ha a che fare con cosa ancora si fatica a raccontare. Una sfida che ci piacerebbe fosse colta da chi scrive, esordienti e non, e compresa da chi legge. I tempi sembrano maturi.
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Tre racconti è una rivista online nata per promuovere le voci nuove e originali che si cimentano con la forma del racconto breve. Tu stesso hai esordito scrivendo su Mostro, una rivista autoprodotta. Cosa è cambiato secondo te rispetto a dieci anni fa per uno scrittore che vuole esordire ed essere notato distinguendosi dalla miriade di cose pubblicate sul web?
Credo sia importante dire che quando ho cominciato a scrivere su Mostro, alla pubblicazione neanche ci pensavo: la rivista era fieramente militante e non guardava con particolare interesse al mondo dell’editoria, quanto al creare un proprio progetto letterario coerente. Per me Mostro è stata un luogo di formazione, non una vetrina.
Vero è però che dieci anni fa c’era qualcosa che oggi non c’è: un mondo dei blog – mi riferisco ai blog personali, non a quelli collettivi che sono, di fatto, riviste – capace di interessare molto l’editoria. In quel momento storico, pubblicare contenuti letterari sul proprio blog poteva essere utile per essere notati da un editore, e in effetti il mio esordio, dopo vari tentativi andati male, si deve proprio al blog Personaggi precari, che avevo su Splinder: alcuni testi tratti da lì vinsero un concorso “per il miglior testo venuto dal web” e mi permisero di esordire con un piccolissimo editore milanese, RGB, che oggi neanche esiste più. Altri blogger dell’epoca arrivarono anche a case editrici più grandi. Oggi tutto questo ha smesso di accadere, e il luogo a cui l’aspirante scrittore deve guardare sono nuovamente le riviste. Il che, peraltro, è anche più sano, perché le riviste sono anche luoghi di confronto, e quindi oltre a essere utili per far girare il proprio nome e i propri testi tra gli addetti ai lavori – la rivista è ancora il luogo principe dello scouting editoriale: è lì che gli editor vanno a vedere chi ha qualcosa da dire e i mezzi stilistici per farlo – portano chi ci collabora anche a una prima crescita professionale.
Da scrittore hai sperimentato molto giocando con generi, archetipi e immaginari e da editor non hai mai rinunciato a portare avanti un discorso strutturato sulla forma e sul linguaggio.
Lo stile, nella mia visione della letteratura, è tutto. Non esistono storie abbastanza buone da poter essere scritte in qualunque modo. E a volte l’autore deve anche avere la capacità di “ribassare” la propria prosa: ad esempio nel recente L’impero del sogno, essendo un romanzo fantastico-avventuroso, non ho spinto la lingua agli estremi toccati in alcuni passaggi di Muro di casse o della Stanza profonda, dato che la struttura mossa anzitutto dalla trama e il campo immaginario di riferimento richiedevano una lingua più semplice e diretta, rispetto alla quale ho derogato solo nel momento in cui il protagonista Federico Melani guarda in faccia per la prima volta la bambina-dea ed esperisce una violenta teofania.

Un felice esito di questi sforzi è Orazio Labbate che prima con Lo Scuru e poi con Suttaterra, da te presentato a Più Libri Più Liberi, si è distinto per idee molto chiare sul modo di usare le parole e uno strumento complesso come il dialetto. Come si fa ad avere un’idea così definita e personale del linguaggio? Come fa un autore a forgiare la propria voce?
Come dichiarato fin dall’inizio, il parametro centrale nella selezione dei testi per la collana Romanzi di Tunué è la qualità della prosa. Il resto, anche quella particolare attenzione agli esordî che ci caratterizza, viene dopo.
Ogni autore di valore sviluppa i propri percorsi per forgiare la propria voce, ma evidentemente il fatto centrale sono le letture. Chi vuole diventare uno scrittore professionista deve prima costruirsi una base solida leggendo quantità enormi di classici e capolavori contemporanei, ma poi dovrà anche cominciare a “mirare” le proprie letture verso quelle che gli sono utili per ciò che deve scrivere. Anche altri autori Tunué che pur essendo esordienti assoluti hanno mostrato una voce riconoscibilissima – penso ad esempio al Sergio Peter di Dettato o al Luciano Funetta di Dalle rovine – sono prima di tutto lettori molto attenti, che hanno saputo costruire percorsi di lettura altamente strutturati e volti allo scopo che si erano dati come scrittori.
Veniamo alla forma racconto. Diversi autori ci hanno confermato che la lettura del racconto rispetto al romanzo è più lenta e profonda perché deve fare i conti con un “non detto” o un sottetesto che non sempre è immediato da cogliere. Può essere questo un fattore respingente per i lettori abituati a leggere romanzi?
Non c’è dubbio sul fatto che il racconto sia una forma letteraria più “concentrata” del romanzo, e che ciò si possa tradurre in un minor venduto medio, specie presso quei lettori che dall’esperienza di lettura cercano anzitutto immersività. La poesia, che è ancora più concentrata del racconto, vende infatti ancora meno. Tuttavia sarebbe ingenuo attribuire solo a questo fatto il pregiudizio che il racconto patisce nel nostro paese: da diverso tempo si è consolidata nel mondo editoriale l’idea che le raccolte vendano poco, il che ha creato una sorta di “profezia che si autoavvera”, portando gli editori a pubblicare meno racconti, a spingerli meno, e a “camuffarli da romanzi” anche quando li pubblicano. Esistono però le eccezioni: case editrici come Neo o Minimum fax da sempre danno molto spazio ai racconti nei loro cataloghi, e recentemente sono nate altre realtà che spingono con forza in questa direzione, come Racconti Edizioni, dedicata addirittura alla sola forma breve, e che ha fatto pure esordire un raccontista – Elvis Malaj con la valida raccolta Dal tuo terrazzo si vede casa mia – o Black Coffee, che si è presentata alle librerie e ai lettori anche con raccolte di racconti, e recentemente ha pubblicato quella, davvero eccellente, di Joy Williams, L’ospite d’onore. E poi, appunto, ci sono le riviste, che del resto costituiscono l’ambiente naturale per la forma breve. Anche fra quelle nuove ci sono cose interessanti, penso all’esperienza di The FLR, del cui comitato di redazione faccio parte, che propone in due lingue racconti inediti di alcuni dei maggiori autori italiani non ancora tradotti in inglese, al bel lavoro che stanno facendo altre cartacee come Effe o Carie, o qui a Firenze Street Book Magazine, Con.tempo o A few words, o anche online come Crapula, dove recentemente hanno trovato spazio due dei migliori raccontisti italiani ancora sotterranei, Gregorio Magini e Gregorio Meier.
In una delle sue ultime interviste Philip Roth ha detto: «Non concordo sul fatto che la narrativa sia morta — in questo momento in America sono attivi molti romanzieri di prim’ordine. Quello che sta diminuendo è il bacino di lettori seri, attenti e impegnati, e continuerà a diminuire a causa dell’incommensurabile popolarità dello Schermo». Potresti commentarla?
Concordo in pieno sulla prima parte, anche se mi sembra che il pallino del romanzo negli ultimi anni, dopo una nettissima supremazia americana, sia tornato in Europa. Sulla seconda ho qualche dubbio: non sono sicuro che sia mai esistita un’epoca d’oro in cui orde sterminate di lettori si accapigliavano per le uscite di più alto profilo letterario.
Mi pare, piuttosto, che l’editoria abbia delle responsabilità nell’aver inquinato collane con contenuti non all’altezza, o ridotto il lavoro sul catalogo rispetto a quello sul singolo libro, ma in prospettiva storica anche questa potrebbe essere solo una fase.
Tenuto conto che oggi si esordisce spesso pubblicando online, pensi che la leggibilità intesa come semplicità di costruzione della frase o anche di vocabolario possa essere un valore in sé?
Non è un parametro che utilizzerei, sebbene la complessità non sia di per sé garanzia di qualità. Né credo che un aspirante autore debba scrivere sulle riviste perché spera poi di pubblicare un libro. Deve scrivere sulle riviste per esercitarsi, sviluppare la propria poetica, confrontarsi con un primo filtro editoriale, con i pari e soprattutto con i lettori. E farlo in modo continuo e consistente. Se lavorerà bene, il resto verrà da solo (si veda, in merito, la lettera di Umberto Eco che riporto a margine di questa intervista).
È legittimo porsi il problema della concorrenza rappresentata dalla narrazione espressa dalle serie tv?
Certamente no. Le serie TV, pur esprimendo contenuti di indubbia qualità, specie se confrontate coi vecchi telefilm, stanno facendo cose che la letteratura faceva già duecento anni fa. Il romanzo è molto, molto più avanti: basta guardare alla complessità di capolavori contemporanei come Infinite Jest di Wallace, Austerlitz di Sebald, 2666 di Bolaño o Abbacinante di Cărtărescu per capire che la letteratura non ha niente da temere se la televisione ha finalmente imparato a fare quello che facevano Hugo o Puškin. L’incremento di narrazioni di qualità su più medium è, anzi, un fatto positivo, senza contare i casi in cui una serie rende popolarità a romanzi significativi, come è accaduto per Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood.
Un altro nodo molto delicato per chi scrive è il rapporto con la tradizione e con i propri modelli letterari. Umberto Eco evidenziava alcune trappole nelle quali lo scrittore, il narratore o il poeta possono facilmente cadere; una di queste trappole era proprio «l’angoscia dell’influenza». Come ci si barcamena in questo sottile gioco di equilibrio di forze creative e influenze?
Sono processi difficili da isolare e analizzare, dato che si basano su un misto ad assetto variabile di intuito ed esperienza. Credo che anche qui la soluzione sia la lettura: incrementando le letture (e le riletture), differenziandole, leggendo in più lingue, si sviluppano strumenti atti a schivare simili trappole.
Come si misura la “bontà” di un racconto? Esistono dei parametri oggettivi che aiutino sia chi scrive sia chi legge a valutare e valutarsi?
Non esiste un parametro unico, e anche quelli principali – potremmo cominciare citando, che so, qualità della prosa, complessità dei temi, portata immaginifica, spessore filosofico, impatto emotivo, universalità… – sono tutti passibili di diverse interpretazioni, oltre che di avere un diverso peso rispetto al tipo di storia che si sta raccontando. Quello che sappiamo è che alcuni libri e racconti sono capolavori, e che altri non lo sono. E lo sappiamo perché abbiamo letto molto. Leggendo, si sviluppa la capacità di distinguere la qualità.
Cosa cerchi in un testo? Quali caratteristiche deve avere un manoscritto per spingerti a sceglierlo e a pubblicarlo?
Come detto, l’unica cosa a cui guardo veramente è la qualità della prosa. Ora che, dopo dodici libri (e altri due in arrivo), la collana Romanzi di Tunué ha assunto una sua fisionomia, entrano in campo anche considerazioni su quanto un testo sia adatto a essa, ma sono comunque secondarie rispetto alla qualità. Se un testo è eccellente, faccio volentieri eccezioni, come è avvenuto con Tabù di Giordano Tedoldi, che ha una lunghezza che normalmente non facciamo, o con La stanza di Therese di Francesco D’Isa, che ibridando immagini e testo è decisamente lontano, ancorché affine tematicamente, da qualunque cosa avessimo pubblicato fin lì.

C’è qualcosa che oggi si fatica a raccontare o non si racconta proprio?
Come nel resto della società, le donne continuano a essere sottorappresentate. Basti guardare a quanti personaggi femminili significativi ci sono, in media, nel grosso dei romanzi scritti da autori maschi.
Quale può essere oggi il ruolo dello scrittore? Sembra molto difficile non parlare dei problemi che abbiamo ora in quanto esseri umani calati in una società globalizzata e non risolta.
Per fortuna, anche se non quanto un tempo, gli scrittori godono ancora di un certo ascolto, e questo rende il mestiere intrinsecamente politico, anche quando non si fanno libri-inchiesta o di intervento diretto. Anche l’attuale popolarità delle narrazioni distopiche mi pare riconducibile alla volontà di molti scrittori di lanciare un allarme.
Fuggire dalla realtà è ancora possibile o sta diventando un lusso per gli artisti?
Mi sembra che sia l’opposto, che si viva in un contesto di virtualizzazione diffusa al quale molta gente non si è ancora abituata, e che gli effetti di tutto ciò siano piuttosto bizzarri.
Consigli di lettura. Quali sono gli autori, i romanzi o le raccolte che ti hanno colpito di più in questi anni o che secondo te hanno aggiunto dei tasselli importanti nell’attuale panorama letterario?
Prendendo solo libri recenti, e riprendendo quel discorso sul ritorno in Europa del fronte d’onda del romanzo, sicuramente sono da segnalare l’immenso Abbacinante di Mircea Cărtărescu – una buona notizia è che Il Saggiatore nel 2019 pubblicherà Solenoid, l’opera che l’autore stesso considera addirittura superiore a tale capolavoro –; Fisica della malinconia di Georgi Gospodinov, anch’esso edito da Voland; la recente edizione Bompiani (l’originale è del 1985) di Satantango di László Krasznahorkai; Terminus radioso di Antoine Volodine, uscito per 66thand2nd; e ancora le opere dell’inglese Tom McCarthy. Restando sull’Isola, da ricordare è anche la prima edizione italiana del Lanark di Alasdair Gray, opera capitale della letteratura scozzese e della speculative fiction in generale, pubblicata da Safarà. Tutto ciò non significa che la fonte americana si sia esaurita: ho apprezzato moltissimo, tra le cose uscite di recente, la trilogia di Gilead di Marilynne Robinson, Lincoln nel bardo di George Saunders e, parlando di raccolte di racconti, È così che la perdi di Junot Díaz. Tra i titoli italiani, il mio libro dell’anno è stato senz’altro Leggenda privata di Michele Mari, mentre tra gli esordî che non ha lanciato Tunué mi è parso significativo Libro dei fulmini di Matteo Trevisani, pubblicato da Atlantide, realtà che merita un plauso anche per la cura editoriale e gli arditi “recuperi” che sta mettendo in atto.