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Il macabro quotidiano nei racconti di Roald Dahl

Di Lucia Perrucci

Chi adora Roald Dahl per Matilde o il GGG (io lo adoro per Le Streghe) non si stupirà quando leggerà i suoi racconti per adulti. Né si stupirà di scoprirlo tra gli autori di Playboy, o tra gli scrittori più censurati di sempre.

Nato nel 1934, in Inghilterra, da genitori norvegesi, pilota della Raf e consulente di guerra, prima di diventare lo scrittore che noi tutti conosciamo, Roald Dahl è stato protagonista (più che narratore) di tutto un altro tipo di storie.

Rohal Dahal firma copie, Nationaal Archief CC0 1.0 Universal (CC0 1.0)

Forse perché volando vedeva le cose dall’alto, o perché, precipitando nei deserti, ha potuto osservarle anche troppo da vicino, o forse perché ascoltare segreti internazionali fa sempre un discreto effetto, ma Roald Dahl, in tutto ciò che ha scritto, si è sempre mostrato un cinico esploratore del quotidiano, fino a consegnare a noi lettori un repertorio di racconti che sfiorano il grottesco, il cui sofisticato (e macabro) umorismo ribalta le situazioni di apparente e statica normalità.

Chi conosce Roald Dahl attraverso le sue opere per bambini, tutto questo lo sa già. Sguardo sincero, mai morbido, spesso beffardo e cattivo, la cui voce schietta e mai contorta consegna uno stile accessibile a tutti, scorrevole e assolutamente sorprendente.

Hemingway mi diceva che l’essenziale non è fare sfoggio d’intelligenza, ma comunicare al lettore nella maniera più semplice possibile[1]. 

Roald Dahl fa quindi della semplicità la chiave per sorprendere il lettore. Una semplicità non solo formale ma anche apparentemente contenutistica. Quella semplicità che incornicia ogni storia attraverso circostanze iniziali di assoluta (anche banale) quotidianità, capovolte da un aspetto imprevedibile e molto spesso bizzarro e crudele.

Quelli di Roald Dahl sono incipit che non arrivano subito al punto, non si servono del retroscena omesso, anzi descrivono quasi minuziosamente situazioni e personaggi introducendo il lettore nella dimensione della storia e consegnandogli tutto l’occorrente per afferrare ciò che verrà dopo. Il lettore se ne sta lì come un voyeur che spia un momento intimo e del tutto normale, fino all’inaspettato inciting event.

Genitori in pena per la salute dei propri neonati, ricche signore con l’ossessione di perdere un volo, ospiti a cena dal palato raffinato, mogli che scongelano cosciotti di agnello per cena, banali scommesse sugli accendini, viaggiatori alla ricerca di una camera per dormire.

L’incidente scatenante, sia esso caratterizzato da un fatto, da una battuta, o da un dettaglio particolarmente strano, appare subito inquietante non tanto per l’eccezionalità dell’evento in sé, ma per il risvolto psicologico che lo muove. È il desiderio del personaggio a essere mosso da qualcosa di malato, una cinica visione della vita che punzecchia il lettore lasciandolo con quel retrogusto sul palato acre e amarognolo, come il veleno ben mescolato alla bevanda più innocua del mondo.

Si può mangiare l’arma di un delitto? Si può passare dalla pietà per un bambino in fin di vita a un sentimento disumano dopo aver letto il suo nome?

«Ogni giorno, per mesi, sono andata in chiesa a implorare in ginocchio perché a quest’ultimo sia concesso di vivere».
«Sì, Klara, lo so».
«La morte di tre figli è il massimo che riesco a sopportare. Te ne rendi conto?».
«Certo, certo».
«Adolf deve vivere, Alois. Deve, deve… Oh, Dio, sii misericordioso con lui…».

Ma è la beffa, l’ironia del destino, Genesi e Catastrofe la chiama l’autore, una tragedia mascherata, uno scherzo della natura che fa sorridere perplessi.

Tra i temi ricorrenti: il gioco, la routine di coppia, l’ossessione, l’invenzione di strane macchine che quasi anticipano le premesse di Black Mirror.

Sono convinto che esiste intorno a noi un intero mondo di suoni che non percepiamo. È possibile che lassù, in quelle eccelse, acutissime regioni inudibili esista, venga creata una nuova musica eccitante, fatta di sottili armonie e acute, stridenti dissonanze, una musica così forte che impazziremmo se l’orecchio soltanto afferrasse di sfuggita. Può esserci di tutto… per quel che ne sappiamo (La macchina dei suoni, 1949).

La macchina dei suoni costruita da un uomo ossessionato dall’inudibile, rivela ciò che nessuno può sentire, come i lamenti delle piante. Questa invenzione (così come la macchina che tiene in vita il cervello dopo la morte in William e Mary, o le proprietà miracolose delle api in Pappa reale) svela ciò che è nascosto, la conturbante verità del dolore. L’inventore è mosso teoricamente dall’empatia. Ma è un’empatia narcisistica. Quando scopre le grida di un fiore reciso prova pietà. Eppure, per essere certo che la macchina funzioni, per capire davvero se quelle piante provano dolore, fa di tutto per infliggerlo. Anche l’epilogo in Pappa reale (1958) lascia inquieti sulle risposte di una scienza nuova e sconosciuta che porta il protagonista all’inevitabile metamorfosi finale. Ma sono in fondo gli anni ’50, e la paura nei confronti delle potenzialità distruttive della tecnologia (incorniciata dal clima gelido della Guerra Fredda) confluiva spesso in risultati di questo genere (ne sono un esempio i film fantascienza come The Fly, 1958).

Guardandolo in quel momento, mentre si spostava davanti a quella libreria con quei capelli corti e quella barba e quel corpo rotondetto, la moglie non poté fare a meno di pensare che in effetti quell’ometto aveva qualcosa dell’ape. Aveva spesso visto donne che erano finite con il somigliare ai cavalli che cavalcano, aveva notato anche che la gente che aveva uccelli, o bull terrier, o pomerani, spesso finisce con il somigliare un poco, e tuttavia in maniera che sorprende, alle creature alle quali si dedica.

La routine coniugale è spesso incentrata su capricci infantili, insofferenza, e dispetti dalla portata tragica e grottesca: quale moglie non ammazzerebbe il marito a colpi di cosciotti d’agnello (Cosciotto d’agnello, 1953)? E quale moglie, in preda all’ansia di perdere un volo, non mollerebbe il marito in fin di vita (L’ascesa al cielo, 1954)? Tutte le mogli descritte sono affettuose, devote e “servono bene” i loro mariti. Almeno inizialmente, fino a non poterne più (e il tradimento diventa la ripicca più inoffensiva).

«Non importa. Ora che ci penso non ricordo di aver mai adoperato in vita mia il mignolo della sinistra. Eccolo qua». Il giovanotto strinse il mignolo tra le dita della destra. «È sempre stato qui, e non ha mai fatto niente per me. Perché non dovrei scommetterlo? No, la trovo una bella scommessa». (La scommessa, 1948)

Puntare l’impossibile, scommettere l’assurdo, apre una riflessione sui bisogni e le necessità, così come sui valori, dell’uomo sociale percepito dall’autore. Il macabro vizio del gioco parte da una banale scommessa e diventa un patto col diavolo. Chi scommetterebbe mai la mano della figlia o il proprio mignolo (La scommessa Palato)?

Nei due racconti citati, infatti, tutto ruota attorno ad un accendisigari e a una banale bottiglia di vino. Da una parte abbiamo due uomini assolutamente convinti di poter fare qualcosa, dall’altra due incalliti scommettitori descritti con le fattezze riluttanti di un serpente viscido e demoniaco. Questi, sono pronti a mettere in piazza proprietà immobiliari e macchine di lusso in cambio di qualcosa di privato e “carnale”, come accade nel racconto Pelle (1952), in cui un mercante d’arte vorrebbe acquistare il tatuaggio firmato da un artista sulla schiena di un uomo povero, che potrebbe venderlo a caro prezzo, ma solo togliendosi la vita. Il diavolo diventa l’umana e terrena cupidigia, ma ognuno di questi patti si basa su due fattori: l’inganno e la stupidità.

Leggere Roald Dahl è sempre un’esperienza piacevole e rivoltante. Piacevole perché intrattiene, sorprende, stimola curiosità e immaginazione. Rivoltante perché, con i suoi finali aperti, sei lì che sorridi turbato e compiaciuto, stupito dal tuo cinismo incoffessato, e dalla tua infantile (nel senso di incontaminata e pura) sana e latente crudeltà, quella della verità nuda e cruda, che tanto piace ai grandi narratori.


[1] Tratta da un’intervista di Francesco Russo pubblicata su Millelibri (n. 34, settembre 1990).

Lucia Perrucci ha pubblicato Due sul numero VI di Tre racconti. Per leggerlo puoi sfogliare la rivista sul sito oppure scaricare il formato Pdf.