
Per molti scrittori, il contesto storico-sociale in cui si trovano a vivere le proprie esperienze è tutto. Le storie di Alan Sillitoe, in quanto a contenuti, poetica e stile, sono intrise di ciò che la Nottingham, sua città natale, a cavallo tra gli anni quaranta e cinquanta gli ha messo davanti agli occhi durante l’infanzia e l’adolescenza. Nella sua autobiografia, l’autore racconta proprio di quanto la sua infanzia sia stata dura e piena di restrizioni, con un padre violento e una madre costretta a prostituirsi. Lasciata la scuola a quattordici anni, Sillitoe inizia a lavorare in fabbrica ma, avendo da sempre interesse per la carriera militare, si arruola nel 1946 nella Royal Air Force. Costretto all’isolamento dopo aver contratto la tubercolosi in Malesia, si ritrova per un sacco di tempo senza poter fare nulla, appassionandosi così alla lettura; dopo aver vissuto qualche tempo in giro per l’Europa, si trasferisce con la moglie a Maiorca, dove inizia a scrivere racconti.
Lo stile utilizzato da Sillitoe è per l’epoca qualcosa di estremamente nuovo: raccontare la dura realtà della working class inglese senza troppi filtri, soprattutto usando termini gergali del parlato quotidiano, è un’operazione nuova nella letteratura inglese.
Sillitoe ha quindici anni quando il governo Churchill dà ufficialmente il via al celebre Piano Beveridge (dall’economista William Beveridge che presiedeva la commissione incaricata di redigere il piano), un programma culturale e politico rivoluzionario, un progetto di “protezione sociale e politica sociale” che si sarebbe occupato direttamente e in maniera pragmatica delle persone comuni attraverso misure che oggi a noi, e nella maggior parte dei paesi europei, sembrano forse scontate: sussidi all’infanzia e per chi non ha reddito e, soprattutto, l’avvio di un nuovo piano sanitario nazionale esteso a tutti i cittadini. In Inghilterra, il diritto ad essere curati, non avrebbe più avuto distinzioni di classe e reddito. È quello che verrà conosciuto, un po’ ovunque, come il moderno welfare state, e che sarà la base delle politiche democratiche del dopoguerra.
È in pieno conflitto, quindi, che vengono gettate le basi per qualcosa che porterà enormi cambiamenti in tutta Europa e che contribuirà in maniera decisiva alla sua ripresa economica e sociale.Siamo però agli inizi di questa fondamentale trasformazione, sono anni decisivi ma embrionali per un programma di tale portata e le conseguenze vere e proprie non sono ancora così evidenti, non ancora così diffuse.
Ed è questo il momento storico che fa da sfondo alle storie della più famosa raccolta di racconti di Sillitoe: La solitudine del maratoneta ci racconta di vite ai margini, di ragazzi poveri che non hanno molto a cui aspirare, che ancora non possono davvero beneficiare dei cambiamenti che avverranno nella società; e di adulti distrutti dal lavoro, operai costretti a sgobbare un’infinità di ore al giorno, violenti e frustrati, inevitabilmente imbruttiti nell’aspetto e nel carattere, da una vita di fatiche e sacrifici.
Pur essendo un libro di racconti, i personaggi potrebbero appartenere tutti a una stessa grande storia di quartiere, sembrano quasi essere tutti vicini di casa che sbirciano ciascuno nei problemi dell’altro, tanti destini che si guardano con vicendevole sospetto, uniti però dalla paura e dalla consapevolezza di essere fatalmente simili tra loro.
Esempio ne è il racconto La disgrazia di Jim Scarfedale, in cui la storia di Jim, ragazzino che decide di sposarsi giovanissimo, per poi pentirsene poco tempo dopo, ci viene narrata da un altro ragazzo, che non fa altro che riportare dialoghi che origlia e scene che riesce a scorgere spiando il proprio vicino. Una storia d’amore precoce, che si scontra con la noia del quotidiano e con i sogni e le aspettative divergenti della coppia.
«Mi faceva sembrare più confortevole la fabbrica di reticolati, e portare le bobine da una macchina all’altra non mi pesava troppo. Ero felice con lei e pensavo che lei fosse felice con me. In principio lei era piena di cure per me, più ancora che prima del matrimonio, e la sera quando tornavo a casa parlava di politica e di libri e di altre cose, dicendo che il mondo era fatto per tipi come me e che l’avremmo dovuto governare noi, il mondo, e non lasciarlo a un branco di bastardi capitalisti».
Ma Jim è troppo stanco, e quello che vuole è starsene seduto in tuta a leggere il giornale. Il vicino di Jim, il nostro narratore, che osservando tutto di nascosto proietta quelle stesse conseguenze sulla propria vita, si ripromette di non caderci anche lui in un impiccio simile:
«A scuola, invece di seguire le lezioni di aritmetica, incollo gli occhi sull’atlante che tengo sotto il banco, tracciando l’itinerario che verrà quando sarà il momento (con la carta geografica strappata e ripiegata nella tasca dei calzoni): a Derby in bicicletta, a Manchester in autobus, a Glasgow in treno, a Edimburgo su una macchina rubata, e giù a Londra con l’autostop».
Rubare quel che ti serve e scappare. È la vita negli slums, quartieri che sorgono vicini alle fabbriche, che rappresentano lo spaccato più misero e degradato della popolazione e rendono la periferia di Nottingham la periferia di qualsiasi altra città inglese dell’epoca.

Il racconto più famoso, e che apre la raccolta dandole anche il titolo è, appunto, La solitudine del maratoneta, che narra la vicenda di Colin Smith, un diciassettenne che viene mandato al riformatorio dopo esser stato beccato, in maniera piuttosto rocambolesca, per un furto ad una panetteria con il suo amico Mike. Colin al riformatorio non ci sta poi troppo male, anche perché gli viene data la possibilità di allenarsi ogni mattina, correndo nel freddo gelido del bosco che circonda la struttura. Lo scopo è quello di farlo gareggiare contro altri ragazzini di altri riformatori e lui, che alla fine potrebbe vincere, decide di farsi superare proprio in prossimità del traguardo, come atto di vendetta e ribellione nei confronti delle autorità.
Questo racconto è un perfetto condensato dello stile di Sillitoe e ci introduce al mondo che verrà tratteggiato per tutta la raccolta. L’incipit è folgorante, Sillitoe ti sbatte subito in faccia il suo stile sfrontato e diretto, e fa quello che ogni incipit memorabile dovrebbe fare: ti tira dentro alla storia in sei sette righe. È Colin a rivolgersi al lettore, a iniziare la storia parlando del riformatorio e della distanza incolmabile tra quelli come lui, che sempre lotteranno per acciuffare qualcosa, e i poliziotti. Questione di idee, ma tanto basta. E mentre corre, pensa; e mentre pensa, ci racconta della rapina che l’ha portato dentro.
Colin, come anche gli altri ragazzini dei successivi racconti, rubano non tanto per sfuggire alla povertà, quanto per potersi permettere estemporanea evasioni: qualche birra nel fine settimana, andare alle giostre, comprarsi vestiti eleganti, o andare allo stadio a vedere il Notts County.
Esiste un espediente narrativo migliore della corsa per rappresentare la solitudine dei propri pensieri e la possibilità di immaginare quello che sarà, una volta fuori, e di rimuginare su cosa è stato? Sillitoe lo sfrutta alla perfezione, perché la storia ha un gran di ritmo nell’alternarsi del flusso di coscienza di Colin con i fatti della rapina. E poi c’è la tenerezza, perché resta il fatto che a raccontarci la storia è un ragazzino di diciassette anni, un furfantello spaccone, già rassegnato al fatto che la sua vita sarà molto probabilmente una fuga e uno scontro continuo con le autorità.
È interessante notare la narrazione della working class da parte di Sillitoe, che è completamente priva di quella patina un po’ ideologica del proletariato povero ma felice, che tiene duro e stringe i denti per le cose importanti, e vive a pane, famiglia e lotta di classe. La realtà che ci racconta è anche quella di chi è materialista e attaccato ai soldi, e spende i pochi che ha soprattutto per cose futili, per abiti di marca, un elettrodomestico nuovo e per ubriacarsi nel fine settimana. Una certa ricerca dell’estetica e dell’eleganza attraverso il modo di vestirsi, come ad esempio il tirarsi a lucido anche solo per andare allo stadio, in borghese, senza indossare i colori ufficiali della propria squadra, ha sempre fatto parte della cultura del proletariato britannico. Ed è proprio Colin a raccontarci che, dopo il furto, una delle raccomandazioni che si fanno lui e Mike, è quella di lasciar passare del tempo, di far calmare le acque, prima di spendere la refurtiva in un weekend fuori porta, e di evitare di alimentare sospetti girando per la città agghindati come dei Teddy Boy. Quella dei Teds, più interessati al football che alla politica, è stata una delle prima sottoculture britanniche a nascere, proprio nei primi anni cinquanta, e come quasi tutte le sottoculture aveva un dress code preciso che ne identificava i membri.

«Appena finii al riformatorio mi misero a correre la maratona. Immagino pensassero che avevo proprio il fisico adatto perché ero lungo e magro per la mia età (e lo sono ancora) e in ogni caso non mi dispiaceva troppo, a dirvi la verità, perché nella nostra famiglia si era sempre corso molto, soprattutto per sfuggire alla polizia. Sono sempre stato un buon corridore, veloce e dotato di un’ampia falcata: l’unico guaio fu che, per quanto corressi, e vi garantisco che tenevo una buona andatura, anche se me lo dico da solo, la cosa non mi impedì di farmi prendere dai poliziotti dopo quel colpo al panificio».
Ok, chi non ha pensato a Trainspotting? È francamente impossibile non ritrovarsi davanti agli occhi la scena iniziale del film in cui Ewan McGregor, che interpreta Mark Renton, uno dei personaggi più popolari dello scrittore scozzese Irvine Welsh, corre all’impazzata scappando dalla polizia dopo un furto, mentre sentiamo la voce fuoricampo che recita uno dei più famosi monologhi che siano mai stati scritti. Per chiunque abbia letto Trainspotting, il parallelo Smith/Renton è automatico, come è d’altra parte automatico pensare che lo stesso Welsh, e non solo, sia stato influenzato in maniera decisiva da Sillitoe.