Le vite ribelli di Pino Cacucci

Sono abbastanza sicuro che, chiedendo di Renato Rinino al di fuori di Savona o forse della Liguria, nessuno, oggi, saprebbe dirmi di chi sto parlando. Pensando a quella che è stata la sua storia, e al clamore che per un brevissimo lasso di tempo ha destato, fa davvero strano rendersi conto che René, come era chiamato a inizio “carriera”, sia sostanzialmente una figura sconosciuta.

Foto tratta da Unsplash

Non so tra i giovanissimi, ma sicuramente per i savonesi nati in un arco temporale che va dagli anni Sessanta ai primi Novanta, Renato Rinino è un personaggio che fa parte del folklore della città. Seppur, di fatto, si tratti della storia di un ladro incallito, la sua personalità e vicenda umana sono così perfettamente letterarie che non può che rappresentare una figura mitica, quanto meno per la stretta comunità che lo ha conosciuto da vicino, o per chi, come me, ha sentito raccontare delle sue “imprese” da persone di famiglia o amici stretti.

Nato e cresciuto in una situazione familiare tutt’altro che agiata, Rinino aveva iniziato a rubare fin da piccolo e,a trent’anni, aveva già trascorso quasi metà della propria esistenza in galera. Rinino rubava ai ricchi, anche se di Robin Hood gli mancava poi la parte nobile della frase, quella che recita “per dare ai poveri” ma, quando si accorgeva di aver derubato qualcuno in difficoltà, o che ricco non era, oltre a restituirgli la refurtiva, aggiungeva un surplus in segno di scuse e risarcimento.

Insomma, un guascone, un tizio piacevole che non perdeva mai l’occasione di scherzare e che, anche grazie a questo suo lato umano, riusciva a essere tollerato dalla gente. Sono cose, queste, che mi hanno sempre detto anche i miei genitori, gente tutt’altro che propensa a esaltare figure simili. 
Risultava simpatico nonostante le enormi contraddizioni. Anzi, proprio in virtù di quelle contraddizioni era tutto sommato ben voluto. 
Ma ciò che più di tutto ha alimentato, forgiato e infine cristallizzato la sua leggenda, è stato il furto da prima pagina commesso nel 1994. 

Rinino in quel momento è a Londra, pronto a cambiare vita lontano dal suo vecchio ambiente quando, passeggiando per strada, nota un palazzo con delle impalcature: troppo facile, troppo ghiotta l’occasione, così sale e, una volta entrato facilmente nella stanza ruba diversi gioielli.
Senza saperlo, aveva appena derubato Il principe Carlo. Quel palazzo in cui si era introdotto con così tanta naturalezza, era infatti St. James Palace. Mentre nel Regno Unito la stampa si scatena, Rinino rientra serenamente in Italia e per tre anni nessuno riesce a venire a capo del mistero. Solo nel 1997, sperando di ricavare fama dall’impresa, decide di autodenunciarsi, addirittura avanzando una proposta: restituire tutta la refurtiva in cambio di una stretta di mano di Carlo.

Restituiti i gioielli tramite il proprio avvocato, senza però riuscire a incontrare il principe, e con il processo che si conclude con un nulla di fatto, l’ormai noto Lupin della Riviera tenta la strada della televisione, puntando alle ospitate in cui raccontare quella sua oggettivamente incredibile storia.
Siamo ormai a inizio anni duemila e, in una breve intervista in cui parla dei progetti futuri, Rinino non perde occasione di scherzare. Con accento tipicamente savonese e un sorriso sornione stampato in faccia, al giornalista dice che sì, progetti ce ne sono, anche proposte ma che, in qualsiasi caso, avendo ancora due mani, a lui il lavoro non mancherà di certo. 

Questo genere di storie, però, ha quasi sempre un epilogo tragico, come in fondo tragica era stata tutta la sua vita, tra carceri e, per un periodo, la dipendenza dall’eroina. Nel 2003, a soli quarantadue anni, Rinino muore assassinato con un colpo di pistola alla testa da un amico di infanzia per, a quanto pare, motivi di gelosia.

Benché la storia di Rinino sia molto più ricca di aneddoti e testimonianze rispetto a quelle che ho riportato io, il motivo per cui non ho potuto fare a meno di provare a rendere l’idea del tipo di personaggio è che, mentre leggevo la vicenda di Horst Fantazzini, contenuta nella raccolta di racconti Nessuno può portarti un fiore di Pino Cacucci, l’immagine di René mi è balzata subito agli occhi. 
Anche se priva di quegli ideali politici che sono invece sfondo della storia di Fantazzini, e motore e spinta decisiva dietro le azioni di tutti gli altri protagonisti del libro, ammetto che, se potessi scegliere a chi far raccontare la storia del Lupin della Riviera, il primo a venirmi in mente sarebbe Pino Cacucci.

In Nessuno può portarti un fiore Cacucci utilizza spesso la prima persona per raccontare storie di persone realmente esistite compiendo quello che, secondo me, è uno degli esercizi letterari più difficili e rischiosi. Immaginando pensieri, ricordi, dialoghi, riflessioni e reazioni, il rischio più grande è quello di andare sempre troppo oltre, di esagerare e stare sopra le righe, cosa che invece Cacucci riesce a evitare bilanciando la sua prosa, a tratti molto poetica, con fatti di cronaca e vari cenni sul contesto storico.

Colonna dell’indipendenza a Città del Messico

Ecco, proprio quest’ultimo, insieme agli ideali politici, sono i due elementi chiave che danno coerenza alla scelta delle storie inserite. Troviamo partigiani, militanti politici e anarchici rapinatori di banche come Horst Fantazzini, appunto; tutti accomunati, oltre che dall’avversione verso il potere vigente, dalla ferrea volontà di rispettare i propri principi, fino alla fine. Ribelli perché perseguitati o, nel migliore dei casi, costretti a una vita nell’ombra o di latitanza. Esemplare la storia di Clément Duval, anarchico illegalista dalla vita straordinariamente avventurosa e ricca di colpi di scena. Si fa fatica a credere che un uomo del genere, con tutto quello che ha passato tra guerre, con conseguenti gravissime ferite, rivendicazioni politiche varie più o meno violente, arresti e decine di tentativi di evasione dalle carceri, sia riuscito a campare fino a ottantacinque anni. È vero, Duval ha rapinato e commesso quelli che sono innegabilmente atti criminali ma, il merito di Cacucci quando affronta queste storie, genere nel quale secondo me dà il suo meglio, è proprio quello di riuscire a ben contestualizzare questi atti. Il mondo in cui vivono quegli anarchici è un mondo che reprime, esclude ed emargina chi ha determinate idee politiche. È un mondo in cui i lavoratori sono oppressi e faticano a rivendicare diritti minimi. 

Cacucci sfata così qualche mito riguardo l’anarchismo come corrente politica fatta solo da criminali dinamitardi. Lo scoppio di bombe e colpi di pistole creano sicuramente più clamore rispetto ad una militanza ostinata, coerente, fatta di vite rocambolesche e accidentate, come lo sono state per moltissime persone che hanno aderito a quei principi. 

Insomma, se vi piacciono le avventure, e siete tra quelli, come il sottoscritto, che si stupiscono continuamente pensando che quello che state leggendo è davvero accaduto a persone in carne ed ossa; e se vi piace scoprire le storie di personaggi un pochino laterali rispetto ai grandi eventi storici, allora questo è il libro che fa per voi. 

Le cose migliori del libro rimangono, a mio parere, i primi due racconti, che per altro si distaccano un pochino dagli altri per dinamica, motivazioni e conseguenze sulle vite delle protagoniste.

Il primo racconto della raccolta, che le dà anche il titolo, tratta la figura di Antonieta Rivas Mercado, scrittrice e militante politica messicana che, dopo aver contribuito con le proprie finanze e il proprio attivissimo alla rinascita su larga scala del mondo artistico messicano post rivoluzionario, si spara al cuore nella cattedrale di Notre-Dame, a soli trentuno anni. Si uccide a seguito delle disillusioni causate da un amore non corrisposto e alla consapevolezza che il fervore e le passioni politiche che aveva condiviso con artisti e politici si erano ormai affievolite, ed erano tramutare in qualcosa che aveva perso la sua spinta iniziale.

In Sylvia, invece, Cacucci immagina la lettera che Sylvia Ageloff avrebbe scritto ad un amica se avesse voluto spiegare le verità che avevano reso così drammatica e triste la maggior parte della sua esistenza. Sylvia Ageloff, infatti, nella realtà non ha lasciato alcuna testimonianza, né ha mai voluto parlare con nessuno della faccenda che l’ha vista suo malgrado coinvolta. In virtù della sua vicinanza a Tročkij data la sua militanza per il partito comunista, si era infatti ritrovata, nella sua più completa inconsapevolezza, ad essere la strumento decisivo con cui Ramón Mercader del Río è poi riuscito ad avvicinarsi al dissidente russo, uccidendolo. Ageloff si era perdutamente innamorata di Mercader del Río, in realtà spia di Stalin che, fingendo di ricambiarne i sentimenti, la sfruttò per arrivare all’obiettivo ultimo di uccidere il rivale del dittatore russo. Possiamo definire reali, veri, questo amore, questa felicità, anche se costruiti minuziosamente sull’inganno, anche se traditi e considerati meri strumenti per arrivare ad uno scopo così atroce come un assassinio? È possibile accettare e, soprattutto, perdonarsi per averli sinceramente e profondamente provati e vissuti? 

È in fondo questo che indaga Cacucci, attraverso una confessione bellissima, rabbiosa e straziante.

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