
C’è una canzone delle Luci della centrale elettrica, progetto musicale di Vasco Brondi, che è intitolata Nel profondo Veneto e comincia così:
Tempi presenti, casini interni, casini esterni
Tempi impossibili, tempi noiosi, tempi stupendi
E tu corri, tu cerchi di evitarti
Non sopporti più i rumori
E con dissimulata indifferenza
Torni a casa dai tuoi genitori1
Una canzone in cui molte persone nate tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta possono riconoscere la propria esperienza di vita. È in particolare l’ultimo verso della prima strofa, quel «Torni a casa dai tuoi genitori», che rappresenta un punto nodale della canzone: il punto esatto in cui le singole esperienze diventano un fatto generazionale.
Disseminati per l’Italia, per l’Europa e per il mondo – per motivazioni che spesso coincidono con il lavoro o con lo studio – molti italiani nati tra gli anni Ottanta e i Novanta vivono, una o più volte all’anno, questa esperienza del ritorno a casa dei genitori. Una esperienza che genera emozioni contrastanti: da un lato c’è il piacere di ritrovare i propri cari o certi luoghi dell’infanzia e della adolescenza o ancora di riabbracciare le persone che non se ne sono andate; dall’altro c’è l’inquietudine per ciò che emerge quando si ritorna alla casa avita: ovvero i motivi per cui si sono fatte le valigie e ci si è trasferiti altrove.
Alle origini del ritorno a casa
Quello del ritorno è un topos che affonda le sue radici nella letteratura antica. I Nostoi (I ritorni) è un poema greco che raccontava i ritorni degli eroi greci da Troia. Avete presente quei film in cui, dopo la conclusione della storia principale, vengono raccontati i destini di tutti i protagonisti? Ecco, una cosa del genere. Ma non pensatela come una cosa prescindibile, anzi: sono proprio quei racconti a rafforzare la storia principale, a illuminarne i personaggi salienti, i fatti determinanti. Purtroppo del poema Nostoi è rimasto poco e quello che conosciamo della trama deriva da un riassunto dell’intero Ciclo Epico presente nella Crestomazia di Proclo. Però è rimasta una cosa fondamentale: la necessità di raccontare il dopo.
Perché è importante il dopo
Per rimanere nell’ambito dei poemi omerici, pensate all’Iliade senza l’Odissea: percepiremo la centralità di Ulisse nel complesso del Ciclo troiano? Naturalmente percepiremo l’importanza di Ulisse nell’Iliade ma, allo stesso tempo, tra gli eroi che assediano Troia, forse ce lo ricorderemmo di meno, se non sapessimo che c’è un poema dedicato a lui, al suo destino dopo la guerra di Troia. E quel poema che illumina il profilo di Ulisse nell’Iliade, dopotutto, non è che il lungo racconto del ritorno a casa dell’eroe.
In generale, però, nei poemi greci, il nostos, il ritorno a casa, rappresenta il momento in cui l’eroe raggiunge la sua autorealizzazione, si accosta al proprio destino finale. Al termine del nostos c’è un cerchio che si chiude, una storia che si completa. Questa caratteristica ha mantenuto il suo valore almeno fino al Novecento, quando i ritorni hanno cominciato a fare i conti con l’incompiutezza.
Perdere la bussola
Il ritorno a casa – o alla «normalità», tema che va così di moda nell’era Covid-19 – in molte opere letterarie pubblicate soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale ha provocato uno spaesamento dell’eroe. Il ritorno è una ferita su cui vengono cosparsi i sali del rimorso, della disillusione, dell’alienazione. Pensate a un romanzo come La paga del sabato di Fenoglio: una volta terminata la guerra, una volta esaurito il ruolo raggiunto nell’ambito della Resistenza, il protagonista del libro, Ettore, non riesce a ritrovare il suo posto nel mondo. Nel ritorno – in quel caso in un Paese pacificato, proiettato verso un promettente futuro – Ettore trova soltanto amarezza, disillusione e, soprattutto, un ridimensionamento della propria epicità. Un eroe sacrificato al grigiore della quotidianità, così pare sentirsi Ettore. È ancora capace di affrontare la battaglia (per esempio quando affronta il padre e i fratelli di Vanda, la fidanzata che aspetta un bambino da lui), ma il risultato è sempre e comunque una sconfitta. Ecco l’amarezza nel ritorno, amarezza che ci porta nuovamente alla canzone delle Luci della centrale elettrica che prosegue così nella seconda strofa:
Dietro di te le macerie, le false speranze
Le case in cui avresti voluto vivere
I ritmi per realizzare l’impossibile
Adesso puoi non pensare alla tua immagine
Essere più trasparente
Ritornare sconfitta e contenta
Facendo finta di niente
Cosa ci si lascia dietro quando si torna? Macerie. Su questo punto potevano essere d’accordo anche Omero e Fenoglio: l’eroe omerico lascia alle spalle le macerie di Troia, quello fenogliano le macerie della guerra. Ma nessuno di questi due eroi lascia alle sue spalle «le false speranze». Per Ulisse e per l’Ettore di Fenoglio la speranza è ciò che determina il movimento. È qualcosa che sta davanti, nel futuro, non è già alle spalle. Per la protagonista della canzone di Brondi, invece, la speranza è molteplice, ma è falsa e già appartenente al passato. Se nell’Odissea la speranza prevale sulla disillusione; se nel romanzo di Fenoglio la disillusione pervade il presente, ma nel futuro si può riporre ancora qualche speranza; nella canzone delle Luci della centrale elettrica la disillusione è nel passato, nel presente e nel futuro. La disillusione è dappertutto. La disillusione è l’unica cosa che resta. La disillusione è ciò che si legge in faccia quando non si riesce più a reggere la maschera2.

Nella terra della disillusione
Ogni ritorno mette l’eroe di fronte alla propria vita. Riprendendo in mano l’Odissea è evidente come il tempo antecedente alla guerra di Troia agisca su Ulisse come un richiamo irresistibile. Deve tornare a Itaca, Ulisse, ma quando è al cospetto di Alcinoo, re dei Feaci, si prende tutto il tempo per raccontare il proprio tormentoso tentativo di ritorno.
«Via, ora ti narrerò il mio ritorno travagliato3» dice Ulisse ad Alcinoo e nel dirlo, noi lettori moderni non possiamo che percepire un certo gusto nel narrare a una persona appena conosciuta le proprie sfortune. Ecco, il compimento del ritorno mette un punto fermo a questa possibilità: nel raggiungere la meta, nel ritorno alla dimensione familiare o di patria, si perde la possibilità di narrare con oggettività le proprie sfortune. Con una persona appena conosciuta, invece, questa possibilità è presente e offre al narratore la possibilità di analizzare il proprio percorso. Il narratore, guardandosi dall’alto, avrà così la possibilità di pianificare delle scelte, di proiettarsi già nel futuro. Ora: nel poema omerico sono gli dei ad anticipare o guidare i destini degli uomini. Tuttavia noi lettori non possiamo non percepire l’inesorabilità del destino dei proci, una volta che Ulisse è sbarcato a Itaca.
Ma torniamo alla canzone di Vasco Brondi, dove questo passaggio del racconto delle proprie sfortune manca. La protagonista della canzone le sta ancora portando con sé, le proprie sfortune, e ne può percepire in gola l’acido sapore ogni volta che è costretta a fare finta di niente. Il paesaggio intorno, intanto, sembra rappresentare, a livello fisico, la natura stessa della disillusione. E la protagonista di questa storia, come un camaleonte, ne assume colori e materialità.
Nel profondo Veneto
Dove il cielo è limpido
Dove il sole come te è sempre pallido
Nel profondo Veneto
Quello senza traffico
Dove il terreno come te a volte è arido
Cosa succede quando si raggiunge la meta?
Cosa succede quando il ritorno è compiuto? Lasciamo ora Ulisse (ma ci torneremo fra poco), il cui destino ci è ben noto, e continuiamo a leggere il testo della canzone delle Luci della centrale elettrica:
Ma ti leggeranno in faccia
Che facevi l’amore quasi tutte le sere
Che dormivi pochissime ore
Ti leggeranno in faccia
Una vaga idea di futuro migliore
Di futuro migliore
Sembra che, per quanto la si possa nascondere sotto una maschera, la vita che rimane là fuori in attesa – la vita altrove – emerga lo stesso. E più i giorni passano più montano la disillusione, la noia, l’abbandono all’idea dell’ineluttabile:
Da tre giorni la stessa canzone
Due bar, una chiesa, una farmacia, un negozio di alimentari
No, non c’è la stazione
Non c’è niente da dire, niente da spiegare
Niente da capire, c’è solo da esistere
Da lasciare correre

Quando si torna bisogna essere pronti ad affrontare chi ti conosce, chi ti sa leggere dentro, chi sa bene che, per quanto cerchi di riadattarti al territorio, ai suoi ritmi, alle sue abitudini, i segni del cambiamento sono ormai incancellabili. Il territorio bucolico e sereno, immagine di un ritorno idillico, è frustrato dalle ferite dei sogni che non si sono realizzati, dalla distanza che non ha colmato niente. «Niente da capire, c’è solo da esistere/da lasciare correre», dice la canzone. Ma non è forse questo uno dei motivi per cui, prima o dopo, anche solo per pochi giorni, si torna al luogo in cui si è cresciuti? Tornare, in alcuni casi, non può essere anche un grido d’aiuto? Nel ritorno, non cerchiamo anche il cane Argo capace di riconoscerci?
Ma ti leggeranno in faccia
Che facevi l’amore quasi tutte le sere
Che dormivi pochissime ore
Ti leggeranno in faccia
Una vaga idea di futuro migliore
Di futuro migliore
Ti leggeranno in faccia
Che dicevi di stare bene, invece qui a Milano
Facevi la fame
Ti leggeranno in faccia
La data del giorno in cui stavi pensando
Di volerti ammazzare
Tornare oppure no
Il 17 agosto 1950 Cesare Pavese ha scritto una lettera alla sorella Maria, che si trovava a Santo Stefano Belbo, il paese delle loro origini. È una lettera in cui Pavese informa la sorella del fatto che si è sistemato in una camera d’albergo «che mi costa pochissimo e ci dormo benissimo». L’albergo è l’albergo Roma, dove una decina di giorni più tardi lo scrittore si sarebbe tolto la vita. Pavese conclude quella lettera dal sapore così intimo e familiare con uno: «State bene. Io sto bene, come un pesce nel ghiaccio».
Non possiamo sapere se in quei giorni Pavese avesse desiderato tornare ancora una volta al suo paese natale. Quello che sappiamo è che ha scelto di trascorrere i suoi ultimi giorni in uno spazio provvisorio – una camera dall’albergo – a due passi dalla stazione. Quella scelta oggi può apparire come un simbolo: Pavese si è fermato a un passo dal ritorno.
Perché dico “ritorno” e non dico: “a un passo da un nuovo viaggio”? È una suggestione, certo, ma pensando a Pavese, e facendo un bilancio dei suoi scritti, non posso che pensare che fosse uno scrittore dei ritorni4 e non uno scrittore dei nuovi viaggi. Ecco cosa dice l’Odisseo dei Dialoghi con Leucò:
ODISSEO: Da troppo tempo la cerco. Tu non sai quel che sia avvistare una terra e socchiudere gli occhi ogni volta per illudersi. Io non posso accettare e tacere.
CALIPSO: Eppure, Odisseo, voi uomini dite che ritrovare quel che si è perduto è sempre un male. Il passato non torna. Nulla regge all’andare del tempo. Tu che hai visto l’Oceano, i mostri e l’Eliso, potrai ancora riconoscere le case, le tue case?
ODISSEO: Tu stessa hai detto che porto l’isola in me.
CALIPSO: Oh mutata, perduta, un silenzio. L’eco di un mare tra gli scogli o un po’ di fumo. Con te nessuno potrà condividerla. Le case saranno come il viso di un vecchio. Le tue parole avranno un senso altro dal loro. Sarai più solo che nel mare.
ODISSEO: Saprò almeno che devo fermarmi.
Il ritorno porta con sé l’inquietudine nel trovare le cose diverse, invecchiate; porta con sé la consapevolezza che siamo irrimediabilmente cambiati; ma porta con sé anche il senso di appartenere a un posto, a una comunità. Non possiamo sapere quante volte Pavese, in quei suoi ultimi giorni in cui si sentiva «come un pesce nel ghiaccio», abbia ipotizzato un ritorno al suo paese natale. Quello che possiamo sapere è il significato che assume il ritorno per Pavese. «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti», dice Anguilla ne La luna e i falò. Il ritorno al paese, alla propria gente, bene o male è qualcosa che permette di ritrovarsi, di ricaricarsi prima di decidere se fermarsi per sempre o ripartire. Il ritorno può anche costituire un balsamo, un lenimento. A patto di trovare qualcuno capace di leggere le tue sofferenze e non giudicarti.
Ma non lo diremo a nessuno
Cara non ti preoccupare
Non lo diremo a nessuno
Non lo saprà mai tua madre
Non lo diremo a nessuno
No, non ti preoccupare
Non lo diremo a nessuno
Non lo saprà mai tuo padre.

- Nel profondo Veneto, Le luci della centrale elettrica. Canzone contenuta nell’album Terra del 2017.
- «Adesso puoi non pensare alla tua immagine/Essere più trasparente/Ritornare sconfitta e contenta/Facendo finta di niente». Questa è la maschera, ciò che ci si racconta per sopravvivere nel corso della liturgia del ritorno.
- Omero, Odissea, Libro IX, traduzione di Giuseppe Tonna, Garzanti.
- La casa in collina si chiude con il ritorno di Corrado al paese natìo, per esempio. La luna e i falò si apre con il ritorno di Anguilla al paese natale: («C’è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire «Ecco cos’ero prima di nascere». Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi. La ragazza che mi ha lasciato sugli scalini del duomo di Alba, magari non veniva neanche dalla campagna, magari era la figlia dei padroni di un palazzo, oppure mi ci hanno portato in un cavagno da vendemmia due povere donne da Monticello, da Neive o perché no da Cravanzana. Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione»).