Almost heaven, West Virginia,
Blue Ridge Mountains, Shenandoah River
Life is old there, older than the trees,
younger than the mountains,
blowing like a breeze.
…
All my memories, gather round her,
miner’s lady, stranger to blue water.
Dark and dusty, painted on the sky,
misty taste of moonshine,
teardrop in my eye.

Questi sono alcuni dei versi che compongono il grande classico folk-rock Take me home, country roads scritto da John Denver come splendida dedica al West Virginia, la terra che è poi la vera protagonista delle storie di Trilobiti e che Breece D’J Pancake racconta con la stessa passione e poesia. I nomi dei fiumi, delle strade e dei piccoli paesi in cui vivono e si muovono i personaggi non sono solo punti di riferimento che rendono più realistiche le storie, ma anche e soprattutto occasioni per omaggiare una regione che Pancake ha esplorato e che in parte conosceva benissimo. Ogni racconto è riempito di momenti in cui si percepisce chiaramente l’amore dell’autore verso la propria terra.
D’J Pancake è nato nella Virginia occidentale nel 1952, dove ha sempre vissuto fino al suicidio, avvenuto a nemmeno ventisette anni d’età, nel 1979. Dopo aver studiato ed essersi laureato alla Marshall University of Huntington, Pancake ha frequentato l’Università della Virginia, dove tra i suoi insegnanti ha trovato John Casey, con il quale ha instaurato un profondo rapporto di stima e amicizia, e il premio Pulitzer James Alan McPherson. Fattosi notare presto, tanto per il suo grande talento narrativo, quanto per la sua instancabile voglia di migliorarsi anche attraverso una feroce autocritica, era riuscito a farsi pubblicare fin da subito alcuni racconti. Trilobiti, raccolta pubblicata nel 1977, resta la sua unica opera.
Cresciuto in mezzo a una natura dalla bellezza quasi incontaminata, amante della vita all’aria aperta e buon conoscitore della fauna, era anche un appassionato pescatore e cacciatore, come ricorda lo stesso Casey:
Conosceva i mestieri della gente, dai loro attrezzi al rapporto che avevano con essi. Conosceva la geologia, la preistoria e la storia del suo territorio, e non per passatempo, ma perché li considerava un parte tanto profonda di se stesso da non riuscire a smettere di fantasticarci su. [1]
L’unica traccia che resta per poter provare a farsi un’idea riguardo il suo suicidio, racconta sempre Casey, è un sogno annotato su un taccuino poco prima di morire e in cui ancora una volta a farla da padrone sono gli elementi naturali: manti erbosi, ruscelli, alberi e una ricca selvaggina. Una specie di paradiso in cui gli animali, come è tipico dell’immaginario dei nativi americani originari di quelle zone, dopo essere stati colpiti a morte, resuscitavano scappando via.

Le sue storie arrivano dritte da una terra e da una regione, quella degli Appalachi, che negli ultimi tempi è suo malgrado conosciuta più per essere stata un ampio bacino di voti dell’attuale presidente Trump, che non per le sua clamorosa natura. A fare da eco a questa inaspettata ribalta, ha contribuito la pubblicazione di un libro che in America ha avuto un grandissimo successo di critica e pubblico, dal titolo piuttosto eloquente: Hillbilly Elegy di J. D. Vance, pubblicato nel 2016 (in italiano il titolo perde un po’ della sua efficacia, diventando semplicemente Elegia americana).
Hillbilly, termine che si potrebbe tradurre all’incirca con “buzzurro”, è il nomignolo con cui si identificano gli abitanti delle zone montuose degli Appalachi; principalmente bianchi e appartenenti a quella classe operaia ormai depressa, sono considerati appunto dei montanari duri, tenaci e un po’ zotici.
Pur essendo un libro dalla struttura e dalle intenzioni molto diverse, sento di poterla consigliare come buona lettura parallela a Trilobiti, per confronti, somiglianze e spunti di riflessione. Attraverso la propria autobiografia di hillbilly che in qualche modo ha salito la scala sociale, Vance ci restituisce un ritratto basato sia sulla realtà dei fatti (citando anche studi di carattere statistico e sociologico), che personale affidandosi ai propri ricordi, e quindi molto soggettivo, della propria famiglia e dell’ambiente in cui è cresciuto, cercando di indagare le cause che hanno portato gli abitanti di questa regione a vivere in una sorta di crisi economica perenne, dove il tasso di istruzione è tra i più bassi d’America.
Lo scopo di Pancake, invece, non è certo fornirci spiegazioni socialmente o economicamente autorevoli, ma quello di dipingere, racconto dopo racconto, una vasta gamma di personaggi che ogni giorno si trovano a combattere per riuscire ad andare avanti senza incasinarsi troppo la vita. Le problematiche e le contingenze storiche presenti nei due libri, viaggiano però sullo stesso binario e descrivono realtà che, seppur abbastanza lontane nel tempo, hanno continuato a ripetersi.

Il mondo che racconta Pancake è lo stesso delle terre di nessuno descritte da Chris Offutt: quello di paesi e città poco popolose, per lo più isolate e in cui le varie crisi, da quella che ha colpito l’industria mineraria a quella del settore metalmeccanico della vicina Rust Belt, hanno causato la perdita di un gran numero di posti di lavoro, lasciando chi era privo di opportunità in preda a qualche tipo cambiamento.
Come sempre, dove non esistono troppe vie di mezzo, o tenti di scappare oppure resti, conscio però di dover fare i conti con una vita che supera di poco la sussistenza, dove anche fare l’agricoltore è più difficile per via della conformazione montuosa del territorio.
La mia salvezza è appunto la storia di due amici: uno che forse vorrebbe partire, sogna una vita a Chicago ma è scoraggiato anche da chi gli sta intorno, l’altro – Chester – che invece a Chicago ci va davvero:
Ho sentito dire che in Georgia non sanno guidare con la neve e che in Arizona sbroccano al volante con la pioggia, ma nessun ragazzo purosangue del West Virginia andrebbe a meno di centoventi all’ora su un rettilineo […]. A quei tempi Chester scoprì che la gente filava via dal West Virginia sulla Interstate 64 in rotta verso posti più interessanti come l’Ohio o l’Iowa, e per la prima volta in vita sua Chester mise la quarta sulla sua Chevy.[2]
Reduci e amici di reduci della guerra in Vietnam, meccanici, benzinai, contadini, minatori e piccoli commercianti intrecciano le loro vite in un tempo che sembra ripetersi all’infinito, come è tipico dei paesi dispersi tra colline a foreste. La sfiducia è un vortice che si tira dentro tutti, una generazione dopo l’altra. I padri non hanno molto da trasmettere ai figli, se non quella frustrante sensazione di non potercela fare al di fuori di quello che si è sempre fatto. Il messaggio è chiaro: non vale la pena andarsene, anche se non hai nulla, così come non vale la pena studiare perché non è studiare l’abilità richiesta quando vivi in mezzo alle montagne. In uno degli ultimi e più intensi racconti, Come deve essere, ci troviamo davanti ad una delle immagini più tristi e che ben rappresenta questo atteggiamento:
«Ti ci puoi comprare un po’ di vestiti con quel gruzzolo», disse mio padre. Protestai che mi serviva più una macchina se dovevo andare al college ogni giorno, ma lui si fece una risata e mi strofinò le nocche sulla testa. Mi disse che ero un bravo ragazzo anche se ero un mascalzone.
Perfino le signore della mensa scolastica mi mandarono un biglietto dicendo che sarei diventato un letterato: sull’altro lato c’era la caricatura di un postino. Ci misi un po’ a capire la battuta. [3]
Una cosa che resta, su tutte, è la sensazione di esser stati racchiusi in una precisa atmosfera e, al termine della lettura, sentirsene ancora circondati, con quel fortissimo desiderio di andarsi a perdere tra quei paesaggi. Il ritmo delle storie talvolta è interrotto, una sospensione durante la quale è come se Pancake ci facesse alzare lo sguardo per vedere ciò che si estende davanti ai nostri occhi. Non è questione di descrizioni, ma di trovare il giusto equilibrio tra quello che gli occhi guardano e il come lo guardano, tra le azioni e i momenti di apparente immobilità. Ed è questa, a mio parere, la sua più grande abilità: saper creare stati d’animo senza chiamare per nome i sentimenti.
Già nella prima parte del racconto che apre la raccolta, Trilobiti appunto, abbiamo un perfetto esempio della sua incredibile bravura. Il padre di Colly è morto, sua madre vuole vendere la fattoria anche se lui è contrario e Ginny, la ragazza alla quale aveva promesso che sarebbero vissuti solo d’amore e mango, è partita per la Florida da due anni, senza di lui.
Mi rilasso sul sedile, provo a scordarmi questi campi, le colline intorno. Molto prima di me o di questi attrezzi, qui c’era il Teays. Riesco quasi a sentire le acque gelide e il solletico dei trilobiti che strisciano. L’acqua delle vecchie montagne scorreva tutta a ovest. Ma la terra si è sollevata. E a me restano solo il letto di un fiume e gli animali di pietra che colleziono. Batto le ciglia e respiro. Mio padre è una nuvola cachi nel canneto e Ginny per me non è altro che l’odore amaro delle more in cima alla collina.[4]
[1] John Casey, Prefazione, Trilobiti, Minimum fax, 2016.
[2] D’J Pancake, “La mia salvezza”, in Trilobiti, Minimum fax, 2016.
[3] ibidem.
[4] D’J Pancake, “Trilobiti”, in Trilobiti, Minimum fax, 2016.