di Paolo Zardi
Vladimir Nabokov era convinto che sarebbe passato alla storia per due opere, il romanzo Lolita e la monumentale traduzione in inglese di Eugenio Onegin; ora che sono trascorsi quasi cinquant’anni dalla sua morte, un tempo ragionevolmente lungo per poter valutare con obiettività il lascito di questo autore, possiamo dire che ebbe senza alcun dubbio ragione sul romanzo, ancora oggi considerato tra i capolavori del Novecento, e, lo si può dire con la stessa sicurezza, torto sulla traduzione, che solo alcuni cultori di Nabokov e, forse, di Aleksandr Puškin ancora ricordano.

Nabokov era quantomeno trilingue: conosceva il russo, la sua lingua madre, sapeva leggere e scrivere in francese, e padroneggiava bene l’inglese, che iniziò a imparare già da bambino e che a partire dalla seconda metà degli anni Trenta divenne la lingua della sua scrittura. In gioventù, tradusse in russo parecchi autori inglesi e francesi, e ancora oggi la sua versione di Alice nel paese delle meraviglie, di Lewis Carroll è considerata tra le migliori; giunto alla maturità, si imbarcò in un’impresa titanica che occupò diversi anni della sua vita, e alla quale dedicò le sue forze migliori: la traduzione in inglese di una delle opere più importanti della letteratura russa, il romanzo in versi di Puškin. Il risultato fu monumentale: quattro volumi eruditi e coscienziosi, con 265 pagine di traduzione e 1200 pagine di commento. E tuttavia, nonostante l’impegno profuso, nonostante l’innegabile talento di Nabokov, l’opera ricevette critiche pesantissime, alla sua uscita, e l’idea di traduzione che sorregge questa enorme costruzione non convinse nessuno e anzi, cadde presto nel dimenticatoio: il Nabokov traduttore non ebbe, di fatto, alcun seguace (va detto che anche come entomologo non ebbe grande successo: molte delle sue intuizioni vennero poi smentite dalla scienza).
E per fare luce sul rapporto, per certi versi tormentato, di Nabokov con la traduzione, la studiosa Chiara Montini ha raccolto alcuni suoi scritti, e una recensione di Edmund Wilson, in un saggio dal titolo Traduzioni pericolose, uscito per Mucchi nel 2019, un testo che risulta interessante sia per gli appassionati dell’autore, sia per chi si occupa, a vario titolo, di traduzioni. Come detto, Nabokov iniziò prestissimo a tradurre: giovane, spavaldo, talvolta insopportabilmente presuntuoso – un tratto caratteriale che sarebbe stato smussato dai fiaschi dell’età matura, e che poi avrebbe trovato nuovo vigore dopo Lolita – era convinto di riuscire a riprodurre alla perfezione tutte le sfumature dei poeti francesi e inglesi, forse vittima anche lui, come tanti, dell’effetto Dunning-Kruger, quella particolare distorsione cognitiva a causa della quale, leggo su Wikipedia, «alcuni individui poco esperti in un campo tendono a sopravvalutare le proprie abilità». Per lui:
la traduzione è viaggio e possiamo affermare che consiste di tre tappe. La prima è quella dello studio e dell’empatia. Se la confrontiamo al capolino, la poesia originale, è una penetrante discesa, uno scivoloso percorso all’ingiù lungo lo stelo, dal capolino fino alla radice invisibile. Eccoci giunti alla tappa successiva, quella dell’ispirazione. La radice invisibile è ricca, e all’interno del suo umido cuore troviamo l’euforia e l’impeto necessari per la nostra impresa. La terza e ultima tappa è l’imitazione d’espressione. Ora il viaggio è verso l’alto in un’altra lingua, dalla radice condivisa, su per un gambo nuovo, a un nuovo capolino; e là ci schiudiamo, all’altezza dell’originale. È come un movimento a V: giù per uno stelo e su per un altro. Questa è vera traduzione.
Teorizza per anni sulle caratteristiche che deve avere il traduttore; si indigna, con lettere quasi disperate, per le pessime traduzioni in inglese dei suoi libri russi; individua i principali errori in cui incappa un traduttore, ordinandoli in base alla gravità (il più grave? Cercare di ottenere una traduzione “scorrevole”); e arriva a stilare la descrizione del perfetto traduttore, che coincide, di fatto con il proprio profilo:
Dovrebbe essere assolutamente onesto, non dovrebbe evitare le difficoltà, non dovrebbe mai abbandonare il povero scrittore (che normalmente è morto e in ogni caso non può ribattere). Dovrebbe essere dello stesso sesso dell’autore. Non dovrebbe mai lusingare il suo pubblico o l’editore. Dovrebbe ricevere somme principesche per il suo lavoro. Svarioni e cantonate dovrebbero essere puniti con multe salate; riaggiustamenti e omissioni coi ceppi.
Quando però decide di affrontare la traduzione di Eugenio Onegin, questa volta dal russo, sua lingua madre, verso l’inglese, la lingua della nazione che lo aveva accolto nel 1940, scopre che il sogno di trasporre, di riprodurre fedelmente l’opera di un autore in un’altra lingua è semplicemente impossibile; arriva dunque a una conclusione che suona drastica: «Il traduttore deve lasciare in pace l’autore il cui immaginario è “inalienabile” ». Rinuncia, quasi da subito, alla speranza di poter mantenere le rime del poema, la cui perfezione non cessa di elogiare nelle note e nell’introduzione all’opera; prova a riprodurre lo stesso metro dell’originale ma solo perché l’inglese lo permette senza sforzi; non tenta in alcun modo di semplificare il testo, di renderlo comprensibile quando non lo è nella versione originale. Traduce letteralmente, e poi aggiunge note su note, spiegando ogni singola scelta. Poiché Puškin si era formato leggendo poesie inglesi tradotte in francese, Nabokov ricostruisce i passaggi a ritroso di ogni singola parola, cercando il modo con il quale erano entrate nel vocabolario del poeta, nel suo immaginario, e provando poi a riprodurne l’esatta intenzione – non lo spirito! «È quando si prefigge di restituire lo “spirito” – non il senso testuale – che il traduttore comincia a tradire il suo autore. La traduzione letterale più impacciata è mille volte più utile della parafrasi più graziosa.»
La profondità della sua analisi della lingua russa in relazione a una possibile traduzione in inglese è, in certi punti, così dettagliata e tecnica da risultare oscura per un profano:
L’inversione o, per essere più precisi, la pirricchizzazione di parole trocaiche – che si incontrano con tanta frequenza nei giambi inglesi (soprattutto nel caso di vocaboli bisillabici che terminano in -er o – ing) – è rara nel verso russo in cui solo qualche preposizione bisillabica e gli elementi trocaici delle parole composte si prestano a uno spostamento di accento.
Una volta che la sua opera viene pubblicata, iniziano le critiche, talvolta aspre, e il tono indisponente, spesso saccente, di Nabokov non lo aiuta a trovare alleati. La più dolorosa delle critiche, però, gli arriva dal suo vecchio amico Edmund Wilson, che, senza mezze misure «Poiché Mr. Nabokov è il meno modesto degli uomini, non mi faccio scrupoli a ritorcere contro di lui le mie rivendicazioni antagoniste», cerca di smontare l’impianto complessivo di quella traduzione, evidenziandone gli errori talvolta grossolani e rimproverando una conoscenza non sempre perfetta dell’inglese. Mette in dubbio la sua capacità di critico letterario, riportando i suoi giudizi tranchant su Dostoevskij (“un romanziere dell’epoca molto sopravvalutato, sentimentale e gotico”), su Balzac (“La Femme de trente ans di Balzac è un romanzetto volgare molto sopravvalutato”), su Stendhal (“ha uno stile disadorno” e “Le rouge et le noir è molto sopravvalutato”). Nabokov ama provocare, dice Wilson, e così facendo si atteggia a sardonico e sciocco. A questo punto Nabokov non può esimersi dal rispondere, e lo fa con un articolo lunghissimo nel quale aggredisce, talvolta in modo vile, Wilson: mentre leggevo questa sua tirata al vetriolo, mi sentivo come quelle persone che si trovano in compagnia di una persona amata che improvvisamente perde il senno e nella rabbia si sfigura; in taluni momenti, mi sono sentito in imbarazzo per lui. Non lo riconoscevo: Nabokov stava facendo un dissing vero e proprio.
Alla fine di tutto, non so dire chi dei due avesse ragione – non sono esperto di traduzioni, non conosco il russo, ho letto Eugenio Onegin in una vecchia traduzione che mi era sembrata scorrevole e che ora, dopo la lettura di questo saggio, non ho più il coraggio di riprendere in mano. Ma al di là della rissa finale, devo ammettere che la possibilità di immergersi, ancora una volta, nella mente di questo curioso genio, nelle sue idiosincrasie e nelle sue convinzioni più profonde, nella sua visione particolarissima dell’arte – dei suoi scopi, delle sue forme – mi ha confermato che Nabokov è degno di essere uno dei migliori punti di riferimento per chiunque si cimenti nella scrittura.