
Di Diletta Crudeli
L’orrore, la narrativa dell’orrore, è una creatura multiforme che cambia pelle durante lo scorrere del tempo e a seconda delle geometrie dello spazio in cui si trova. Un racconto di Lovecraft è diverso da un altro racconto di Lovecraft, una stanza in penombra di Chambers è differente da una di Poe, dove molto probabilmente c’è solo un teschio ghignante e non un antico demone. Questo per dire che nel parlare dei racconti di Thomas Ligotti contenuti nella raccolta Teatro Grottesco bisogna procedere con cautela, perché vi si incontra un tipo di orrore che con superbia e un’incantevole potenza risponde a questo tempo e a questo spazio in cui viviamo.
Teatro Grottesco piega intorno a sé la realtà e si rivela in una filosofia notturna, fornendo una chiave orrifica per svelare cosa davvero si cela dietro a questo momento fertile che l’essere umano pensa di poter definire con qualche semplice gesto. E per chi come me sceglie di poter assaporare il buio in ogni suo angolo più sconosciuto scoprire Ligotti è stata una rivelazione.
Partiamo con il dire che i racconti di Ligotti sono tutti ambientati in bolle di oscurità. Questo è il corollario che consegue alla realtà: ogni luogo è infestato. E questa infestazione è rivelata da personaggi che si accorgono di un errore nel sistema. Come potrebbe accadere in un romanzo di Philip Dick c’è qualcosa che attira la loro attenzione e sebbene la scoperta non sia piacevole, questi uomini fuori dall’ordinario non possono fare a meno di guardare. E qui entra in gioco il secondo elemento su cui è basata tutta la narrativa di Ligotti; se il cosa è il luogo infestato il come è completamente affidato all’elemento perturbante.
Il perturbante è quell’errore nel sistema. È qualcosa che viola la nostra percezione della realtà, che contravviene al sentimento placido e ormai consumato che ogni mattina ci fa alzare dal letto. Simbolo del perturbante è la marionetta. La marionetta è un essere umano, o almeno ne ha le sembianze. Perché la marionetta riesce in qualche modo a disturbare il suo spettatore? Perché è come lui, solo che ha i fili. Ma le cose si fanno ancora più strane quando la mente si piega e si rende conto che anche il nostro stesso corpo potrebbe essere dotato di fili. La marionetta non sa di averli, dovremmo forse saperlo noi?
E qui sta il trucco del perturbante, perché la sensazione non se ne va. Non si tratta di un’apparizione spettrale, o una bambina posseduta, il perturbante non è fuori, è dentro la mente. Quindi una volta che questa sensazione si è insinuata è difficile lasciarla andare via, difficile che scompaia o che qualcosa si risolva. Di certo la mente umana ci proverà, perché è stata ammaestrata a cercare una risposta. E più si cerca la risposta più si torna al punto di partenza: è il perturbante che ci ha permesso di scoprire che ogni luogo è infestato.
Ma se ogni luogo è infestato c’è forse possibilità di salvezza? No. Non c’è.
Quelle di Ligotti sono preghiere nere, e per quanto il suo debito a Lovecraft sia enorme qui la differenza essenziale sta nel fatto che quest’orrore, per quanto cosmico e capace di diventare personaggio stesso del racconto, non ha un nome. Tutto è perduto, e poco importa se quella dell’uomo sia pazzia causata dall’aver spostato un angolo della tenda vellutata che ricopre la realtà o se davvero c’è dell’altro: quello che importa è la possibilità dell’orrore, la sua potenzialità e il suo ascendente sull’ingenua razza umana.
Come in un film di Lynch il mondo in realtà è innervato dal male e una volta superato un certo momento, una volta varcata la soglia, non c’è via di uscita (di nuovo Lynch: «Once we cross, it could all be different»).
Benché non l’avessi riconosciuta come tale, la botola, che sembrava comunicare con una cantina sotto la casa albergo dove risiedevo, era tra i più tipici dei cosiddetti «segni». Tutti, come garantivano isteriche tante persone, indicavano una qualche soglia, portale o varco che occorreva stare attenti a non superare e nemmeno avvicinare.
Ma la filosofia orrifica di Ligotti non si ferma qui, perché la finzione stessa è sintomo di questa maledizione. Con uno stile evocativo e sofisticato, dove il male è una recita cantilenante, dove sulla pagina vi è un pentametro fatto di buio (sentite come suona bene: «l’assenza, di una certa casa dallo spazio che un tempo occupava nella via fuori mano di una città sul confine settentrionale»), Ligotti persevera nel concepire i suoi orrori, ma sopratutto persevera nel svelarli.
L’infestazione è irrevocabile e chi narra queste storie lo fa per allontanarle da se stesso. Il mondo per come lo conosciamo è una bugia, e l’uomo stesso continua a raccontarsi la stessa storia per non essere costretto ad affrontare la vera realtà.
Ne Le varie forme dell’esperienza religiosa William James dice che «coloro che sono sanguigni e mentalmente sani vivono di solito dalla parte luminosa rispetto allo spartiacque della miseria; i depressi e i malinconici vivono oltre lo spartiacque, nell’oscurità e nell’apprensione».
Teatro Grottesco è semplicemente lo spettacolo stesso dell’uomo che vuole sfuggire alla sua natura, una natura debole e perennemente sconfitta dalle forze oscure che si nascondono là fuori, ovunque.
Diletta crudeli ha pubblicato Chiudi il becco! sul quarto numero di Tre racconti. Per leggerlo, puoi scaricare il Pdf disponibile qui. Per sfogliare la rivista, invece, clicca qui.