Il gioco magico del tempo. Thomas Mann e Dino Buzzati

A pagina duecentocinquantacinque de La montagna incantata, Thomas Mann pone una domandina facile facile. Di quelle da pausa caffè davanti alla macchinetta nel corridoio: «Che cos’è la vita?».

A quel punto tu, lettore già un po’ provato dalle minuziose descrizioni delle cime e delle valli innevate intorno al sanatorio Berghof (belle per carità!) e dalle dettagliate disquisizioni su tecniche diagnostiche e correnti umanistiche, hai già i polsi che tremano e mentre avverti un brivido gelido correrti lungo la schiena (qui il cliché è necessario) intuisci che stai per affrontare una sequenza di speculazioni sulla vita e l’universo che neanche Melville quando scrive di nodi, sfumature di bianco e tecniche di smembramento della balena sul ponte del Pequod.

E in effetti, a conferma dei tuoi timori, scopri che per le successive dodici pagine Mann ti costringe a seguire la visione erudita e allucinata di Hans Castorp. Un giovanotto poco sveglio che se non ti stava simpatico prima fa poco per farti cambiare idea dopo. Uno che neanche con la nausea, una copiosa epistassi, il tremolio delle membra, i capogiri, gli occhi lacrimosi e i colpi di calore si decide a comprare un semplice termometro e magari a mangiare leggero. No, lui, l’Eroe, dopo una cena di sette portate e una birretta, «illuminato dalla Luna nella gelida notte, con le dita diacce e il viso acceso», esce sul terrazzo, si avvolge nelle coperte e prende in mano i libri «per studiare la vita del corpo per interessamento medico-umanistico».

Hans Castorp al sanatorio Berghof
Hans Castorp studia nel sanatorio Berghof. Una scena del film tratto dal romanzo di Mann

Da lì è tutto un volare tra il grandissimo e il piccolissimo. Un vagare più o meno ordinato tra amebe pseudopodi, vertebrati vari, molecole di albumina, blastule, bioplasti, biofori (qui un pensiero affettuoso va allo stoico traduttore Ervino Pocar), mucose, vie lattee e sistemi solari atomici, legamenti, ossa, cellule e bacilli, fino a quando Castorp immagina un altro se stesso al suo interno e poi se stesso rifratto e riflesso all’infinito. Castorp all’interno di altri Castorp e insiemi di Castorp moltiplicati tra di loro. Una sorta di Castorp frattale, modello per analogia del mondo. Un’idea molto rinascimentale tra l’altro, non credo casuale.

Ora, perché sto parlando delle digressioni enciclopediche di un’opera monstre di seicentosettantasei pagine su un blog che parla di racconti?

Perché Thomas Mann, anni dopo la pubblicazione, spiegò ai «fortunati» studenti di Princeton – disse proprio così – che in origine La montagna incantata doveva essere un racconto. Una sorta di controcanto satirico a La morte a Venezia. Un racconto che però gli sfuggì di mano per motivi che a noi oggi dicono molto su come può avvenire la genesi di un’opera letteraria.

Parlo di La montagna incantata anche perché in realtà quello scritto da Mann, oltre a essersi evoluto come un romanzo di formazione (il famoso Bildungsroman), una ricerca del Santo Graal della conoscenza di se stessi e del mondo, è innanzitutto una grande opera sul tempo. Sul modo in cui scorre e in cui decidiamo che debba scorrere. Perché mentre tu, lettore, continui a non capire dove Hans Castorp voglia andare a parare o come si schiererà nelle altissime dispute filosofiche imbastite dai suoi due maestri (il gesuita-terrorista Naphta e l’umanista-massone Settembrini), comprendi almeno l’idea centrale: il tempo è la misura di ciò che si accumula e cresce. Un concetto così ampio che per l’autore tedesco non poteva adattarsi al respiro e al ritmo di un racconto, specie con una guerra in procinto di scoppiare.

Succede infatti che mentre Mann scrive ispirato da una visita che realmente aveva fatto alla moglie ricoverata in un sanatorio svizzero, iniziano ad addensarsi le nebbie della prima guerra mondiale. Poi il lavoro si interrompe e in quella lunga pausa piena di riflessioni matura il disegno di un’opera in cui incorporare tutto. Hans Castorp, da personaggio di sfondo, un giovanotto borghese qualunque tra i tanti ospiti di una struttura di cura, diventa «un pupillo della vita». Il proposito di fare satira sfuma, sopravvivendo solo in alcune scene della routine del Berghof, e lascia il posto a «una storia ermetica» lanciata nel calderone immenso della Storia con la S maiuscola. Spaventoso come può esserlo solo un orizzonte bianco di neve per un viaggiatore che deve orientarsi con il cielo coperto.

La montagna, dunque, non è più solo un posto dove l’aria è rarefatta e si attende la guarigione, ma un luogo in cui danzare con il tempo; a volte con e a volte contro. Nel sanatorio Berghof, posto sopra «il piano» dove vivono gli altri (i sani) e dove si svolgono le cose della vita, avviene uno strano e “magico” distaccamento. E Mann “gioca” appunto a inserire infinite possibilità negli spazi che si aprono tra l’aria rarefatta e i discorsi dei due maestri che si contendono l’anima del giovane Castorp. Ed è proprio questa la storia che l’autore decide di raccontare, e può farlo solo procedendo per accumulazione e accrescimento. Di qui La montagna incantata che conosciamo: seicentosettantasei pagine.

***

Dopo averle lette tutte quelle pagine mi sono chiesta se ci fosse un equivalente nei racconti, o un autore che fosse riuscito a giocare e danzare con il tempo provocando un effetto di un’intensità simile a quello di Mann ma sulla breve distanza. Poi, riflettendoci un po’, l’ho trovato all’estremo opposto. Nelle 2203 battute spazi inclusi de I giorni perduti di Dino Buzzati. Una pagina scarsa in cui l’autore de Il deserto dei tartari mette in scena un giallo in miniatura che si risolve con un clamoroso rovesciamento di colpa grazie a precise ed efficacissime trovate linguistiche. (Se non volete spoiler vi conviene leggerlo prima di proseguire).

Credito: Rob Sheahan su Unsplash

Invece di una dilatazione o di una sospensione, nel racconto di Buzzati abbiamo un movimento che somiglia a un capovolgimento e a una contrazione. In poche righe, quello che sembrava un semplice furto con un chiaro responsabile da additare diventa una rivelazione sul senso di un’intera vita. Il ricco Ernst Kazirra apre le casse che il misterioso ladro gli aveva sottratto e con sorpresa ci trova dentro il suo tempo. Il tempo che proprio lui, ladro di se stesso, aveva scelto di non trascorrere insieme alle persone che gli volevano bene. I giorni perduti cui allude il titolo. Tempo che Buzzati non dice ma mostra, come nella migliore tradizione delle short stories.

È quindi una magia diversa da quella della montagna, che non viene costruita per accumulazione ma per svolte improvvise. Grazie, ad esempio, al cambio lessicale dal femminile delle «casse» al maschile dei «giorni» esattamente a metà racconto, o al cambio di tono dal “tu” iniziale al “lei” finale che segna il capovolgimento di colpa (il ladro apparente e il ladro vero) e a quel «qui» piazzato a una decina di righe dalla fine che crea uno strano senso di vicinanza con il protagonista: «Si sentì prendere da una certa cosa qui, alla bocca dello stomaco».

Buzzati non dice (cioè non spiega) la morale del racconto perché non ne ha bisogno; con grande abilità ce la mette davanti, anzi, ce la fa sentire direttamente alla bocca dello stomaco. Ed ecco che, come accade sulla montagna, anche sulla breve distanza del racconto, il tempo, la cosa che pensavamo di riuscire a misurare con certezza, diventa l’ennesimo mistero umano. Con tante facce quanti sono i modi per riempirlo.

E allora la nostra conclusione potrebbe essere una seconda domanda. Un’altra del tipo “pausa caffè davanti alla macchinetta nel corridoio”: cos’è più magico? Dilatare e accorciare il tempo o capovolgerlo e contrarlo nello spazio di un sogno?

È un gioco nel quale ciascun lettore esprime la propria preferenza. E il bello è proprio questo.

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