
Poche settimane prima di morire, Richard Yates rilasciò un’intervista a Scott Bradfield, un giornalista dell’Independent. Era il 1992 e Yates viveva a Tuscaloosa, nella sede dell’Università dell’Alabama dove aveva insegnato fino a qualche tempo prima. Yates soffriva di enfisema polmonare da dieci anni e quando Bradfiel lo contattò, lo scrittore accettò la proposta con molto entusiasmo («Grazie per essersi ricordato», si sentì dire Bradfield, un’esclamazione che sembrava sottintendere un «di me»). La stanza di Yates era essenziale: una scrivania con una macchina da scrivere, un frigorifero pieno di birra e bourbon, alcune fotografie delle sue tre figlie e, appesa alla parete, una citazione di Adlain Stevenson: «Americans have always assumed, subconsciously, that every story will have a happy ending».
Né la carriera né la vita di Yates brillarono di memorabili successi. I suoi genitori divorziarono quando aveva tre anni e il periodo tra l’infanzia e l’adolescenza fu segnato da diversi trasferimenti; Richard e sua sorella erano vittime delle aspirazioni artistiche inconcludenti e delle crisi nervose della madre Dookie. A vent’anni Yates entrò nell’esercito e dopo la guerra viaggiò tra Francia e Inghilterra, facendo poco altro se non scrivere. Beveva, fumava e tossiva – i suoi polmoni erano stati danneggiati dalla polmonite durante il servizio militare – senza riuscire a pubblicare nulla. Tornato a New York lavorò come autore di testi per la Remigton Rand Corporation e per un breve periodo, alla fine degli anni ’60, scrisse i discorsi per il procuratore generale Robert Kennedy. Per molti anni ha vissuto da solo, è stato sposato due volte, due volte ha divorziato. La carriera di Yates iniziò ufficialmente nel 1961 con la pubblicazione del celebre (straziante e bellissimo) Revolutionary Road, un romanzo che arrivò tra i finalisti al National Book Award nell’edizione in cui vinse Walker Percy con The Moviegoer. Pubblicò altri romanzi di ottimo livello (il meno conosciuto ma altrettanto valido Easter Parade) e diversi racconti. Tenne corsi di scrittura alla Columbia University, a Boston, in Iowa e in California. Yates ha influenzato scrittori come Raymond Carver e Richard Ford, era molto apprezzato da Tobias Wolff, Dorothy Parker, Tennessee Williams e John Cheever, Kurt Vonnegut lo chiamava “the Great Gatsby of my generation”, eppure nessuno dei suoi libri vendette più di 12.000 copie. Il New Yorker pubblicò un suo racconto, The canal, soltanto nel 2001. Ma in una conversazione con l’amico e collega Andre Dubus, Yates confidò di non essere tanto interessato al successo in termini di vendite: «Io non voglio soldi, voglio lettori».
Dalla pubblicazione di Revolutionary road al secondo romanzo, A special Providence, passarono otto anni. Non fu un periodo felice, come ammise lo stesso Yates a Bradfiel: «Non so cosa sia successo. Credo che si sia trattato della sindrome del secondo romanzo. Ci sono voluti sette anni per scriverlo. E alla fine hanno dovuto strapparmelo da dentro». Yates non è mai stato troppo contento di quel libro e in un’intervista del ’72 cercò di rispondere a qualche perché: «I suspect that’s why A Special Providence is a weak book – one of the reasons, anyway. It’s not properly formed; I never did achieve enough fictional distance on the character of Robert Prentice». Richard Yates disse di non aver avuto la capacità di distanziarsi da Robert Prentice, il protagonista del romanzo. Aveva già scritto altri libri basati su se stesso o su persone che conosceva ma era sempre riuscito a far passare tutto attraverso una specie di “fictional prism”, un veicolo immaginario che permetteva alla storia di epurarsi dall’esperienza soggettiva, così che il lettore potesse sentire la presenza dell’autore senza mai vederlo. Yates credeva molto nella citazione di Flaubert: «L’autore deve essere nella sua opera d’arte come Dio nell’universo, onnipresente e invisibile».
Bob Prentice era un nome già noto ai lettori di Yates. Nel 1962, Yates pubblicò Eleven Kind of Loneliness [1], una raccolta di racconti scritti tra i venti e i trent’anni. Uno dei racconti è Builders e il protagonista è proprio Bob Prentice. A differenza di A special providence, Yates credeva in quel racconto perché era stato in grado di oggettivarlo: «sono riuscito a evitare le terribili trappole della narrativa autobiografica – l’autocommiserazione e l’autodifesa». Bob Prentice, scrittore non troppo di successo con un lavoro precario e un matrimonio in crisi, è un chiaro ritratto di Richard Yates. La trama del racconto è abbastanza semplice: Bob Prentice lavora per una società assicurativa e uno dei tanti giorni in cui sfoglia il giornale per cercare un impiego un po’ più stabile trova un’offerta interessante. L’inserzione è di Bernie Silver e la figura che cerca è quella di uno scrittore su commissione. L’idea di Bernie è di pubblicare una raccolta di racconti basati sulle sue “avventure” da tassista. Bob ha bisogno di soldi e accetta l’incarico (ecco il compromesso tra ideale e realtà, elemento fondamentale nelle storie di Yates). Ne scriverà uno, un altro, un altro ancora. Fino a un certo punto, che scoprirete voi stessi quando lo leggerete. Non so se Builders sia il miglior racconto di Yates, di sicuro è quello per me più rappresentativo, una sorta di traccia di tutto quello che produrrà in seguito, e contiene una piccola ma importante lezione di scrittura. Quando Bob si mostra un po’ titubante, Bernie incalza:
Capisce che in un senso scrivere un racconto è un po’ come costruire? Come costruire una casa? […] Una casa, cioè, bisogna che abbia il tetto. Ma ci troveremmo nei pasticci se cominciassimo a costruirla dal tetto, no? Prima del tetto si devono costruire le mura, no? E prima delle mura si devono gettare le fondamenta, no? E così via. Prima delle fondamenta si deve scavare nel terreno una bella fossa, vero? Ho ragione?» […] Supponiamo che lei costruisca una casa in questo modo. E allora? Qual è la prima domanda che deve porsi a opera compiuta?
E la domanda è: «Dove sono le finestre?». Da dove entra la luce? «Voglio dire… la filosofia della storia, la sua verità…». È quello di cui parlavo qualche mese fa, quando ho provato a spiegarvi quella verità che cerco nei racconti. Il senso è tutto qui, in questa citazione. Così si scrive un racconto, non ci sono alternative. Se non c’è quel bagliore, la storia non esiste.
Mi sento molto vicina al pensiero espresso da Stewart O’Nan in un articolo per il Boston Review. O’Nan si chiede perché uno scrittore del calibro di Richard Yates, rispettato e ammirato dai colleghi, in grado di smuovere i lettori in modo profondo, non ottiene il riconoscimento che merita. Riferendosi a Tutto il bene possibile, un racconto delle Undici solitudini in cui un uomo e una donna, alla vigilia delle nozze, scoprono una specie di distanza, una sensazione di non detto che ci è molto familiare, O’Nan fa notare che: «Questo è il mondo fortunato di Carver, ma senza trucchi e senza l’ultima speranza». Il mondo di Yates non è ambizioso, non così ottimista, ma è onesto, tragicamente onesto, per quanto triste possa apparire. A Yates non interessavano i successi ma era attratto dai fallimenti, dalle situazioni in cui l’uomo sente di aver perso tutto e allora rivela la parte più istintiva (più vera?) per provare in qualche modo a rimettersi in piedi. Gli esseri umani sono inevitabilmente soli e in questo risiede la loro tragedia. Il problema è che gli americani, gli uomini tutti, hanno sempre avuto l’idea inconscia che ogni storia avrà un lieto fine. Ma la vita non va sempre così, e se la letteratura è la vita oggettivata, chi meglio di Richard Yates ha saputo raccontarcela?
[1] Richard Yates, Undici solitudini, minimum fax, 2006. Traduzione di Maria Lucioni.
La biografia di Richard Yates scritta da Blake Bailey nel 2003 s’intitola, non a caso, A Tragic Honesty.