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Ricorrenze, di Christian Raimo

Di Manuel Crispo

«Nel 1986 mi trasferii con tutta la famiglia da Potenza a Roma. Fu uno degli ultimi viaggi che feci in macchina con mia madre e mio padre. E l’ultimo che feci con mio fratello. Era il 12 maggio ed era uno di quei giorni di transito, di inespressive atmosfere celesti, di odori incomprensibili nell’aria, di cui la vita dei paesi più sviluppati dell’Europa, del NordAmerica, della Russia occidentale, cominciava a essere sempre più piena. Ero seduto dietro nella macchina, e nonostante la lucidità eccessiva per la levataccia, nutrita per via endovenosa ad agitazione, fibre allertate e bevande calde, quello che elaboravo mentalmente in quei momenti era quasi assolutamente nulla. Registravo il percorso e il paesaggio, ma non capivo se dovessi tenere a mente un’immagine globale o qualche dettaglio o che cosa. le insegne stradali indicavano ogni chilometro che passava, ogni paesello ci dava il benvenuto e ci diceva arrivederci un minuto dopo, ma quella forma essenziale di nostalgia cutanea che è tipica e forse necessaria in questi casi stava solo fermentando molto molto lentamente e di lì a poco avrebbe assunto delle fogge talmente inaspettate che definirle nostalgia anche oggi può al massimo far venir fuori un sorriso brevissimo, e forse ancora, leggermente, indifeso».

Comincia così il racconto Ricorrenze contenuto nella raccolta Latte dello scrittore, traduttore e insegnante Christian Raimo. Comincia con questo sorriso, un brevissimo sorriso di reazione alla parola (o al concetto di) nostalgia, molto più fragile di quello che chiuderà poi il racconto, come se nel corso del testo questo sorriso si andasse addensando un poco per volta, una pagina dietro l’altra.

La raccolta, uscita per minimum fax nel 2001, comprende altri nove racconti, nei quali Raimo sperimenta stili differenti (due sono in versi), ma tutti con un obiettivo in comune: indagare in profondità i dolori e le illusioni di una generazione cresciuta senza padri.

Ricorrenze si articola su due piani temporali. Da un lato c’è il resoconto di un viaggio in auto del protagonista-narratore, Giuseppe Libèri, con i genitori (il padre, impresario di pompe funebri, che tenta di educare i figli a gestire la morte; la madre, una quarantatreenne protettiva ma fondamentalmente ignava) e il fratello gemello Davide. Un’odissea che nasce e si sviluppa nell’irrazionale.

«Il motivo per cui dovemmo trasferirci da Potenza a Roma stava tutto nella ghiandola pineale di mio padre. Nella ghiandola pineale, diceva lui, ci sono tutte le scelte su cui non hai controllo».

Dall’altro c’è la vita attuale di Giuseppe, ormai dottorando, che sembra svolgersi nell’eterna attesa di una telefonata nei confronti della quale lui stesso sembra non sapere come porsi in termini emozionali.

Tanto concreto e dettagliato – definitivo – ci appare il suo passato, tanto è nebuloso il suo presente, agitato da una schiera di personaggi irrisolti: Lucio e il suo bisogno di “appropinquarsi all’estasi”, Obo che ha perso una gamba e indaga il tabù della menomazione, la ciclotimica Silvia che parla quasi solo per domande, Toni che ci dà sotto con la coca, la cinefila Eleonora e per finire l’enigmatica Aura, ex fidanzata di Davide e attuale compagna dello stesso Giuseppe.

Su Aura soprattutto si concentra lo sguardo dell’autore da un certo momento in poi, Aura che è un nome e una foto ripresa dall’alto, Aura che dorme, Aura che forse ha un nuovo ragazzo, Aura che è come un fantasma, impalpabile sin dal nome, irraggiungibile al pari degli altri personaggi di questa storia.

«Aura: s.f. In senso poetico, aria, brezza, vento leggero. Oppure: atmosfera, emanazione espressiva dell’intimo…».

In questo strano deserto fatto di volti e di nomi che si confondono, mentre Giuseppe fa il conto delle piccole cose che lo differenziavano da Davide, un accento appena un po’ diverso, la capacità di leggere in auto senza sentirsi male, la telefonata attesa sin dalle prime righe del racconto ci appare come una sorta di oasi, qualcosa a cui appigliarsi disperatamente per non lasciarsi travolgere.

La considerazione più ovvia è che questo è un racconto che parla di assenze. Assenza del fratello gemello, di cui Giuseppe conserva una foto soltanto («Ha un’espressione in viso, mezza sorridente, come sul punto di dire qualcosa, di cambiare faccia»), assenza di una figura genitoriale credibile, assenza di un rapporto personale reale. In ventiquattro densissime pagine Raimo descrive lo squilibrio un po’ frastornato di una generazione di genitori inaffidabili, laureati a spasso, disillusi cronici, conducendo con sorprendente sensibilità il lettore sul terreno ambiguo dell’illusione identitaria. Un’illusione che, in qualche modo, ci riguarda tutti.

Manuel Crispo ha pubblicato Il parrucchiere di Elvis sul terzo numero di Tre racconti. Per leggerlo, puoi scaricare il Pdf disponibile qui. Per sfogliare la rivista, invece, clicca qui.