
Ho scoperto Elvis Malaj circa un anno e mezzo fa, grazie a un frammento di racconto che avevo letto su Grafemi, il blog di Paolo Zardi. Il racconto in questione era Il televisore, contenuto nel quarto numero della rivista effe. Quello che mi aveva colpito, allora, era stato il punto di vista di Elvis Malaj, davvero unico nel panorama della letteratura italiana. Zardi sul suo blog aveva scritto:
[…] è impossibile non vedere che qui c’è un mondo nuovo, qualcosa che fino a una decina di anni fa non esisteva e che solo adesso qualcuno sta iniziando a raccontare. Leggendolo, ho improvvisamente avvertito la distanza tra quanto viene scritto e pubblicato dagli “italiani da sempre” e questo racconto – e ho provato a immaginare come sarà la letteratura italiana tra venti o trent’anni, e poi ho provato a domandarmi come vorrei che fosse, e ho iniziato a sperare che le opere di Malaj non siano un caso isolato, che esista, o che inizi a formarsi, una letteratura nuova, piena di contaminazioni, dove non è diversa la lingua, o l’intenzione, o la struttura, ma la materia stessa di cui si compone.[1]
Leggendo Il televisore ho pensato la stessa cosa che ha scritto Zardi. Tra le righe di quel racconto di Elvis Malaj c’era il seme di qualcosa di inedito nella nostra letteratura. Qualcosa di impossibile da raccontare per un “italiano da sempre” come dice Zardi. Qualcosa che mi incuriosiva e mi affascinava moltissimo. Così a ottobre, quando ho scoperto che Dal tuo terrazzo si vede casa mia di Elvis Malaj sarebbe stato presentato proprio da Paolo Zardi alla libreria Zabarella di Padova, non ho potuto fare a meno di andare ad ascoltare quello che Malaj aveva da dire sulla sua opera d’esordio.
Devo dire che dalla presentazione ho avuto solo conferme: ho scoperto un autore con un tono di voce originale, con uno stile ricco di sfumature ritmiche (procuratevi il libro, cominciate a leggere ad alta voce l’incipit di Vorrei essere albanese, il primo racconto della raccolta, e capirete) e una consapevolezza sulla propria scrittura davvero rara per un esordiente. E nei giorni successivi, leggendo Dal tuo terrazzo si vede casa mia, tutte le buone aspettative che avevo intorno ai racconti contenuti in questa raccolta sono state ulteriormente confermate. Allora ho pensato di scriverci qualcosa su, ho provato a buttare giù una recensione, ma poi ho pensato che per raccontare al meglio questo libro e chi è Elvis Malaj sarebbe stata più opportuna un’intervista. Così ho contattato Elvis e ne è venuto fuori questo dialogo.

Elvis, da qualche settimana è nelle librerie Dal tuo terrazzo si vede casa mia, il tuo libro di esordio per i tipi di Racconti edizioni. Al di là del tuo punto di vista unico e originale sulla nostra società, leggendo i tuoi racconti non ho potuto fare a meno di apprezzarne lo stile. Nei tuoi racconti la storia sembra seguire una certa direzione e poi sterza all’improvviso e intraprende una nuova strada, perfino più plausibile della prima. Questo aspetto dona ai tuoi racconti un gran bel ritmo e dà carattere alla tua scrittura. La trovo una capacità rara, davvero singolare per quanto riguarda la forma racconto (forse i romanzi ci hanno abituato di più alle “sterzate”). Mi piacerebbe sapere da dove nasce la tua scrittura, quali sono i tuoi riferimenti letterari.
Diciamo che cerco di assorbire quello che c’è di buono, e che a me piace, da ogni libro e autore che leggo. Non so dirti un nome che mi ha influenzato più di altri, cosa che, invece, era molto evidente nella mia fase iniziale di scrittore, cioè il mio stile assomigliava dannatamente allo stile dell’ultimo autore che avevo letto. Comunque sia a me piacciono le soluzioni semplici, dinamiche e dal ritmo incalzante; probabilmente è dovuto anche a una mia sana fobia: la paura di annoiare. La mia scrittura è caratterizzata da continui cambiamenti di prospettiva ma non di colpi di scena, le storie quasi sempre finiscono in maniera pacata o, come dici tu, plausibile. Non c’è un voler stupire o un voler sorprendere, anche se dall’inizio alla fine del racconto il lettore non sa mai cosa aspettarsi e alla fine rimane stupito e sorpreso da quella che, col senno di poi, era la soluzione più plausibile. Comunque, penso che i miei riferimenti letterari rimangano quelli della mia fase iniziale – e più intensa – di lettore: Kafka, Svevo, Čechov, Schnitzler, Pirandello, Tozzi, Hesse, eccetera.
Be’ direi che la tua scrittura non annoia affatto. Anzi, già dal primo racconto, Vorrei essere albanese, c’è un bell’assaggio della musicalità della tua penna: «Avevo una ragazza, un lavoro, una busta paga di mille e tre netti al mese, e con gli straordinari, che di solito rifiutavo, potevo arrivare benissimo superare i mille e sei. Avevo un permesso di soggiorno, avevo amici quanti ne volevo, avevo un letto a una piazza e mezza…». [2] Mentre leggevi questo incipit ad alta voce, durante la presentazione del tuo libro alla libreria Zabarella, non ho potuto fare a meno di cominciare a battere il piede. La ripetizione di quell’avevo, avevo, avevo, che va avanti per quasi due pagine, descrive un bel crescendo, come si direbbe in linguaggio musicale, e al massimo dell’intensità culmina in «Avevo un nome ricco di significato, era il delirio e il dramma di un popolo». [3] Poi punto e a capo e si incontra il primo cambio di prospettiva di tutto il libro. Trovo che Vorrei essere albanese sia stato la scelta migliore per aprire il libro, un piccolo assaggio di alcune cose che il lettore potrà ritrovare negli altri racconti. Ma non parlo solo di temi, parlo soprattutto del tuo modo di strutturare i racconti e di come sono disposti nella raccolta. A questo punto mi è venuta la curiosità di sbirciare nel tuo “laboratorio” di scrittore: come nasce un tuo racconto e come si è sviluppata questa raccolta?
Sì, alla fine mi sono convinto anch’io che Vorrei essere albanese sia stata la scelta migliore. Però, ti confesso, delle perplessità c’erano; questo è l’unico racconto di tutta la raccolta in cui il tema del razzismo viene affrontato. Che poi, alla fine, non viene neanche affrontato, viene solo lambito. Non c’è un episodio di razzismo, c’è un episodio di mancato razzismo. Quindi c’era la perplessità che potesse dare un idea sbagliata del libro, ossia che i temi fossero l’immigrazione, il razzismo, l’integrazione e altre problematiche sociali, che ovviamente io non ignoro, però al centro dei miei racconti c’è l’individuo, la persona.
Come nasce un mio racconto? Non c’è una formula o una procedura, ogni racconto nasce a modo suo, è un continuo reinventarsi. Dovrei prenderne ognuno singolarmente e dirti com’è nato. Però la cosa che accomuna le mie storie è che quasi sempre sono dei frammenti di vissuto, sono delle istantanee in cui cerco di cogliere dei momenti di frattura del quotidiano, il fragile equilibrio che governa le vite dei mie personaggi salta, o minaccia di saltare. L’orco da cui scappano i miei personaggi non è il razzismo, la povertà eccetera, ma la loro inadeguatezza e il non senso delle situazioni in cui si cacciano.
Sì, infatti, leggendo gli altri racconti emerge proprio quello che dici: al centro ci sono prima di tutto le persone: il fatto che siano albanesi, italiani, o di qualsiasi nazionalità non è così importante. Il racconto Il televisore mi sembra un buon esempio. In quel racconto il tema dello straniero e della differenza tra la cultura albanese e quella italiana all’inizio sembra centrale. Poi, mano a mano che si procede con la lettura, la storia finisce par parlare dei rapporti tra le persone, in questo caso un rapporto sentimentale che va avanti nonostante un equilibrio precario e singolare. E sembra essere lo stesso equilibrio precario e singolare che il protagonista vive nel rapporto con la società. Quel televisore rotto che gira per tutta la città passando di mano in mano, e che il protagonista incrocia più volte durante la giornata, sembra diventare sempre più un marchio di diversità. Diversità che il protagonista non ha mai sentito così evidente e che invece vedendo quel televisore sembra percepire con una certa intensità. In questo racconto torna la parola “razzismo”, ma in realtà si parla più che altro del disagio esistenziale dell’individuo e di una certa sensazione di inadeguatezza di fronte alle meccaniche dei rapporti personali nella società di oggi. E quest’ultimo mi sembra un tema che si ritrova in quasi tutti i racconti.
Il televisore è anche il primo racconto tuo che ho letto e mi aveva già colpito molto. Ero davvero curioso di leggere altro di tuo. Quando ho saputo che una tua raccolta sarebbe stata pubblicata da Racconti edizioni devo ammettere che è stata una bella notizia. La pubblicazione di un tuo racconto su rivista ti ha aiutato a farti conoscere. Raccontaci un po’ come è andata.
Probabilmente, se non avessi pubblicato su effe#4, non avrei pubblicato questa raccolta. Il mio editore mi ha scovato sulle pagine di questa rivista. Paolo Zardi, uno dei primi che ha cominciato a parlare di me e a promuovermi, l’ho conosciuto perché l’anno scorso ci siamo trovati fianco a fianco nella libreria Limerick di Padova a presentare la rivista effe. Confesso che in un primo momento non le avevo dato la giusta importanza, ma col senno di poi posso dire che è stata una tappa fondamentale nel mio percorso, non solo per farmi conoscere ma anche per il confronto con il pubblico. Le persone hanno cominciato a leggere ciò che io scrivevo. Ecco, effe è stato un piccolo ma fondamentale passo. Poi per me ha anche un valore romantico perché è stata la mia prima pubblicazione cartacea.
L’anno scorso, qui su Tre racconti, abbiamo intervistato Philip Ó Ceallaigh, tuo compagno di collana, e gli abbiamo chiesto un parere sulla differenza di linguaggio tra racconto e romanzo. Lui ci ha risposto: «La differenza sta nel diverso livello di attenzione richiesto al lettore. I testi più corti sembrano suggerire una lettura più lenta. Per questo quella dei racconti è una forma più letteraria e meno popolare. Richiede un’attenzione speciale anche rispetto al come è costruito. Per la poesia vale ancora di più. La poesia richiede una lettura ancora più lenta. All’opposto, più ci si avvicina al romanzo, più si scivola in una forma di narrazione commerciale». Mi piacerebbe sapere cosa ne pensi anche tu su questo tema, visto che oltre aver pubblicato una raccolta di racconti, ti sei misurato anche sulla lunga distanza scrivendo un romanzo (che al momento è ancora inedito).
Sono d’accordo con Philip in quanto in un racconto non puoi usare tutte le parole che vuoi, devi dire tante cose in poche parole, e quindi, in un certo senso, la lettura è più lenta. Poi il testo corto richiede un tipo di lettore più coraggioso perché i personaggi non li possiedi fino in fondo, non li conosci del tutto. Ma neanche lo scrittore stesso li possiede fino in fondo, almeno per quanto mi riguarda. Io conosco i miei personaggi solo per quello che racconto nella storia, non ne so di più. E spesse volte non so perché fanno ciò che fanno o perché succede quello che succede. Sì, ovviamente posso avere una mia idea in merito, però non la reputo più attendibile di quella di qualcun altro. Quindi tocca al lettore tirare le somme di ciò che ha letto, il che è impegnativo e non adatto al lettore a cui piace essere imboccato dall’autore. Nonostante generalmente si pensi il contrario, è più difficile scrivere un bel racconto che un bel romanzo. Ci vuole maestria per raggiungere la completezza con poche parole.
Sono d’accordo con te. A questo punto ti chiedo un’ultima cosa: tre racconti che consiglieresti di leggere a un aspirante scrittore.
Bartleby lo scrivano di Melville, Acqua d’oro di Tyrewala e Corsia n. 6 di Čechov. Sono i primi tre racconti che mi sono venuti in mente, anche se ci sono molti altri che mi piacerebbe mettere nella lista, tra cui lo stesso Ó Ceallaigh che abbiamo citato prima.

Elvis Malaj è il primo autore italiano pubblicato da Racconti edizioni. Nato in Albania nel 1990, si è trasferito in Italia con la sua famiglia all’età di quindici anni. È stato finalista al concorso 8×8, e ha pubblicato racconti su effe e nella rassegna stampa di Oblique. Dal tuo terrazzo si vede casa mia è il suo esordio.
[1] Paolo Zardi, “Lo sguardo dello straniero”, grafemi.wordpress.org, 11/09/2016.
[2] Elvis Malaj, “Vorrei essere albanese”, in Dal tuo terrazzo si vede casa mia, Racconti edizioni, 2017 (Pag. 7)
[3] Elvis Malaj, “Vorrei essere albanese”, in Dal tuo terrazzo si vede casa mia, Racconti edizioni, 2017 (Pag. 8)