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«Nel profondo Veneto». Di ritorni, canzoni e letteratura

Disseminati per l’Italia, per l’Europa e per il mondo – per motivazioni che spesso coincidono con il lavoro o con lo studio – molti italiani nati tra gli anni Ottanta e i Novanta vivono, una o più volte all’anno, questa esperienza del ritorno a casa dei genitori. [...]

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Natura morta con custodia di sax di Geoff Dyer

Ho comprato Natura morta con custodia di sax di Geoff Dyer un po’ a scatola chiusa, nel senso che non sapevo bene cosa aspettarmi. In realtà è sempre così quando ti ritrovi per le mani qualcosa di Dyer. Essendo uno scrittore in grado di muoversi con grandissima abilità su qualsiasi terreno narrativo, non sapevo se avrei trovato storie di jazzisti, vere e proprie biografie, veri e propri racconti, oppure dei “classici” pezzi di non fiction ricchi delle sue impressioni ma molto vicini ad uno stile saggistico. Iniziata la lettura mi sono reso conto che le sue intenzioni erano proprio quelle di andare ad abbracciare tutte queste cose, come spiega lui stesso nella prefazione:

Quando cominciai a scrivere questo libro non sapevo esattamente che forma avrebbe preso. Mi trovavo dunque in una posizione di notevole vantaggio perché ero costretto a improvvisare (…). Ben presto mi accorsi infatti di essermi allontanato da qualsiasi tipo di critica convenzionale. A mano a mano che inventavo dialoghi e azioni capivo di avvicinarmi sempre di più al racconto.[1]

Foto tratta da Unsplash

I nove mostri sacri su cui Geoff Dyer costruisce i suoi racconti, e attorno ai quali ruotano svariati altri musicisti più o meno importanti, sono Lester Young, Thelonious Monk, Bud Powell, Ben Webster, Charles Mingus, Chet Baker, Duke Ellington e Art Pepper. Non penso di osare troppo nel dire che, in un certo senso, Dyer rimodella il concetto di narrazione biografica soprattutto attraverso la sua capacità di immedesimazione nelle vite altrui, mescolando in maniera coerente e credibile realtà e finzione.

Lei guardò il suo volto reso spugnoso dal bere, e si domandò se le loro vite non avessero contenuto in sé il germe della rovina fin dalla nascita, una rovina di cui si erano presi gioco fin dalla nascita, una rovina di cui si erano presi gioco per qualche anno, ma che in realtà non avrebbero mai potuto eludere. Alcol, roba, prigione. Non è che i jazzisti muoiano giovani, è che invecchiano più in fretta. Aveva vissuto mille anni nelle canzoni che aveva cantato. Canzoni di donne ferite e dei loro uomini.[2]

Nel racconto The President ecco un esempio dello stile e della costruzione delle storie. L’incontro tra Lester Young e Billie Holiday, che si conoscevano realmente (fu proprio lei a dargli il soprannome The President), è lo spunto per una riflessione sulla rassegnazione per la direzione presa dalle rispettive vite, forse fin dalla nascita destinate ad essere così. Qualcosa che il jazz aveva aiutato a far venire fuori, lei con la sua voce e lui col proprio strumento.

Alcol e droghe sono stati fattori comuni di un gran numero di jazzisti importanti, praticamente tutti quelli di questa raccolta. Le conseguenze sono state a volte il carcere e a volte anche le cliniche psichiatriche. Tante morti premature, certo, ma più che altro un consumare se stessi ad una velocità impressionante. Come ci fa notare Geoff Dyer nell’altrettanto ricca postfazione, i musicisti erano continuamente sotto pressione e al lavoro, proprio perché composizione, jam session e concerti erano fluidi che si mescolavano continuamente, diventando una cosa sola, serata dopo serata. Il jazzista, oltre che artista, era anche un mestierante che si ritrovava a suonare spesso con band sempre diverse, mettendosi in viaggio dopo ogni concerto. Non poteva concedersi il lusso di aspettare l’ispirazione per suonare.

E proprio come i musicisti, Geoff Dyer è davvero attento alla dinamica delle sue storie, modulando il tocco e l’intensità della sua scrittura, nell’alternanza tra gli episodi di vita quotidiana e i momenti in cui i protagonisti si legano e si fondono con il proprio strumento. Amante anche della fotografia, alla quale ha dedicato vari scritti, Dyer sostiene che proprio il jazz sia stato uno dei massimi beneficiari dell’arte fotografica, perché in grado di cogliere tanto l’estetica della frenesia sul palco quanto la calma, talvolta la malinconia, nascoste sui volti dei musicisti nei momenti di attesa nei camerini o durante la composizione di nuovi pezzi.

Una delle caratteristiche migliori di Geoff Dyer è però la sua capacità di vedere spiragli in qualsiasi altra forma d’arte oltre alla scrittura, sfruttando qualsiasi particolare per attaccarci una storia, costruendoci un racconto.
Ed è anche partendo dalle immagini, oltre che da aneddoti ed episodi raccolti nelle varie biografie ufficiali o libri sulla storia del genere, che Dyer alimenta la propria immaginazione. La narrativa prende così le sembianze del jazz in cui, parafrasando l’autore stesso, il rapporto sfuggente tra composizione e improvvisazione continua a permettergli di autogenerarsi continuamente. Parte da un punto fermo, statico, come una foto appunto, per poi aprire completamente la scena dandole movimento, immaginando l’azione dei corpi e le loro parole. Anche gli oggetti prendono vita attraverso i dettagli, così come i tanti flussi di pensieri. Ecco come descrive Thelonious Monk, che le cose preferiva suonarle con quella sua fisicità unica, più che dirle:

Suonava con le mani spalancate, appiattite sui tasti, le punte delle dita quasi rivolte all’insù anziché piegate a martello. […] Non gli piaceva uscire dal suo appartamento, e le parole non ne volevano sapere di uscirgli di bocca. Invece di venirgli fuori dalle labbra, gli ritornavano in gola, come un’onda che rotolasse all’indietro verso il mare aperto anziché infrangersi sulla spiaggia. In musica non faceva concessioni, aspettava solo che il mondo capisse il suo lavoro, e con il linguaggio era la stessa cosa: aspettava che la gente imparasse a decifrare i suoi grugniti e i suoi ugolii modulati.[3]

Con una metafora bellissima ci fa capire immediatamente il soggetto, la sua attitudine nella musica e nella vita.
Non servono date di nascita, o di concerti o incisioni di dischi. Non c’è nulla di cronologico, ma solo a volte nomi di canzoni o di artisti da cui ciascun protagonista è stato ispirato, oppure con i quali ha suonato. La sostanza di queste storie è l’amore assoluto per questo genere di musica, perché per loro è la cosa più importante di tutte, l’unica a cui attaccarsi davvero, fino entrarci dentro, perché semplicemente non sembra esserci altra soluzione o via di fuga, come ci suggerisce Monk:

Vedi, il jazz ha sempre avuto questa cosa, il fatto che tutti si dovesse avere il proprio sound; per questo c’è un sacco di gente che magari non ce l’avrebbe fatta nelle altre arti: gli avrebbero appiattito le loro idiosincrasie, per così dire […] E così c’è un mucchio di gente nel jazz che la sua storia e i suoi pensieri sono diversi da quelli di tutti gli altri, tantoché senza il jazz loro non avrebbero mai avuto nessuna possibilità di tirare fuori tutte le loro idee e tutta merda che avevano dentro. Ragazzi che in qualsiasi altra professione – come banchieri o anche idraulici – non ce l’avrebbero mai fatta: con il jazz potevano essere dei geni, senza sarebbero stati niente.[4]

Foto tratta da Unsplash

Leggendo i suoi racconti, ho avuto anche un po’ l’impressione che non si possa mai davvero raggiungere la profondità di quest’arte, in cui l’improvvisazione di uno o più elementi può cambiare continuamente la posta in gioco durante un concerto, in cui cogliere l’istante è fondamentale per capirsi vicendevolmente nei guizzi e nelle intuizioni, quella sensazione di immersione fisica e mentale così totale. E non è una questione di qualità, di perdersi qualcosa a livello qualitativo, ma è soltanto che il solo ascoltare forse vuole anche dire in qualche modo non esserci dentro per davvero. Dannie Richmond, all’epoca giovanissimo batterista, racconta questo tipo di esperienza suonando con il poco accomodante Charles Mingus:

Stando con lui c’erano delle volte in cui eri terrorizzato, ma c’erano anche le volte quando suonavi con un’esaltazione che non potevi provare altrove, quando ci sentivamo, più che una band, un branco lanciato alla carica sotto le urla e gli insulti di Mingus che si trasformavano in grida di incoraggiamento.
“Dai che ci siamo, dai che ci siamo, dai che ci siamo”.
La sua voce schioccava come la frusta sulla groppa dei cavalli: “Yah, yah, yah”.[5]

La necessità di dover suonare spesso, in qualsiasi luogo e locale e con qualsiasi band con la quale non si era mai suonato prima, in orchestre più o meno numerose, unita alla necessità artistica di distaccarsi dai propri maestri per dare vita al proprio sound diversificando gli stili, hanno creato le condizioni ideali per una continua freschezza e rinascita del genere.

Composizioni originali che diventano degli standard (in quale altro sistema comunicativo può accadere che un grande classico sia preso a modello, da adottare e adattare a proprio piacimento?). Provate a pensare a Tolstoj in una collana di stereotipi letterari.[6]

Quello che le storie di Natura morta con custodia di jazz ci dicono è quanto in realtà il jazz sia stato popolare e presente ovunque in tutto il Novecento, benché oggi sia forse considerato un ascolto per orecchie “colte”, sempre che questo genere di cose abbiano un senso (e mai come nella musica non ce l’hanno). Genere che ha letteralmente sfondato, sbriciolato le barriere razziali, scavalcando anche la censura dei regimi di destra e di sinistra che hanno provato ad ostacolarne la diffusione e che, nonostante abbia in moltissimi musicisti neri le proprie punte di diamante, ha subìto, inglobato ed elaborato qualsiasi tipo di contaminazione, contaminando a sua volta altri generi, in un’evoluzione e cambiamento continui, con buona pace di tutti quei puristi che forse lo preferirebbero come intoccabile e immobile nel suo essere considerato ascolto esclusivo.

Non a caso, Geoff Dyer cita lo storico Eric Hobsbawm che nel suo libro Storia sociale del jazz, scriveva: «il jazz ha avuto il privilegio di reclutare le proprie forze in una riserva di potenziale umano molto più vasta di qualsiasi altra forma d’arte del nostro tempo».[7]


[1] Geoff Dyer, “Prefazione”, in Natura morta con custodia di sax, Einaudi, 2013
[2] Geoff Dyer, “The President”, in Natura morta con custodia di sax, Einaudi, 2013
[3] Geoff Dyer, “Melodious Thunk”, in Natura morta con custodia di sax, Einaudi, 2013
[4] Geoff Dyer, “Melodious Thonk”, in Natura morta con custodia di sax, Einaudi, 2013
[5] Geoff Dyer, “Mingus Fingus”, in Natura morta con custodia di sax, Einaudi, 2013
[6] Geoff Dyer, “Postfazione”, in Natura morta con custodia di sax, Einaudi, 2013
[7] Geoff Dyer, “Postfazione”, in Natura morta con custodia di sax, Einaudi, 2013

L’importanza dei suoni in The James Dean Garage Band

Photo by Gabriel Barletta on Unsplash

Esistono motivi diversi che possono spingere ciascuno di noi ad avvicinarsi ad un libro. Talvolta, però, accade semplicemente di trovarsene tra le mani uno di cui ignoravamo l’esistenza fino a pochi attimi prima, ma per una qualche ragione sentiamo che deve essere nostro. Questo è più o meno quello che è capitato a me con The James Dean Garage Band di Rick Moody.

Rick Moody nasce a New York nei primi anni Sessanta, ma cresce in Connecticut, dove oltre ad una naturale propensione per la scrittura creativa e la letteratura in genere, sviluppa anche una passione smodata per tutto ciò che è musica e ritmo, tanto da pubblicare molte opere, da romanzi a racconti ad articoli, a tema musicale (Tre vite, Cercasi batterista chiamare Alice e Musica celestiale solo per citarne alcuni). Anche in The James Dean Garage Band il titolo stesso, citando uno dei racconti della raccolta, ci fa immediatamente capire quanto la musica sia fondamentale per Moody, quanto i suoni più che i personaggi siano i veri protagonisti di molte delle sue storie. E, se il titolo non bastasse, ci pensa l’autore a sottolinearlo con l’incipit del primo racconto.

«Iniziai a registrare le telefonate di mia moglie a sua insaputa dopo il terzo weekend dell’aprile del 1993».

Apparentemente non sembra niente di particolare, se non il preludio di una storia che, come tante altre, si appresta a descrivere la vita matrimoniale di una coppia in crisi. In realtà Moody ci fa capire subito quanto la vita, o in questo caso una relazione, anziché essere analizzata per quello che è o per quello che ne facciamo, possa essere filtrata e reinterpretata attraverso i rumori e i suoni presenti sul nastro che li registra.

«Alzai un po’ il volume per sentire qualcosa in più del brontolio assonnato della sua voce in cucina. Lo alzai quanto bastava per sentire».

Sotto la lente d’ingrandimento dell’autore non ci sono tanto le parole che la donna si lascia sfuggire durante le conversazioni telefoniche, quanto l’intonazione dei dialoghi e tutti quegli stati d’animo che traspaiono dalla sua voce: la malinconia, la stanchezza e la frustrazione si propagano dai nastri con una limpidezza tale da superare in importanza anche la parola.
Alla base della raccolta, un melting pot di stili, strutture e tematiche, c’è infatti l’idea dell’autore per cui tutto ciò che ha un ritmo, proprio come la musica, abbia bisogno di ascolto, e che quindi la letteratura e la musica siano complementari.

Nel racconto Frasario, Moody scrive:

«Lucy non riusciva a capire se amare sua madre o amare quel tramonto, se l’amore avesse la minima rilevanza rispetto alla situazione in cui si trovava adesso, se l’amore non fosse semplicemente un determinato tipo di suono e niente più».

Se i sentimenti sono identificabili con i suoni, lo è anche la vita stessa e la realtà tutta: il ritmo diventa perciò una caratteristica imprescindibile a cui prestare attenzione, sia quello da dare alle proprie parole, che quello riconoscibile nei suoni emessi da tutto ciò che ci circonda e di cui noi, volenti o nolenti, facciamo parte. Il suono è quindi una sorta di mappa da decifrare per capire cosa c’è nel profondo dell’animo umano, l’unica parte non artefatta.

L’esempio più rappresentativo di tutta raccolta è proprio il racconto The James Dean Garage Band, in cui l’autore immagina che l’attore, vittima nella realtà di un incidente poco lontano da Lost Hills a bordo di un’auto da corsa che non avrebbe dovuto guidare, sopravviva e scappi, deciso a lasciarsi alle spalle la propria fama e poter così ricominciare.

«Il motore già in fiamme. Un’immobilità. Di nuovo: il rumore della sgommata e del telaio che cambia forma, scolpito dal caso, l’esplosione, il silenzio. Dean me lo raccontò dopo. Il silenzio. Potevi passare da una vita all’altra senza fare il minimo rumore».

La scelta delle parole non è casuale, la morte evitata per un soffio è paragonata al silenzio. E cosa c’è di più lontano dal silenzio della musica che una band di giovani e frustrati figli del disagio della provincia americana, una gioventù bruciata californiana che si arrabatta tra velleità artistiche mal espresse in rifugi antiatomici tipici del periodo della Guerra Fredda, è in grado di esprimere?

«Noi volevamo fare pezzi che suonassero come il vento che soffia in una stalla, o come un bollitore lasciato sul fuoco, o come il piccolo urlo di dolore che ti sfugge di bocca quando ti senti veramente solo. […] Non suonavamo altro che una semplice frase sulla nostra solitudine, la solitudine e l’abbronzatura da test nucleari in superficie, la solitudine e il lavoro alla pompa di benzina, la solitudine e la sciatteria e le umiliazioni della scuola elementare, la solitudine che solo ora cominciavamo ad elaborare in forma di canzone».

La musica che una Telecaster appoggiata al muro è in grado di produrre è quindi l’occasione di rinascita e di espressione: per un attore vivo ma creduto morto dal suo pubblico, per quei giovani sconosciuti cresciuti in una zona in cui la vita è soltanto un’eco della morte.

«Suonavamo finché le prove non traboccavano fuori, sugli ettari di vuoto che circondavano il rifugio antiatomico, e ci mettevamo a correre – ai quattro venti – nella notte, alla ricerca degli angeli che non venivano mai a salvarci. Alla ricerca dell’entità che ci sollevasse e trasportasse via dal proletariato e via dal buco di paese in cui eravamo cresciuti. Sì, la band ci aveva cambiati. La fama di Dean ci aveva contaminato, e il nostro anonimato aveva contaminato lui. Non eravamo intimi, noi quattro; non facevamo discussioni sentite, non eravamo tipi da rivendicazioni maschili, però in quelle notti ci riunivamo là fuori tra la salvia e accendevamo fuochi di mitologia del deserto e aspettavamo segni».

Per la band suonare equivale a riappropriarsi delle proprie esistenze dimenticate tra la polvere del deserto californiano e la vendita al dettaglio di pezzi di metallo caduti dal cielo, quel fare musica è una dimostrazione a se stessi prima che al mondo esterno (quattro tizi ubriachi): significa trascendere la realtà per il riscatto di tutte quelle anime perdute di Lost Hills, relegate ad una sopravvivenza stentata, perché, anche se non è possibile dimenticarsi da dove si viene, la musica è comunque una giusta direzione da darsi.

«Se la vita che fai non è quella che sognavi, scappa» dice James Dean, nella frase di chiusura. “Ma se scappi, ricordati che qui devi tornare”, sembra dica Moody, ed è allora che devi decidere in che modo farti sentire.


Rick Moody, The James Dean Garage Band, minimum fax, 2005

Di un racconto scomparso e un poeta sconosciuto

Lo skyline di Boston – foto dell’autrice

La musica è insieme alla lettura un’altra mia grande passione e ad essa devo molto. Ho iniziato ad apprezzare la poesia proprio leggendo i testi delle canzoni e senza Bob Dylan, Patty Smith e tanti altri non mi sarei mai avvicinata al linguaggio della poesia che per molti anni ho trovato incomprensibile. Nella musica come nella lettura vado sempre alla ricerca di autori nuovi e qualche anno fa mi capitò di ascoltare Lungo i Bordi dei Massimo Volume, gruppo rock della scena indipendente italiana. Rimasi subito impressionata dai testi sempre inclini alla poesia, in particolare mi colpì la prima canzone di Lungo i Bordi, Il Primo Dio, questa una parte del testo:

Emanuel Carnevali, morto di fame nelle cucine d’America

sfinito dalla stanchezza nelle sale da pranzo d’America

scrivevi

E c’è forza nelle tue parole

Sopra le portate lasciate a metà, i tovaglioli usati

Sopra le cicche macchiate di rossetto

Sopra i posacenere colmi

Sapevi di trovare l’uragano

Emidio Clementi, cantante dei Massimo Volume, scrisse e dedicò questa canzone al poeta Emanuel Carnevali, nato a Firenze nel 1897 e immigrato a 16 anni negli Stati Uniti perché sognava di diventare un poeta. Non avevo assolutamente idea di chi fosse Emanuel Carnevali e la mia prima scoperta fu che frequentò il circolo letterario di Ezra Pound, Sherwood Anderson, William Carlos Williams, Edgar Lee Masters e Robert McAlmon che ne apprezzarono le sue doti poetiche. Williams lo descrive come «il poeta nero, l’uomo vuoto, la New York che non esiste», e nella sua autobiografia dice:

«McAlmon pubblicò il libro di Em[anuel], che nessuno ricorda più, uno dei migliori esempi di – di che cosa? Di un libro, un libro che è tutto di un uomo, un uomo giovane, superbamente vivo. Condannato. Quando penso a ciò che si pubblica e si legge e si loda e, regolarmente, si premia, mentre un libro così resta sepolto sotto un mucchio di cadaveri, giuro di non voler più avere successo, sono disgustato, tornano le vecchie tentazioni. Che cos’altro può fare un libro per un uomo?» [1]/p>
Sherwood Anderson compose un racconto proprio ispirato a Carnevali dal titolo Italian Poet in America pubblicato nel 1941; peccato sia introvabile e che sul web ci sono pochissime informazioni a riguardo. Per recuperare il ricordo di Anderson su Carnevali occorre leggere le sue memorie, ed ecco cosa racconta:

«Faceva ogni cosa in gran fretta. Era come un vecchio, tutto cinismo e, un momento dopo, come un fanciullo. Se ne stava seduto tranquillamente, un giovanotto ben fatto, dalla pelle olivastra, dai folti capelli neri, il tipo d’uomo, si sarebbe detto, che piace alle donne, benché egli mi avesse detto che non era vero. Diceva che quello era il grande problema, il dolore della sua vita. “Ho bisogno di una donna,” diceva “terribilmente, ma le spavento”». [2]

Emidio Clementi scoprì Carnevali grazie a un cliente di un ristorante dove lavorava come cameriere che una sera gli porse un libro dicendogli: «Qui si racconta di uno come te». Era Il Primo Dio di Emanuel Carnevali, il libro autobiografico di Carnevali pubblicato in Italia dalla Adelphi insieme alle sue poesie. Ho iniziato a leggere le poesie di Carnevali e ne sono stata rapita. Questa è per esempio una parte della poesia L’Ultimo Giorno:

I miei occhi/ sono grida acute

come gli occhi di un cane frustato, affamato

C’è un giornale

accartocciato

ucciso dal fango

Le mie mani spaventate

tremano

dissennate

e la tua mano bianca

la sento

dentro di me che strappa quel poco di anima

che ancora mi resta.

Carnevali collaborò con la Little Review durante il suo periodo americano (nel numero 11 un suo racconto è tra il XIII capitolo dell’Ulisse e le poesie di Sherwood Anderson) e fu vicedirettore di Poetry. La caratteristica principale dello stile di Carnevali è l’urgenza di raccontare la sua vita con l’entusiasmo tipico di chi arriva dalla periferia. E poi scriveva in inglese, la lingua dell’esilio imparata servendo ai tavoli dei ristoranti, per le strade di New York («Quante volte nelle strade di Manhattan/ho scagliato il mio odio») e le sue poesie sono piene delle ribellioni, sogni e immaginazioni tipiche degli immigrati.

Nel periodo passato a Chicago andava spesso a trovare Sherwood Anderson e per un certo periodo ha anche vissuto proprio a casa sua. Ed è proprio Sherwood Anderson che, in questa assenza di informazioni su questo poeta, ha raccontato quando e come Carnevali perse il contatto con la realtà: era una notte di neve a Chicago, Carnevali lo va a trovare – dopo mesi che non si incontravano – e gli chiede se vuole uscire a camminare con lui. È molto malato, magrissimo, poco coperto, senza cappotto. Dopo mezz’ora corre fuori da casa, Anderson prova a rincorrerlo per convincerlo a prendere almeno il cappotto, ma era già andato via e per ore vaga nella bufera. Lo trovano più tardi in ginocchio nella neve davanti alla casa della prostituta che lo manteneva e gridava, gridava a Dio, di salvare la sua anima e l’anima della sua donna che era al lavoro.

Questa è invece la versione fornita da Emanuel Carnevali nella sua autobiografia:

«Corsi da Sherwood Anderson e lo pregai che mi desse qualcosa da mangiare, pensando che l’azione meccanica del masticare mi avrebbe aiutato a riportarmi alla realtà. Divorai tutto quello che mi diede, ma non valse a nulla. Con il pretesto che sua moglie sarebbe rientrata da lì a poco e che forse si sarebbe spaventata nel vedermi in quello stato, Sherwood Anderson, mi mise garbatamente alla porta. Barcollai, fuori, nella neve, ubriaco per quei terribili sintomi di follia, vagando per strade che mi erano da sempre note e da sempre sconosciute. Avevo per compagne la tremenda Paura delle Paure, la paura di non esser più in grado di capire il significato delle cose e la Miseria di tutte le Miserie: quella di capire che era scomparsa in me la facoltà di distinguere una cosa dall’altra e perfino la volontà di distinguerle».

In quel periodo la mano destra gli tremava continuamente e non riusciva più a lavorare, gli mancavano le forze, non riusciva a concentrarsi a lungo. La diagnosi purtroppo fu terribile: encefalite letargica. L’ultimo suo lavoro è stato quello di trasportare sacchi di tappi di sughero da una parte all’altra di Chicago. Dopo, si abbandonerà completamente alla malattia. Emanuel Carnevali «accarezza il sogno, ma non riesce a stringere la presa»[3] : nel 1922 è costretto a rientrare in Italia, dove il padre lo fa ricoverare nell’ospedale civile dove muore nel 1942.

Fatevi regalare Il Primo Dio[4], è bellissimo. Nel 2013 Emidio Clementi ha realizzato Notturno Americano insieme a Corrado Nuccini e a Emanuele Reverberi, entrambi componenti dei Giardini di Mirò, dove propone un reading di testi Emanuel Carnevali. Li ho visti dal vivo qualche estate fa e ancora ho i brividi ripensando a quella serata. E torno a quel cd ogni volta che sono in difficoltà perché trovo conforto nella poesia con la quale viene raccontata la vita di miseria di Emanuel Carnevali negli Stati Uniti. Grazie Emidio Clementi, senza Lungo i Bordi avrei continuato a ignorare l’esistenza di questo poeta. E grazie a chi leggendo questo post potrà darmi informazioni sul racconto scomparso di Sherwood Anderson.

p.s.: vi lascio con un indovinello. Nella canzone Bye Bye Bombay degli Afterhours, Manuel Agnelli dice a un certo punto: «Sai Mimì che la paura è una cicatrice». Chi è Mimì?


[1] William Carlos Williams, “The Autobiography of William Carlos Williams”, New Directions, 1967
[2] Sherwood Anderson, “Sherwood Anderson’s Memoirs: A Critical Edition”, Ed. Ray Lewis White, 1969
[3] Emidio Clementi, L’Ultimo Dio, Fazi Editori, 2004
[4] Emanuel Carnevali, Il Primo Dio, Adelphi, 1978

Anche questo è un racconto

Tra mezz’ora e due ore in una singola seduta: secondo Edgar Allan Poe questo è il segreto che la forma del racconto breve ha per eccitare ed elevare l’anima del lettore. Poe afferma infatti che il breve tempo impiegato da chi legge racconti garantisce all’autore «… di realizzare la pienezza della sua intenzione». E se invece di mezz’ora l’autore impiegasse solo 5 minuti, per esempio il tempo di una canzone? Potrei ancora parlare di racconto? Secondo me sì. E scomodo Bob Dylan per dimostrarvelo.

Here comes the story of the Hurricane
The man the authorities came to blame
For somethin’ he never done
Put in a prison cell, but one time he could been
The champion of the world

Avevo 13 anni e avevo appena iniziato a studiare inglese. In quel periodo giocavo a riconoscere quante più parole possibili ascoltando canzoni inglesi alla radio. Un giorno alla radio ho ascoltato Hurricane, una canzone di Bob Dylan che racconta la storia di Rubin Carter, un pugile di colore di nome d’arte Hurricane, incolpato ingiustamente per il triplice omicidio commesso a Lafayett Bar (New Jersey) il 17 giugno 1966.

Pistol shots ring out in the barroom night
Enter Patty Valentine from the upper hall
She sees a bartender in a pool of blood
Cries out my God, they killed them all

Hurricane non era a Lafayett Bar, ma venne accusato ingiustamente del triplice omicidio per pregiudizio razziale.

To the white folks who watched he was a revolutionary bum
And to the black folks he was just a crazy nigger
No one doubted that he pulled the trigger

Il processo fu una farsa, tutto venne deciso prima.

All of Rubin’s cards were marked in advance
The trial was a pig-circus, he never had a chance
The judge made Rubin’s witnesses drunkards from the slums
[…]
How can the life of such a man
Be in the palm of some fool’s hand
To see him obviously framed
Couldn’t help but make me feel ashamed to live in a land
Where justice is a game

Hurricane fu scarcerato solo nel 1985, quando un giudice della corte federale sentenziò che non aveva ricevuto un processo equo. Con questa canzone ho iniziato a riflettere sul razzismo e su come questa storia fosse una degna rappresentazione del pregiudizio razziale che ancora anima molte aree degli Stati Uniti. E tutt’ora quando leggo notizie di aggressioni xenofobe ritorno sempre con la mente a HurricaneBob Dylan venne a conoscenza di questa storia  leggendo The Sexteenth Round, autobiografia che lo stesso Hurricane gli inviò dal carcere. La canzone fu pubblicata nell’album Desire del 1976  ed è sicuramente una delle canzoni più amate e conosciute di questo cantante.

Tra i meriti di Bob Dylan c’è sicuramente quello di aver ridato dignità alla poesia rendendola popolare attraverso le sue canzoni. Riuscì a dare una voce folk alla poetica della Beat Generation che fino ad allora si era espressa solo attraverso altre forme artistiche. Lo stesso Allen Ginsberg disse: «Vedere se la grande arte può essere realizzata per mezzo di un juke box costitutiva una sfida, e Dylan ha dimostrato che è possibile». Ma Bob Dylan è sempre stato cosciente della limitatezza che una canzone ha come forma espressiva rispetto alla poesia:

È difficile riuscire a essere liberi con una canzone – riuscire a farvi entrare tutto. Le canzoni hanno troppi limiti… Si possono modificare le parole e in parte anche la metrica, ma una struttura deve pur sempre esserci… Ecco perché scrivo un sacco di poesie, se questa è la parola giusta per indicare ciò che scrivo; la poesia può creare da sé la propria forma.

In Hurricane però riesce a dare forma a una storia d’ingiustizia e nei 5 minuti della canzone ci porta lì: durante gli spari nel locale, quando vanno a prendere Hurricane per portarlo in carcere, durante il processo, quando gli leggono la sentenza di condanna. Molte persone, compresa me, non avrebbero mai sentito parlare di Hurricane se Bob Dylan non avesse scritto questa canzone.

Tante volte pensiamo a una canzone come un motivetto da canticchiare sovrappensiero, ci fossilizziamo nel considerare ogni forma d’arte chiusa in compartimenti stagni separati indissolubilmente l’uno dall’altro. Bob Dylan è riuscito a «realizzare la pienezza della sua intenzione» in Hurricane (come scriveva Poe a proposito dei racconti brevi) perché in 5 minuti ci ha mostrato come i pregiudizi che permeano la nostra società possano portarci ad opinioni sbagliate. E Hurricane è la dimostrazione che anche una canzone può essere un racconto (per me). Scommettete che ve lo dimostro ancora?

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