Tag: Milano

Milano calibro 9 di Scerbanenco

Foto tratta da Unsplash

«Fai agli altri quello che loro vorrebbero fare a te, ma fallo prima!»

L’ Americano[1]

Sono arrivato a Giorgio Scerbanenco partendo da lontano: Quentin Tarantino.
Fin dagli inizi della sua carriera, il grande regista americano non ha mai perso occasione di rimarcare la sua grandissima passione verso il cinema italiano, specialmente per quei film di genere considerati da sempre, e più che altro da una certa critica intellettualoide e snob, di serie B. Tarantino invece ne è stato ispirato e influenzato, omaggiandoli anche attraverso diverse citazioni. 
Ma se di Tarantino avevo visto praticamente tutto, nulla sapevo di questo cinema che tanto lo aveva affascinato.

È stato un amico a convincermi a guardare uno di questi famigerati B-movie, dicendomi che non si trattava solo di paccottiglia tutto sparatorie, violenza e inseguimenti con l’Alfetta, ma di storie avvincenti, profonde e psicologiche, capaci di tenerti incollato allo schermo.
Così ho iniziato col botto, e cioè proprio con quello che è considerato uno dei capolavori dei film di genere made in Italy.

Il film è il primo episodio della trilogia del milieu, insieme agli altri due titoli: La mala ordina e Il boss. Milano calibro 9 di Fernando Di Leo è una classica bomba: Attori straordinari, tensione, dialoghi indimenticabili e una colonna sonora che cambia ritmo e potenza continuamente, rendendo memorabili diverse sequenze e proiettandoti immediatamente dentro questa eccezionale storia noir in cui il crimine si muove veloce nel tessuto sociale di una Milano post boom economico torbida e nostalgica. Caratteristica, questa delle bellissime colonne sonore, che ha contraddistinto moltissima produzione noir e non solo, del nostro cinema. 

Ma da dove arriva questo film di Di Leo? Quindi, da dove arrivano tutto quel mondo, quel modo, quello stile e quelle tematiche? Ecco allora dove mi ha portato il mio percorso a ritroso: Milano calibro 9 è prima di tutto il titolo di una delle raccolte di racconti più famose di Giorgio Scerbanenco e una delle più importanti in assoluto della letteratura noir italiana.

Di Leo, che è stato anche sceneggiatore del film, non si era lasciato ispirare da un solo racconto in particolare, ma aveva raccolto diversi elementi da molte delle storie che compongono la raccolta. Ma la vicenda che fa da spina dorsale al film e che scatenerà poi tutti gli avvenimenti paralleli, arriva soprattutto dal racconto Stazione centrale ammazza subito, storia drammatica di un uomo qualunque che fa da intermediario nel traffico di valuta destinata a conti svizzeri. Il suo compito è quello di scambiarsi pacchi contenenti i soldi con altri corrieri dei quali non conosce assolutamente nulla. Un pesce piccolo qualsiasi preso dalla strada e che, attratto da una bella somma, aspetta il giorno di una ultima sostanziosa consegna, per poter uscire definitivamente dal giro.

Il protagonista del film, invece, è ispirato ai racconti Vietato essere felici e La vendetta è il miglior perdonoNel primo, un uomo con alle spalle anni di crimini e galera, una volta fuori cerca di condurre una vita più o meno normale, fino a quando un vecchio socio non si fa rivedere offrendogli la possibilità di tirare su un sacco di soldi con un colpo facile facile, apparentemente senza rischi.

«Tu non hai capito bene, si tratta di venticinque milioni per te e di quindici per me, e non c’è nessun rischio.

Ho capito bene, ma non mi interessa.

Non credeva molto ai colpi perfetti e senza rischio. Franceschino non era uno stupido, ma la gente non si lascia fregare una quantità di milioni, così, senza dire neppure oh. A pizzighettone lo aveva capito, perché c’erano tutti furbissimi come Franceschino, tutti inventori di colpi straordinari che avrebbero fruttato decine di milioni e che come risultato passavano gli anni lì, a vuotare ogni mattina il bugliolo, a mangiare le patate marce, i fagioli col radicchio e la pasta con dentro gli scarafaggi»[2]

Inizialmente titubante, alla fine accetta. Il suo problema è però rappresentato da un funzionario di polizia particolarmente scrupoloso, non tanto per senso del dovere, ma perché convinto che il lupo perda il pelo ma non il vizio. Per lui un delinquente il crimine ce l’ha nel DNA. 

Considera la redenzione impossibile per natura, e quindi solo una copertura per continuare a delinquere. Sente puzza di marcio ogni volta che un ex detenuto sembra rimettersi sulla retta via, decidendo così di far pedinare coloro che fuori di galera da un po’, sembrano condurre vite fin troppo oneste e tranquille. Nel secondo racconto, l’unico motivo che spinge il protagonista a tornare alle vecchie maniere, nonostante sia appena uscito di prigione dopo diciotto anni, è la vendetta.

Oltre a gangster di professione, il più delle volte circondati da un’umanità sbandata e ingenua, le protagoniste dei racconti di Scerbanenco sono molto spesso donne, di cui molte prostitute maltrattate e sfruttate, costrette a subire violenze di ogni tipo. Oppure ex criminali che restano incastrati in quel mondo al quale si vorrebbe voltare le spalle, ma che allo stesso tempo non riescono a smettere di guardare con la coda dell’occhio. È il loro mondo, quello in cui hanno sempre vissuto: misero, corrotto, senza vie di uscita anche dopo una redenzione costruita con fatica e onestà, ma il loro. La tentazione di entrare, o tornare nel giro del crimine è troppo forte anche perchè, benchè si tratti del passato, è qualcosa che continua a far parte di te, di quello che inevitabilmente sei stato.

Mi viene in mente la bellissima scena, tratta dalla serie tv crime The Wire, in cui il carcerato D’Angelo Barksdale partecipa con altri detenuti ad un gruppo di lettura sul Grande Gatsby ed espone a tutti la sua riflessione riguardo la frase di Francis Scott Fitzgerald secondo cui non esiste un secondo atto nelle vite americane:

«Vuol dire che il passato non ci abbandona mai. Da dove veniamo, cosa abbiamo fatto e come lo abbiamo fatto. Ed è importante. Pensate alla fine del libro, ok? Tutta quella storia delle barche controcorrente. Cioè, tu puoi pure cambiare, no? Puoi pure dire di essere diverso e rifarti una vita. Ma solo ciò che eri prima è ciò che sei veramente. E solo ciò che è successo prima è successo veramente. Uno non ci mette niente a dire che è cambiato, ma l’unica cosa che ti cambia davvero è quello che fai e quello che hai vissuto».

A Scerbanenco non interessa catturare il lettore con enigmi da risolvere, o indagini particolarmente cervellotiche, ma attraverso la sua prosa incalzante, fatta di poche descrizioni e poche battute di dialogo, ti fa capire immediatamente da dove arrivano e in quale ambiente si muoveranno i suoi protagonisti. Molto spesso si capisce subito chi sarà la vittima e chi il carnefice, anche se non ci sono mai dei veri giusti, dei veri buoni, perché tutti giocano sporco. Commissari, sbirri e criminali sono tutte anime contaminate, e la bravura dell’autore sta proprio nel farti entrare nell’ordine morale di quel microcosmo di personaggi, dove il lettore smette di giudicare, sospende l’indignazione e si lascia trascinare nella storia, applicando lo stesso metro di misura dei protagonisti su questioni come vendetta, risentimento, riscatto, violenza e mettendo in discussione il concetto stesso di giustizia.

« […] appena lo trovate e siete sicuri che è lui, sparate, perché è molto svelto anche lui, e non scherza neppure lui, sparate e distruggetelo in qualunque luogo vi troviate, anche in mezzo a una piazza piena di folla, non me ne importa se la polizia italiana vi prenderà, in poco tempo vi tiro fuori io, state tranquilli, e ricordatevi che questa è una Steik, per ammazzare, non per ferire».[3]

La raccolta esce nel 1969, e le sue atmosfere e tematiche sono indissolubilmente legate a quel determinato momento storico. Ed è proprio Milano a rappresentare il luogo in cui hanno inizio gli anni di piombo, uno dei periodi più bui della storia italiana, cominciato con la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969.

Ma è anche la Milano della cronaca nera locale, molto spesso non troppo considerata, e di quella microcriminalità che invece secondo Scerbanenco, che fu anche giornalista, rappresenta la realtà che sta sullo sfondo di una città violenta e comunque in crisi, all’indomani di quel miracolo economico italiano che aveva indubbiamente aumentato ed esteso il benessere della popolazione, gravando però molto su una classe lavoratrice ancora poco tutelata. È infatti sul finire degli anni sessanta che nelle grandi città cominciano le mobilitazioni di massa di operai e studenti.

Scerbanenco trova lì le sue storie. Significative le parole di George Pelecanos, che Stephen King ritiene il miglior scrittore noir d’America:

«Se ben scritto, un romanzo criminale può diventare l’arena dove mettere in scena le domande sulle nostre vite, sul dove stiamo andando come nazione. Quando scrivo queste storie sono ben consapevole delle mie responsabilità: devo attenermi al realismo, tirare dritto. I lettori mi chiedono di portarli in territori nei quali non possono o non vogliono addentrarsi».[4]

Una vita davvero incredibile quella del nostro autore. Nato a Kiev con il nome di Volodymyr-Džordžo Ščerbanenko nel 1911 durante la rivoluzione russa, da padre russo e professore universitario che di quella rivoluzione fu vittima e madre romana, dopo la morte di lui si trasferì in Italia dove vissero in povertà, tanto che non finì nemmeno le elementari. Iniziò giovanissimo a fare qualsiasi tipo di lavoro, tra i quali l’operaio e, nonostante la sua formazione incompleta, il giornalista, restando così a stretto contatto con tutto quel mondo che ne influenzerà l’opera.

Fu uno scrittore instancabile e straordinariamente prolifico che oltre ai noir pubblicò romanzi rosa a puntate per svariate riviste, e tenne persino sotto pseudonimo una celebre posta del cuore su Annabella. Oltre alla raccolta in questione, i suoi romanzi più famosi sono quelli che costituiscono la quadrilogia di Duca Lamberti, personaggio considerato un classico del genere, e grazie al quale raggiunse anche una certa fama. A lui è inoltre dedicato il Premio Scerbanenco, massimo riconoscimento italiano per la letteratura noir e poliziesca.

Personalmente, quando penso a Milano Calibro 9 non posso separare il film dal libro perché, leggendo l’uno e guardando l’altro, ho sempre l’impressione di trovarmi davanti a due autori che sono riusciti quasi a completarsi, sovrapporsi, ognuno con i propri mezzi e linguaggi.

Andrea G. Pinketts, vincitore in passato del Premio Scerbanenco, usa forse l’espressione migliore sostenendo che i due si siano in un certo senso meritati a vicenda, anche senza aver mai collaborato. Comune è anche l’approccio al realismo della vita, dell’ambiente, e qui bisogna fare i complimenti a Di Leo per il suo casting eccezionale, e aver scelto le facce che hanno dato vita a quei personaggi. Su tutti svettano sia Ugo Piazza, che potrebbe tranquillamente essere uscito dalla penna dello scrittore italo ucraino, interpretato da un sorprendente Gastone Moschin negli insoliti panni dell’ex criminale chiuso, duro e riflessivo che Rocco Musco, ex amico e socio di Piazza. A dar vita e corpo a questo amico-nemico è Mario Adorf che, all’opposto di Moschin, riempie ogni volta la scena con memorabili discorsi da gangster, in un’alternanza tra l’esagerazione espressiva e mimica di colui che sembra quasi irridere invece che minacciare, e la serietà di chi un secondo dopo, con una sola mossa del sopracciglio, fa ben intendere che non c’è nessuno scherzo nelle sue parole.

Anche Di Leo, come Scerbanenco, è stato prima di tutto un mestierante, uno che per scelta ha imparato prima la parte tecnica del cinema, il “come si fa un film”, lavorando tantissimo su diversi generi e dedicandosi solo successivamente alla sceneggiatura, firmando per altro capolavori di genere non solo noir. Sue infatti le sceneggiature di Per un pugno di dollari e Per qualche dollaro in più, che non credo abbiano bisogno di presentazioni.

Oggi considerati di culto, furono invece relegati dalla poco lungimirante critica dell’epoca, alla nicchia delle opere di genere, senza attribuire loro troppa importanza e ritenendoli non così meritevoli di considerazione, soprattutto da un punto di vista artistico.

Sorte toccata soprattutto a Di Leo che, fino alla rivalutazione dovuta anche all’ammirazione di Tarantino, era stato un po’ accantonato nel grande calderone dei “poliziotteschi” termine dispregiativo inventato dalla critica per definire il gangster movie all’italiana, cioè quei prodotti di puro intrattenimento, infarciti di commissari-eroi che risolvono tutto da soli nel bel mezzo di sparatorie e inseguimenti mozzafiato, ma che poco o nulla hanno a che fare con l’ambizione e lo stile narrativo di Milano calibro 9.


[1] Milano calibro 9, regia di Fernando Di Leo

[2] Giorgio Scerbanenco, “Vietato essere felici”, in Milano calibro 9, Garzanti, 2000 (pag.177)

[3] Giorgio Scerbanenco, “Milano calibro 9”, in Milano calibro 9, Garzanti, 2000 (pag.8)

[4] Giancarlo De Cataldo, “George Pelecanos: La letteratura è una guerra che non è mai finita”, La Repubblica, 30/09/2014