Di Francesca Ceci

Partimmo per Marsiglia in quattro, ognuno con qualche libro in valigia, senza conoscere i titoli l’uno degli altri. Sapevamo solo che non erano libri di Jean-Claude Izzo, quelli li avevamo già letti prima di partire, era quasi solo per quello che stavamo viaggiando. Passavamo i giorni camminando nelle strade ombreggiate del Panier, facendo poca spesa al Vieux Port o limitandoci a guardare le barche dei pescatori che entravano e uscivano lentamente, come a occhi chiusi, come se conoscessero a memoria ogni manovra. Non ce lo dicevamo ma ci pesava l’assenza dell’uomo che ci aveva condotto là e che non si era fatto trovare, sapeva di tradimento. Marsiglia era come le sue parole ce l’avevano fatta immaginare: densa, diretta, pessimista, a seconda della luce e dell’ora ci pareva senza speranza o raramente contenta.
Senza dirlo a nessuno, mi ero portata dietro anche due piccole raccolte di racconti di Izzo, quei libri di cui si procrastina la lettura sapendo che saranno proprio gli ultimi. Uscii da sola e passeggiai lungo la Corniche fino ad una curva con due panchine vuote, poco prima di arrivare al Vallon des Auffes. Di fronte si riuscivano a intravedere, nell’aria afosa di fine giugno, pezzi di isole dell’arcipelago delle Frioul; poco più in basso, su un pezzo di spiaggia libera, alcuni ragazzi facevano il bagno vestiti, non so se per vergogna o per non perdere tempo, alcune ragazze magre ridevano all’angolo opposto. Mi venne in mente la frase di Izzo: «Marsiglia non è una città per turisti. Non c’è niente da vedere. La sua bellezza non si fotografa. Si condivide».
Mi sedetti e iniziai a leggere Vivere stanca dalla fine, dall’ultimo racconto fuori tempo: Un inverno a Marsiglia[1]. Mi ritrovai d’improvviso di fronte Fabio Montale, il personaggio più rappresentativo di Izzo, che credevo non avrei più incontrato dopo la fine delle trilogia marsigliese (Casino totale, Chourmo, Solea). Lo riconobbi così come lo avevo lasciato, deluso ma ancora forte, disincantato, stanco di pensare. Era il giorno dopo il Natale ed era in pieno rimpianto. Aveva fatto tardi ad andare a trovare Joëlle – come si era ripromesso -, in prigione da cinque anni per aver ucciso il suo ragazzo per paura.
Joëlle dopo si era persa nel silenzio. Per sempre. Pazza, dicevano che era diventata. Perché comunque c’è bisogno di una parola per dire l’incomprensibile.
Oggi era già oggi e lei non lo aveva aspettato e lui si ricordò che una volta un sociologo gli aveva spiegato come cambiano gli omicidi e i suicidi durante le stagioni, doveva averne parlato a lungo per poi concludere che la teoria non spiega niente e che niente dipende da una spiegazione. Montale riappariva come era sempre stato, immerso nelle storie più grigie e con la testa da un’altra parte, migliore. Izzo ce lo regala un’ultima volta in pochissime pagine in cui ne lascia impresso il ritratto, le poche cose che ama, il vino bianco di Provenza, l’incomprensione del mondo. Finii di leggere ed ero sempre sulla stessa panchina, a guardare probabilmente le stesse immagini che avevano visto Izzo e Montale ogni giorno. E pensai che quel breve racconto poteva essere la scoperta che corona una fine o l’inaugurazione di un nuovo inizio.
Lasciai andare lo sguardo sul mare. Verso l’orizzonte. Non avevo ancora trovato di meglio per dimenticare le schifezze del mondo.
Francesca Ceci ha pubblicato Altre parole sul secondo numero di Tre racconti. Per leggerlo, puoi scaricare il Pdf disponibile qui. Per sfogliare la rivista, invece, clicca qui.
[1] Jean-Claude Izzo, Un inverno a Marsiglia è contenuto in Vivere stanca (trad. Franca Doriguzzi), Edizioni E\O, pp. 128, euro 8,50; lo stesso racconto si trova anche in Aglio, menta e basilico (Ed. E\O) con il titolo La cena di Natale di Fabio Montale. La prima versione di Souris, Montale, c’est Noël è stata pubblicata sulla rivista Regards nel 1996.