Tag: giornalismo

Racconti da Sarajevo

Covavo l’idea di leggere e scrivere qualcosa che riguardasse i Balcani da un po’ di tempo, spinto da una specie di attrazione rimasta negli anni sottotraccia ma che, a fasi alterne, mi ha portato via via a interessarmi in maniera crescente dei Paesi dell’ex-Jugoslavia.
Questa, per contingenze storiche, è l’occasione perfetta per decidermi finalmente a trattare l’argomento per due motivi ben precisi: il primo, riguarda una ricorrenza che ha avuto un’importanza enorme nei Balcani [...]

Read more

Le voci americane di Ring Lardner

«Il mio scrittore preferito è mio fratello D.B., e subito dopo viene Ring Lardner. Mio fratello per il mio compleanno mi ha regalato un libro di Ring Ladner, subito prima che io andassi a Pencey. C’erano queste storie davvero pazze e divertenti, e c’era quella storia di quel poliziotto addetto al traffico che si innamora di una ragazza carina che corre sempre troppo in macchina. Solo che il poliziotto è sposato, così non può né sposarla né niente. Alla fine la ragazza muore, proprio perché corre troppo. Quella storia mi ha praticamente ucciso».

Il giovane Holden, J.D. Salinger

Ring Lardner non andava a genio solo al pestifero Holden Caufield. Le «storie davvero pazze e divertenti» che scriveva per le riviste con le quali collaborava piacevano anche ad una vastissima schiera di lettori che con il personaggio di Salinger non avevano proprio nulla da spartire. Uomini e donne della buona borghesia americana che ritrovavano nei suoi racconti quel grappolo indefinito di emozioni e sensazioni che provavano ogni giorno, una volta essersi chiusi alle spalle le porte delle rispettive case o in tutti quegli spazi sociali in cui, ieri come oggi, ci si prendeva le misure a vicenda, si facevano paragoni e si tiravano le somme delle proprie esperienze di vita. Un club per signore, la sala d’attesa di un parrucchiere, la tribuna di uno stadio durante una partita di baseball, una località di vacanza non proprio di lusso…

Il punto che interessa a noi, però, è che i racconti di Lardner non solo illustravano ciò che la letteratura di quegli anni stava lentamente portando alla luce, ma lo facevano con un taglio satirico che si accompagnava alla freschezza di un linguaggio nuovo. Una lingua per la prima volta americana. Autenticamente americana e contemporanea.

Ma chi era Ring Lardner? Chi era questo illustre sconosciuto intimo amico di Fitzgerald[1], tanto apprezzato sia dal virile Ernest Hemingway[2] che dalla sofisticata e britannicissima Virginia Woolf? Elio Vittorini ce ne offre un ritratto in miniatura nella piccola biografia scritta per l’antologia Americana, nella cui sezione “Il rivolgimento delle forme” troviamo Il dente, tradotto da Alberto Moravia, e Un magnate del teatro, tradotto da lui stesso:

«Nacque nel 1885 a Niles, Michigan, studiò a Chicago, si diede al giornalismo sportivo, poi, verso il 1917, cominciò a pubblicare racconti. Non scrisse che racconti. E un’autobiografia. Morì nel 1933, quando gli si era riconosciuta la funzione di scrittore satirico ufficiale».

Lardner il giornalista. Lardner lo scrittore satirico, dunque.

Ora, qui lo confesso: ho un debole per i giornalisti scrittori. Di Lardner, in particolare, mi piace il fatto che nonostante l’indubbio talento artistico non si prese mai troppo sul serio come scrittore di storie considerando i suoi racconti alla stessa stregua delle cronache con le quali si guadagnava il pane. Le considerava delle cose destinate a passare.

Prove di questa sua tendenza a trascurare il proprio archivio sono le vicende legate al modo in cui nacquero i suoi libri. Quando si trattò di raccogliere i racconti per farli uscire in volume, a cura di quel famoso Maxwell Perkins che grazie al recente film Genius molti di noi oggi collegano facilmente a Fitzgerald e Thomas Wolfe, Lardner fu costretto a chiedere in giro copie dei giornali sui quali erano stati originariamente pubblicati perché non ne aveva conservata nessuna copia. Questo l’uomo.

Tornando ai nostri giorni, invece, un sunto significativo dell’approccio di Lardner alla narrazione lo offre Prima di sposarti ero molto più in forma, raccolta di tre racconti che riprende nel titolo una frase tratta dal primo di questi, Una seconda luna di miele, la semplice “cronaca” del soggiorno estivo dei coniugi Charley e Lucy Frost in una località a buon mercato della California.

Già in questo primo racconto, apparentemente semplice, notiamo subito il mestiere di Lardner. Quel suo naturalissimo dare spazio ai personaggi, in questo caso a Charlie che è gli occhi, le orecchie, la mente e la voce narrante della storia. Charlie, infatti, è perfettamente verosimile. È un uomo anziano, che riporta i fatti esattamente come farebbe un uomo anziano, con le ripetizioni (quel suo «riesce sempre ad avere l’ultima parola» riferito alla moglie), i giri di parole e le fissazioni tipiche di un uomo della sua età.

La mano di Lardner qui non si avverte. Scompare per lasciare la sua creatura libera di instaurare con il lettore un legame che dura fino alla fine. Fino a quel suo complice e umanissimo «Ma adesso sta arrivando mia moglie, sarà meglio che chiuda».

La stessa abilità di giocare con il linguaggio la ritroviamo anche nel secondo racconto, Adesso e allora, in cui scopriamo un’altra voce altrettanto ben caratterizzata; quella di Irma, giovane sposa alle prese con le amare contraddizioni del matrimonio, uno dei soggetti più frequenti dei racconti a tema non sportivo di Lardner.

Piccolo capolavoro di spietata satira, Adesso e allora è costruito attraverso la successione cronologica delle lettere spedite da Irma all’amica Esther in due momenti diversi: durante il viaggio di nozze alle Bahamas e, tre anni dopo, nel corso della sua (demoralizzante) replica organizzata per festeggiare l’anniversario di matrimonio. Il lettore non può leggere le risposte di Esther e concentra quindi tutta l’attenzione su Irma, che appare tragicamente incapace di vedere le cose attorno a sé, ingenua fino all’inverosimile persino nelle situazioni più mortificanti.

Lardner in questo caso è spietato: ad ogni “meraviglioso”, “meravigliosamente”, “una meraviglia” che Irma scrive a Esther è come se la vedessimo sprofondare sempre più in basso. Le parole le si ritorcono contro. È la satira che si scrive da sola. La più potente. Quella che fotografa un fatto crudele ma vero: nonostante tutto, ognuno vede la realtà con i propri occhi. Non dico altro per non rovinare il finale a chi volesse leggere.

Bellissimo, anche se in modo diverso, è anche il terzo racconto, Anniversario. Una storia in cui prende il sopravvento la volontà di mostrare in maniera chiara e inequivocabile la cappa soffocante e spersonalizzante che rappresenta il matrimonio. Anche qui, però, mi fermo per non guastare il piacere della lettura.

Tirando le somme, in Prima di sposarti ero molto più in forma si riconosce quello che ad oggi è il principale lascito di Lardner: aver compreso che la sete di storie che avevano i lettori dei quotidiani e delle riviste di inizio Novecento poteva essere soddisfatta solo recuperando autenticità, solo cominciando finalmente a far parlare i personaggi come americani.

Virginia Woolf aveva intuito qualcosa del genere notando che Lardner scriveva le sue storie «often in a language which is not English». Quello che invece molto probabilmente non sapeva era che il suo lontanissimo collega aveva alle spalle chilometri e chilometri di strada fatta insieme ai giocatori di baseball di tutto il Paese. Non sapeva che Ring, da giornalista “embedded” al seguito delle squadre in trasferta, aveva seguito i giocatori nei ritiri pre partita, si era seduto accanto a loro nei pullman sui quali avevano viaggiato per ore e ore e aveva quindi avuto modo di abituare il proprio orecchio a decine di slang e ad altrettante parlate da contadinotti.

In quelle trasferte aveva insomma capito cosa rendeva vere le persone: la lingua che parlavano. E quella consapevolezza, intrecciata con uno humor pungente e con un’indubbia capacità narrativa, fu una scoperta che a modo suo contribuì a plasmare il canone delle short stories made in U.S.A. Le storie sulle quali si formò il gusto, tra gli altri, di Ernest Hemingway.

Il risultato più immediato fu che i campioni, veri e fantasiosi, di cui in seguito scrisse risultarono più autentici che mai. E non solo loro, ma anche i personaggi che nacquero fuori dalle colonne dei pezzi di cronaca. Lardner imparò a creare mogli, mariti, amanti, poliziotti, bambini, parrucchieri e molti altri tipi americani. Gente che suonava vera perché parlava americano. Finalmente.


[1] Lardner ispirò a Fitzgerald il personaggio di Abe North di Tenera è la notte.

[2] Hemingway utilizzò il nome di Ring Lardner Jr. come pseudonimo per firmare le sue cronache sportive sul giornalino scolastico. Il vero Ring Lardner Jr, invece, fu il figlio del nostro autore e vincitore di un Oscar nel 1943 per la miglior sceneggiatura per il film Woman of the year, con Katharine Hepburn e Spencer Tracy.

Ridere è un fatto serio, lo sapeva anche Mark Twain

Photo by Toa Heftiba 

Provo sempre grande ammirazione per chi fa della risata un mestiere. Non so se questo derivi dal fatto di essere una figlia di Pulcinella, se il teatro napoletano ha in qualche modo influenzato la mia visione del mondo. È nella nostra cultura, forse, forse è anche un modo strambo di sopravvivere agli eventi. Non mi piacciono mai le generalizzazioni ma sento di poter dire che, se è vero che tutti i brasiliani sanno ballare il samba, tutti i napoletani sanno far ridere. O, almeno, tutti hanno in sé quel tipo di attitudine. È una missione, frutto di una vocazione che si asseconda già nei primi anni di vita. Per noi, per me, far ridere è ‘na cosa seria.

Ecco perché ho scelto di raccontarvi Mark Twain, per rendere omaggio a un americano che la pensava un po’ come un napoletano. Quando ho cominciato a cercare del materiale per scrivere questo pezzo ho incontrato le prime incongruenze: per ogni introduzione, premessa o presentazione, Mark Twain è lo scrittore di Le avventure di Tom Sawyer e Huckleberry Finn. Mark Twain, che scrisse Huckleberry Finn e Tom Sawyer. Il grande Twain, il padre di Tom e Huck. E poi? E poi «altre storie». Mark Twain era un umorista prima di tutto, uno scrittore eclettico che scrisse anche romanzi realistici. Sembra quasi che alla Letteratura non importi perché un racconto strappalacrime vale più di mille storielle. Sono sicura che queste conclusioni appartengono a persone che non hanno mai sentito una buona storiella, secondo me neanche sarebbero in grado di rendersi conto della differenza. Quelle di Mark Twain si definiscono tall tales, storie che nascono per raccontare l’America di frontiera. L’autore di tall tales aggiunge a vicende apparentemente lineari elementi incredibili e paradossali e di solito interviene direttamente nella narrazione per accompagnare (o confondere) il lettore. Più spesso l’ascoltatore, perché queste storie hanno una forte tradizione orale.

Si compiono molti errori nell’esprimere un giudizio, a maggior ragione quando chi giudica non guarda troppo in là. Spesso si confonde l’umorismo con la spensieratezza, o peggio, con la superficialità. Eppure basta leggere la biografia di Twain, al secolo Samuel Langhorne Clemens, per capire quanto il suo umorismo sia il risultato di un lavoro che parte da se stesso. Samuel nasce nel Missouri nel novembre del 1835. A marzo del 1847 suo padre muore e lui, appena dodicenne, inizia a lavorare come tipografo per diversi giornali locali. Si trasferisce a Sant Louis, a New York, a Philadelphia. Nel 1857 guida i battelli a vapore su e giù per il Missississipi. Nel 1858 il fratello Henry muore in un’esplosione sul battello Pennsylvania; Samuel porterà il peso di quell’incidente per tutta la vita perché era stato lui a convincere il fratello a lavorare insieme. Nel 1861 scoppia la guerra civile e Samuel parte insieme a suo fratello Orion. Quando torna, trova lavoro in una miniera nel Nevada. Si sposa nel 1870 con Olivia, nello stesso anno nasce il suo primogenito Langdon, che muore due anni dopo. Eccetera, eccetera, eccetera. Non proprio una vita all’insegna del divertimento. Ed è qui che nasce il talento di chi decide di dedicare la sua vita a far ridere gli altri quando in realtà ha ben poco di cui ridere.

Se la biografia non bastasse, si potrebbe provare a capirlo leggendo le rarissime interviste che ha concesso. Non amava rilasciare dichiarazioni perché sosteneva che la parola scritta non restituisce mai il senso del discorso; manca tutto quell’apparato di gesti e intonazioni che rendono il vero indirizzo di ogni affermazione e i giornalisti sono soliti approfittare di questa incongruenza. Twain diventa pungente e arguto quando nei suoi racconti prende di mira la stampa. Per esempio, in Come diressi un giornale per agricoltori [1]scrive di un uomo che diventa il nuovo direttore di una rivista specializzata. È stato incaricato di estendere il pubblico provando a coinvolgere anche i lettori meno esperti. Il protagonista comincia a pubblicare notizie fasulle, bizzarre e grossolane, e il caporedattore uscente è costretto a tornare in sede per chiarire la situazione. Quando questo, abbastanza irritato, chiede al collega perché non ha palesato prima la sua ignoranza in materia, il nostro uomo esplode con queste parole:

Perché non gliel’ho detto? Zucca vuota, testa di rapa, figlio di un broccolo, ma come? È la prima volta che sento tanta ottusità. Sono nel giornalismo da quattordici anni, ecco cosa le dico, e questa è la prima volta che mi s’informa che bisogna saper qualcosa per scrivere su un giornale.

Esperti improvvisati scrivono senza sapere da secoli, né più né meno di quello che aveva fatto lui. Tant’è che il giornale per agricoltori, con il nuovo direttore, ottiene un successo strepitoso.

Tuttavia, nel 1890 Mark Twain rilasciò un’intervista per il New York Herald. Era un pomeriggio di agosto e il giornalista Rudyard Kipling era riuscito a impostare una conversazione che sembrava non infastidirlo troppo, evento più unico che raro, ecco perché esitava a porre una domanda che aveva in mente dall’inizio, una domanda che non piace troppo agli scrittori. Mentre Kipling cercava le parole giuste per domandare a Samuel quale tra le opere di Twain preferisse, come se avesse letto le sue intenzioni, l’interrogato comincia:

Personally, I never care for fiction or story-books. What I like to read about are facts and statistics of any kind. If they are only facts about the raising of radishes, they interest me. Just know, for instance before you came in, I was reading an article about Mathematics. Perfectly pure mathematics. (…)  I didn’t understand a word of it; but facts, or what a man believes to be facts, are always delightful.

Pensiero che può essere riassunto più o meno come: nothing but the facts. Mark Twain leggeva i fatti. Non preferiva l’umorismo per sé ma numeri e statistiche. Questo non deve affatto stupirci perché è l’ennesima prova della teoria che vede nell’umorista un fingitore, un attore che interpreta una storia a tutto piacere del suo pubblico. È questo il punto che critici e letterati più seriosi non riescono a vedere: far ridere è un gesto di totale devozione. Gli scrittori scrivono per comunicare, per esprimere un messaggio, per soddisfare un’esigenza. Ma tutto parte da un bisogno personale e il lettore è un destinatario fittizio di un processo circolare.

Jorge Luis Borges firma un testo nel 1935 che intitola In difesa di Mark Twain, utilizzato oggi come introduzione al romanzo Il principe e il povero. Già il verbo, “difendere”, ci dà la dimensione di quanto la sottostima dell’umorismo fosse (e sia) un problema reale. Nel 1908, il nostro Pirandello fu costretto a pubblicare il saggio L’umorismo per dare peso e spessore a questo modo insolito di fare letteratura. «Delle tecniche umoristiche di Twain si potrebbe dire un’infinità di cose. Un fatto tuttavia è indiscutibile: il valore essenziale della novità, e anche della sorpresa». Tutta la narrativa di Twain, secondo Borges, è tesa a sorprendere e intrattenere il lettore. Che si apprezzi o meno, la scrittura umoristica serba in sé un aspetto innegabile: è generosa, è altruista.

In Come raccontare una storia [2] Mark Twain svela i trucchi del mestiere. Comincia mettendo ordine tra termini simili, evidenziando la differenza di significato tra storia umoristica e storia comica. La storia umoristica, dice «può andare per le lunghe e uscire dal seminato quanto le pare, senza approdare sostanzialmente al nulla, mentre la storia comica e quella arguta devono essere brevi e avere una logica conclusione». Continua: «La storia umoristica è essenzialmente un’opera d’arte – un’arte nobile ed elegante – e solo un artista è in grado di raccontarla, mentre per raccontare una storia arguta e una storia comica l’arte non serve: può farlo chiunque». Fondamentale, la pausa: «La pausa è una caratteristica straordinariamente importante per qualunque tipo di storia». E poi:

La storia umoristica deve essere raccontata in modo serio. […] Ovviamente, molto spesso una storia umoristica sconclusionata e incoerente approda comunque al nocciolo della questione, a un punto essenziale, a un guizzo essenziale– chiamatelo come vi pare. L’ascoltatore però deve mantenersi vigile perché, in molti casi, il narratore cercherà di distogliere l’attenzione da quel nocciolo, lasciandolo cadere all’improvviso, distrattamente e con grande indifferenza, fingendo di non sapere affatto che si tratta del nocciolo dell’intera faccenda.

Nel racconto Italiano senza laurea [3], un eccentrico protagonista ci illustra gli improbabili vantaggi che possono derivare dal non conoscere bene una lingua, soprattutto la libertà di poterla interpretare come più si preferisce. C’è un passo che, volendo senza volere, ci regala una definizione perfetta di storia umoristica, tanto incomprensibile come può essere una lingua straniera:

C’è un fascino particolare e notevole nel leggere frammenti di notizie in una lingua che non conosciamo, il fascino che si accompagna sempre al mistero e all’incertezza. Non possiamo essere sicuri del significato di ciò che leggiamo in simili circostanze; stiamo dando continuamente la caccia a un indovinello rapido e giocherellone, dove le curve e le finte della preda sono il cuore stesso dell’inseguimento.

Ma la verità, se tutto questo non fosse ancora abbastanza, è racchiusa in una lucida e spietata citazione di un diario di viaggio del 1897, Seguendo l’equatore, che Mark Twain scrisse una decina d’anni prima di morire.

Tutto ciò che è umano è patetico. La segreta fonte dell’umorismo stesso non è gioia, ma dolore. Non c’è umorismo in cielo.


[1] Contenuto nella raccolta Racconti comici. Edizioni e/o, 2011. Traduzione di Leonardo Gandi.
[2] Contenuto nella raccolta Come raccontare una storia e l’arte di mentire. Mattioli 1885, 2013. Traduzione di Seba Pezzani.
[3] Contenuto nella raccolta Autobiografia burlesca (e altre storie). Casasirio, 2016. Traduzioni di Michele Campagna e Chiara Bonsignore.