Se riesco a scrivere questo articolo è perché mi sto ancora godendo i benefici di quell’oasi felice che è stata leggere il libro di James Ellroy Un anno al vetriolo. Los Angeles Police Department, 1953, dopo mesi di deludente ricerca di qualcosa che attirasse un minimo la mia attenzione e che mi invogliasse ad avere costanza. [...]
Covavo l’idea di leggere e scrivere qualcosa che riguardasse i Balcani da un po’ di tempo, spinto da una specie di attrazione rimasta negli anni sottotraccia ma che, a fasi alterne, mi ha portato via via a interessarmi in maniera crescente dei Paesi dell’ex-Jugoslavia.
Questa, per contingenze storiche, è l’occasione perfetta per decidermi finalmente a trattare l’argomento per due motivi ben precisi: il primo, riguarda una ricorrenza che ha avuto un’importanza enorme nei Balcani [...]
Un racconto è come una fotografia: quel che si vede è solo ciò che è compreso nello spazio dell’inquadratura. Del resto un buon racconto mostra solo una parte di ciò che c’è da mostrare e poi c’è tutta una parte di non detto. Quest’ultima è un po’ come quello che rimane appena fuori dai margini della fotografia: non si vede ma la si può intuire. Ed è proprio quel dover indagare i margini per scoprire cosa c’è al di là di quello che si vede ciò che mi affascina del racconto; ed è ancora più affascinante scoprire che quello che non è compreso all’interno dell’inquadratura a volte è ancora più importante di ciò che è compreso.
È stato Julio Cortázar a paragonare il racconto alla fotografia [1] (del resto Cortázar era anche un appassionato fotografo): «Non so se abbiate mai sentito parlare un fotografo professionista della propria arte; a me ha sempre sorpreso il fatto che egli si esprima per molti versi come potrebbe fare uno scrittore di racconti. Fotografi del calibro di un Cartier-Bresson o di un Brassaï definiscono la loro arte come un apparente paradosso: quello di ritagliare un frammento della realtà fissandogli determinati limiti, ma in modo tale che quel ritaglio agisca come un’esplosione che agisca su una realtà molto più ampia, come una visione dinamica che trascenda spiritualmente il campo compreso dall’obbiettivo.» Uno scrittore di racconti o un fotografo scelgono sempre il frammento di realtà, non ritagliano inquadrature a caso. La loro arte nasce dalla scelta di materiale «significativo». Il fotografo o lo scrittore di racconti devono allora tenere sempre conto dell’effetto della loro arte: non deve sussistere solo per se stessa, deve riguardare anche lo spettatore o il lettore. Cortázar aggiunge anche che l’immagine o l’aneddoto devono agire sullo spettatore o sul lettore «come una specie di «apertura», di fermento che proietti l’intelligenza e la sensibilità verso qualcosa che va molto oltre l’aneddoto visivo o letterario contenuto nella foto o nel racconto.»
La mia curiosità mi ha spinto a seguire le impronte di Cortázar: ho cercato tra gli scritti di diversi fotografi qualche buon consiglio per uno scrittore di racconti; ma a differenza dello scrittore argentino ho cercato qualche soluzione utile nella pratica di scrittura, prima che un concetto teorico. La mia attenzione si è concentrata più sulla realizzazione della fotografia che sulla fotografia in sé: ciò che mi interessava era ritrovare delle affinità nell’approccio alla realizzazione dell’opera.
Il concetto che mi interessava maggiormente era quello di «apertura»: il fotografo e lo scrittore di racconti devono tenere conto preventivamente di ciò che l’opera dovrà stimolare nello spettatore e nel lettore? O l’«apertura» è un concetto che si rileva a posteriori? E poi: quali sono gli strumenti del fotografo che possono tornare utili anche per uno scrittore di racconti?
Mi pare di aver trovato qualche risposta nelle Lezioni di fotografia di Luigi Ghirri: «C’è sempre un modo per far percepire l’apertura, attraverso la luce o la messa a fuoco, in modo tale che al centro dell’attenzione stia l’immagine ma anche quello che succede attorno, che si tenda a pensare a immaginare l’intorno». Ghirri suggeriva di lavorare con la luce e con la messa a fuoco per ottenere quell’effetto di apertura che hanno la fotografie ben riuscite. In altre parole oltre alla perfezione tecnica dello scatto, occorre che il fotografo ragioni prima su quello che intende poi mostrare una volta sviluppata l’immagine. Il fotografo deve prima di tutto osservare, capire quello che sta per fotografare, capire quali sono i confini dell’inquadratura, avere già idea di ciò che dovrà rimanere impresso sulla carta e ciò che non dovrà comparire. Gli strumenti che ha a disposizione sono tutti fortemente legati allo strumento: deve lavorare con la luce, l’ingrandimento, la messa a fuoco. Il fotografo deve applicare tali strumenti alla propria sensibilità personale nel cogliere i dettagli. Fotografare è scrivere con la luce. Il fotografo deve imparare come si comporta la luce quando incontra gli oggetti e quindi saper cogliere tale comportamento. È qui che deve lavorare anche lo scrittore di racconti: deve sapere quali sono gli elementi del racconto su cui è importante che si posi la luce e quando. Ma soprattutto tali elementi devono avere una caratteristica: devono essere gli elementi che provochino quell’«apertura» di cui parlava Cortázar, che in qualche modo guidino il lettore attraverso la soglia che separa il visibile dal non visibile; o che perlomeno scatenino nel lettore l’inquietudine della presenza di una storia tra le righe, che il racconto non sia solo quello che si legge.
«Il fascino dell’immagine sta anche nel trovare un equilibrio tra quello che si deve vedere e quello che non si deve vedere. Non deve essere una fotocopia della realtà. Mostrare come ci sia sempre nella realtà una zona di mistero, una zona insondabile che secondo me determina anche l’interesse dall’immagine fotografica», spiegava Ghirri ai suoi studenti. Una buona lezione anche per uno scrittore di racconti.