
La differenza tra romanzo e racconto è tutta nello spazio di una parete. Secondo Paolo Cognetti, se il romanzo aspira a: «contenere tutto – se non proprio tutto almeno tutto un mondo – costruendo per noi una casa in cui abitare (…). Il racconto è piuttosto una finestra sulla casa di qualcun altro [1]». La casa di chi? Parafrasando una poesia di Carver, Cognetti aggiunge: «(Il racconto) è una finestra su casa nostra quando abbiamo dimenticato le chiavi». Ricapitolando: il romanzo è una struttura che si sviluppa intorno a noi; dalle fondamenta, mattone dopo mattone, raggiunge il soffitto. Sappiamo perché vediamo, siamo coinvolti nell’evoluzione della storia dall’inizio alla fine. Il racconto esiste già, ecco perché è più difficile entrare, più faticoso. A porte chiuse quel mondo ci è estraneo, come noi siamo estranei a noi stessi. Quando però riusciamo a guardarci dentro (e qualche volta succede), veniamo travolti da un’autentica rivelazione.
Ma se la fine coincide con uno svelamento, qual è l’inizio? Dove nascono i racconti? Proviamo a partire dallo scrittore, inseguendo il processo creativo fino a trovare il punto in cui le storie accadono.
Quando ho cominciato a scrivere storie fantastiche non mi ponevo ancora problemi teorici; l’unica cosa di cui ero sicuro è che all’origine d’ogni mio racconto c’era un’immagine visuale. (…) Dunque nell’ideazione d’un racconto la prima cosa che mi viene alla mente è un’immagine che per qualche ragione mi si presenta carica di significato, anche se non saprei formulare questo significato in termini discorsivi o concettuali. [2]
I racconti di Italo Calvino nascevano da un’immagine che si presentava all’improvviso, “per qualche ragione”. Questa citazione è tratta dalla lezione americana della Visibilità, che lo scrittore intendeva come la capacità di visualizzare immagini più o meno collegate alla realtà empirica. L’immaginazione, spesso confusa con la fantasia, è sempre stata fonte di grandi dibattiti. Per anni, a partire da Aristotele, si è discusso sul rapporto tra immaginazione e conoscenza; se alcuni individuavano nell’immaginazione una chiave d’accesso all’apprendimento, anche di tipo scientifico, per altri era l’esatto opposto: l’immaginazione era un offuscamento del razionale, un’esperienza sensoriale tesa a una rivelazione più profonda, qualcosa che riusciva a ingannare la ragione e a mettere in atto una comunicazione con «l’anima del mondo». In ogni caso, fosse anche per una concessione divina – come suggeriva Dante appellandosi all’alta fantasia –, lo scrittore è vittima della sua capacità visionaria: è il mezzo attraverso il quale l’immagine diventa parola. Ma un testo scritto non è ancora un racconto perché scrivere è solo la prima fase.
Pierre Menard (autore del Chisciotte) è una delle finzioni di Jorge Luis Borges, un racconto del 1944. È la storia di uno scrittore che in realtà non è mai esistito. Borges vuole farci credere che Pierre Menard abbia provato a riscrivere due capitoli del libro di Cervantes. Pare che sia riuscito a restare fedele al testo originale, sebbene abbia deciso di riproporlo in chiave contemporanea. Borges si diverte a recensire questo esperimento letterario, che definisce eroico e impareggiabile, e ci fornisce molti dettagli per validare il lavoro di Menard, citando anche nomi di nobili e contesse che potrebbero giurare di aver visto il catalogo dello scrittore inesistente. Come ogni racconto di Borges, Pierre Menard è un brano pieno di riflessioni trasversali. Quella che a me interessa è questa: «Pensare, analizzare, inventare non sono atti anomali, sono la normale respirazione dell’intelligenza [3]». Ma poi, qualche riga più avanti: «non v’è esercizio intellettuale che non sia finalmente inutile». Borges sembra suggerirci che ogni atto d’invenzione, come la scrittura, resta soltanto una prova d’intelligenza fine a se stessa, un’esibizione di fronte a una platea vuota, se non si evolve in qualcosa di diverso. Se, attraverso un procedimento di rielaborazione, non viene ricondotto a uno scopo più alto.
Leggendo, calati nella logosfera, ci si può persino sentire, ad occhi aperti, in un sogno più vero e più vivo della realtà circostante. E tuttavia questo spazio sono io a costruirlo, per animarlo lo reinvento di continuo partecipando del suo movimento nello specchio attivo dell’immaginazione (…). Allo stesso modo, mentre percorro le frasi di un libro, pur leggendo in silenzio investo la mia voce, ossia qualcosa che viene dal profondo dell’intimità corporea (…) e nel momento in cui si trasforma, quasi sdoppiandosi, per mettersi alla prova della parola altrui, ecco che la voce può scoprire un nuovo aspetto di sé, una forza che non si riconosceva.
Ezio Raimondi, nel suo saggio Un’etica del lettore, ci dimostra quanto la lettura sia una fase fondamentale dello sviluppo narrativo. È compito del lettore percorrere l’altra parte del ponte, riconvertire la parola in un’immagine più efficace di quella dello scrittore, perché vista “da fuori”. Il timbro, la cadenza e il respiro sono i nostri strumenti, i coltelli con i quali frughiamo in noi stessi. È così, allora: il racconto inizia e finisce in un’unica immagine, scritta e interpretata, che nell’incontro tra lettore e scrittore diventa sublime, in quello «slancio intimo della coscienza affettiva, che può valere anche come un atto d’amore». È il momento in cui, guardando attraverso la finestra, riconosciamo finalmente la nostra casa.
[1] Paolo Cognetti, A pesca nelle pozze più profonde, Minimum fax, 2014 (pag. 17)
[2] Italo Calvino. Lezioni americane, Mondadori, 2000 (pag. 90)
[3] Jorge Luis Borges, Finzioni, Einaudi (2015). Traduzione di Franco Lucentini.