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Epifanie per una scrittura politica

Di Claudio Correggioli

Quando Vanni Santoni, nell’intervista che ha concesso a Gaia Mutone, ha detto che «gli scrittori godono ancora di un certo ascolto, e questo rende il mestiere intrinsecamente politico, anche quando non si fanno libri-inchiesta o di intervento diretto» io ho fatto un salto sulla sedia. Sì, perché avrei voluto urlarlo con lui al mondo, mentre ovunque mi volti vedo, nelle classifiche di vendita, in televisione, e a profusione nel mare magno della Rete, che le scritture di oggi nascono principalmente per raccontare intrecci di cliché. Che non spingono quasi mai i lettori a porsi domande e a uscire dalla propria comfort zone. Quello che credo è invece che anche l’arte abbia come fine quello di confortare gli afflitti e disturbare chi sia già comodo, come diceva Finley Dunne alla fine del diciannovesimo secolo a proposito della religione. E così non ho resistito, ho preso in mano la penna e ho scritto ai ragazzi di Tre racconti. Ragazzi che devo ringraziare per non essersi sottratti alla discussione e, anzi, per averne voluto approfondire alcuni aspetti. Il primo dei quali è se ci sia una responsabilità condivisa tra scrittori e lettori, in mezzo a tutti coloro che propongono la cultura.

La risposta è certamente positiva. La narrativa ha, a mio parere, una funzione precisa: quella di metterci nella condizione di fare esperimenti sociali di tipo mentale. Quello che intendo è che nessuno ha il potere di effettuare due scelte diverse, a fronte di un dilemma, per verificare oggettivamente quale sia la scelta migliore; l’unica nostra arma sono le supposizioni, pur sapendo che “è molto difficile fare previsioni, specialmente riguardo al futuro”. Dunque la narrativa ha (dovrebbe avere), nel campo della vita e delle emozioni, la stessa funzione che occupa un teorema in matematica o in fisica; questo significa che chi scrive ha l’obbligo di metterci la propria visione del mondo, nonché una qualche proposizione che ci insegni qualcosa sulle verità della vita. Quantomeno sulle sue verità. Come vedete, la struttura è identica: c’è un’ipotesi, che è la visione del mondo e c’è una tesi, che sono le conseguenze – in quel mondo – di una certa verità sulla vita. La narrazione non è altro che la dimostrazione, a volte per assurdo, attraverso cui l’autore ci mostra quanto sia vera la sua verità. Le storie che l’uomo si racconta da millenni nascono proprio per questo: altrimenti che senso avrebbero le favole, l’ira funesta del più prode degli eroi, le vicende di un capitano pazzo alla caccia di una balena bianca?

Per fare un esempio, prendiamo una storia noir come tante che si trovano in libreria. Mettere in scena il solito commissario e centellinare indizi è (dovrebbe essere) la scusa per mostrare al lettore come funzioni la vita, magari dicendo che la giustizia vince sempre perché… e i perché dipendono proprio dalla sensibilità dell’autore. Che potrebbe credere al fatto che i cattivi siano sempre stupidi, almeno più dei commissari. Che, magari, i commissari siano più duri e cattivi dei cattivi stessi. Oppure – dimostrazione per assurdo – che il crimine paghi solo quando la giustizia è ingiusta e corrotta. Come è facile capire queste sono tutte istanze di tipo politico, inteso nel senso più alto, perché mostrano uno spaccato di vita idealizzato, ripulito dal caos che regna sovrano nella realtà, in cui sono resi evidenti le catene di conseguenze che derivano dall’assunto iniziale.

Con questo non sto dicendo che la scrittura debba essere asservita solo alla denuncia, tanto meno a quella di un presente che, a parere dello scrittore, non funziona o dovrebbe essere diverso. A tal proposito, Paolo Zardi qualche settimana fa ha twittato: «Quando uno scrittore parla di precariato, fake news o bullismo, be’, è arrivato troppo tardi: lo scrittore dovrebbe muoversi nello spazio dell’inesplorato». Chi scrive narrativa e presume, di conseguenza, di poter far parte in una qualche misura della comunità artistica, ha il dovere di anticipare la vicende umane a favore di tutti coloro che non hanno il privilegio di condividere quella vocazione. L’artista può chiamarsi tale proprio perché vede e comprende prima degli altri, con una sensibilità che al resto delle persone fanno difetto. Si dice che a ogni giorno basti la sua pena. Ma se è vero che chi scrive pensa di possedere una qualche verità sul mondo, allora non può fare a meno di vedere la pena di oggi che proietta la propria ombra sul domani.

Ecco perché l’arte e lo sviluppo della cultura sono tanto importanti. Ecco perché è fondamentale che chi scrive non abdichi ai propri doveri e che chi pubblica non insegua solo il mero ritorno economico a breve termine: sono chiari a tutti i motivi per cui un libro è un prodotto industriale, almeno quanto un fon, ma, a differenza di quest’ultimo, un libro non si limita alla superficie e smuove quello che c’è sotto, vale a dire pensieri e coscienze. Tenendo ben presente una cosa: la cultura non esclude il profitto. Non è forse vero che Se questo è un uomo è stata una delle più grandi operazioni commerciali di Einaudi?

Allo stesso modo, alla fine di questa catena, c’è anche una responsabilità in chi legge, messa in campo quando si sceglie il prossimo libro da aprire. Scelta che non deve premiare con l’acquisto sempre e solo il volume meno impegnativo o le storie facili, perché proprio la narrativa d’intrattenimento è il miglior terreno per imparare giocando: dunque è sacrosanto leggere cose divertenti, persino frivole, ma senza per forza rinunciare a quella patina di denuncia che obbliga il lettore a riflettere su di sé e sul mondo che lo circonda o lo circonderà.

In questa rivista però amano la letteratura, quella che produce storie e racconti, assai più della teoria. D’altronde, come diceva Giacomo il Giusto: «tu hai la fede ed io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere e io, con le mie opere, ti mostrerò la mia fede». Era inevitabile che mi facessero una domanda diretta: «Data una situazione X cosa dovrebbe fare lo scrittore Y? Cosa fai tu, o cosa pensi di fare, o cosa vorresti poter fare?».

I temi che mi stanno a cuore, e che auspico debbano stare a cuore a molti, sono parecchi e vorrei lasciar parlare prima il Claudio lettore, base fondante del Claudio che scrive. Dopo una china lunghissima in cui abbiamo subito più di altri gli andamenti economici, oggi assisto con sgomento alla rinuncia a diritti che trenta o quaranta anni fa erano normali, con scontri che mettono i padri contro i figli e le popolazioni l’una contro l’altra. Scontri che finiscono per ledere, quando non strappare, il tessuto sociale. Mi piacerebbe leggere scrittori che non si limitino a dirci in quante spanne d’acqua siamo: dovrebbero bastare giornalisti e saggisti a mostrarci quanto ci sia di sbagliato in tutti quei comportamenti che fanno perno sull’egoismo e sulle paure della gente, e a smantellare tutte quelle reti in cui contano di più le conoscenze e le affiliazioni invece delle capacità. Vorrei leggere scrittori che ci mostrino da che parte sia giusto puntare il timone della nostra vita comunitaria. Perché la Storia ha già mostrato molte volte quanto sia irragionevole pensare di salvarsi rinchiudendosi in una specie di protezionismo egoistico.

Come scrittore, invece, posso dire che non accendo il computer se non ho, dentro di me, l’urgenza di dimostrare una tesi. Altrimenti la scrittura non è altro che esercizio, al pari delle parole crociate: divertenti per chi le costruisce ma noiosissime da compilare. Anni fa, per esempio, ho scritto diversi racconti che avevano come sfondo la Grecia perché la cultura e la società greche erano molto simili, pur se non identiche, a quelle italiane: un mix interessante di come eravamo qualche decina d’anni prima unita al come avremmo potuto diventare nel giro di qualche anno. Ho utilizzato queste differenze come cartina di tornasole, perché l’Italia così com’è non mi piace più; nel caso foste curiosi, uno di quei racconti è finito sul primo numero di questa rivista.

In questo momento, invece, sto scrivendo di intelligenze artificiali: uno dei tanti ambiti sui quali sarebbe criminale non riflettere con opportuno anticipo, posto che si sia ancora in tempo per farlo. Per un verso è un’ottima scusa per porsi di nuovo l’antica domanda su cosa sia la coscienza e, subito dopo, domandarsi se una macchina possa pensare e se abbia persino senso fare queste domande. Dal lato opposto, invece, c’è una speculazione di tipo diverso: in un universo che ci appare desolatamente vuoto, in cui il paradosso di Fermi la fa da padrone, è probabile che il nostro primo contatto lo avremo con qualcosa che avremo creato noi stessi.

Il tema è estremamente complesso e alieno; per rendersene conto basta guardare lo stesso pezzo meccanico progettato e costruito dall’uomo e quello invece perfezionato da una IA. Non credo sia necessario specificare chi ha disegnato cosa. Questa invece è una scheda per computer mentre questa è una mappa della metropolitana, le cui tratte sono disegnate con angoli multipli di 45 gradi per aumentarne la leggibilità. Si vede a colpo d’occhio quanta umanità ci sia in quel computer. Ora immaginate cosa possa fare una IA che progetta un computer specificatamente concepito per contenere al proprio interno una IA di seconda generazione; immaginate quanta distanza finirà per esserci tra il nostro modo di pensare e quello di una macchina siffatta. E poi pensate che macchine del genere, aiutate dai robot, saranno (ma in realtà sono, non dimenticatelo) impiegate in tutti gli ambiti umani, dalla medicina alla vendita, ai social network, al lavoro, alla guerra.

Gli impatti già oggi sono devastanti, tanto che questa nuova tecnologia sta prendendo sempre più i contorni di una religione: è ubiqua attraverso i nostri smartphone, la preghiamo per avere delle cose, è all’apparenza onnisciente. Insomma: possiede molte delle caratteristiche che la scolastica attribuiva a Dio. E l’uomo, che Dio ha costruito a propria immagine e somiglianza, e che forse ha costruito Dio a propria immagine e somiglianza, sta per trovarsi di fronte a qualcosa di nuovo senza avere davvero una possibilità di un confronto o persino di uno scontro: non si può vincere una gara di corsa contro un treno.


Claudio Correggioli ha pubblicato Il geco sul primo numero di Tre racconti. Per leggerlo, puoi scaricare il Pdf disponibile qui. Per sfogliare la rivista, invece, clicca qui.