All’ingresso del National Steinbeck Center, nella città di Salinas, in California, c’è un blocco di pietra che riporta una citazione. È un passaggio di una lettera che John Steinbeck scrisse a George Sumner Albee nel 1933 [...]

All’ingresso del National Steinbeck Center, nella città di Salinas, in California, c’è un blocco di pietra che riporta una citazione. È un passaggio di una lettera che John Steinbeck scrisse a George Sumner Albee nel 1933 [...]
Esistono motivi diversi che possono spingere ciascuno di noi ad avvicinarsi ad un libro. Talvolta, però, accade semplicemente di trovarsene tra le mani uno di cui ignoravamo l’esistenza fino a pochi attimi prima, ma per una qualche ragione sentiamo che deve essere nostro. Questo è più o meno quello che è capitato a me con The James Dean Garage Band di Rick Moody.
Rick Moody nasce a New York nei primi anni Sessanta, ma cresce in Connecticut, dove oltre ad una naturale propensione per la scrittura creativa e la letteratura in genere, sviluppa anche una passione smodata per tutto ciò che è musica e ritmo, tanto da pubblicare molte opere, da romanzi a racconti ad articoli, a tema musicale (Tre vite, Cercasi batterista chiamare Alice e Musica celestiale solo per citarne alcuni). Anche in The James Dean Garage Band il titolo stesso, citando uno dei racconti della raccolta, ci fa immediatamente capire quanto la musica sia fondamentale per Moody, quanto i suoni più che i personaggi siano i veri protagonisti di molte delle sue storie. E, se il titolo non bastasse, ci pensa l’autore a sottolinearlo con l’incipit del primo racconto.
«Iniziai a registrare le telefonate di mia moglie a sua insaputa dopo il terzo weekend dell’aprile del 1993».
Apparentemente non sembra niente di particolare, se non il preludio di una storia che, come tante altre, si appresta a descrivere la vita matrimoniale di una coppia in crisi. In realtà Moody ci fa capire subito quanto la vita, o in questo caso una relazione, anziché essere analizzata per quello che è o per quello che ne facciamo, possa essere filtrata e reinterpretata attraverso i rumori e i suoni presenti sul nastro che li registra.
«Alzai un po’ il volume per sentire qualcosa in più del brontolio assonnato della sua voce in cucina. Lo alzai quanto bastava per sentire».
Sotto la lente d’ingrandimento dell’autore non ci sono tanto le parole che la donna si lascia sfuggire durante le conversazioni telefoniche, quanto l’intonazione dei dialoghi e tutti quegli stati d’animo che traspaiono dalla sua voce: la malinconia, la stanchezza e la frustrazione si propagano dai nastri con una limpidezza tale da superare in importanza anche la parola.
Alla base della raccolta, un melting pot di stili, strutture e tematiche, c’è infatti l’idea dell’autore per cui tutto ciò che ha un ritmo, proprio come la musica, abbia bisogno di ascolto, e che quindi la letteratura e la musica siano complementari.
Nel racconto Frasario, Moody scrive:
«Lucy non riusciva a capire se amare sua madre o amare quel tramonto, se l’amore avesse la minima rilevanza rispetto alla situazione in cui si trovava adesso, se l’amore non fosse semplicemente un determinato tipo di suono e niente più».
Se i sentimenti sono identificabili con i suoni, lo è anche la vita stessa e la realtà tutta: il ritmo diventa perciò una caratteristica imprescindibile a cui prestare attenzione, sia quello da dare alle proprie parole, che quello riconoscibile nei suoni emessi da tutto ciò che ci circonda e di cui noi, volenti o nolenti, facciamo parte. Il suono è quindi una sorta di mappa da decifrare per capire cosa c’è nel profondo dell’animo umano, l’unica parte non artefatta.
L’esempio più rappresentativo di tutta raccolta è proprio il racconto The James Dean Garage Band, in cui l’autore immagina che l’attore, vittima nella realtà di un incidente poco lontano da Lost Hills a bordo di un’auto da corsa che non avrebbe dovuto guidare, sopravviva e scappi, deciso a lasciarsi alle spalle la propria fama e poter così ricominciare.
«Il motore già in fiamme. Un’immobilità. Di nuovo: il rumore della sgommata e del telaio che cambia forma, scolpito dal caso, l’esplosione, il silenzio. Dean me lo raccontò dopo. Il silenzio. Potevi passare da una vita all’altra senza fare il minimo rumore».
La scelta delle parole non è casuale, la morte evitata per un soffio è paragonata al silenzio. E cosa c’è di più lontano dal silenzio della musica che una band di giovani e frustrati figli del disagio della provincia americana, una gioventù bruciata californiana che si arrabatta tra velleità artistiche mal espresse in rifugi antiatomici tipici del periodo della Guerra Fredda, è in grado di esprimere?
«Noi volevamo fare pezzi che suonassero come il vento che soffia in una stalla, o come un bollitore lasciato sul fuoco, o come il piccolo urlo di dolore che ti sfugge di bocca quando ti senti veramente solo. […] Non suonavamo altro che una semplice frase sulla nostra solitudine, la solitudine e l’abbronzatura da test nucleari in superficie, la solitudine e il lavoro alla pompa di benzina, la solitudine e la sciatteria e le umiliazioni della scuola elementare, la solitudine che solo ora cominciavamo ad elaborare in forma di canzone».
La musica che una Telecaster appoggiata al muro è in grado di produrre è quindi l’occasione di rinascita e di espressione: per un attore vivo ma creduto morto dal suo pubblico, per quei giovani sconosciuti cresciuti in una zona in cui la vita è soltanto un’eco della morte.
«Suonavamo finché le prove non traboccavano fuori, sugli ettari di vuoto che circondavano il rifugio antiatomico, e ci mettevamo a correre – ai quattro venti – nella notte, alla ricerca degli angeli che non venivano mai a salvarci. Alla ricerca dell’entità che ci sollevasse e trasportasse via dal proletariato e via dal buco di paese in cui eravamo cresciuti. Sì, la band ci aveva cambiati. La fama di Dean ci aveva contaminato, e il nostro anonimato aveva contaminato lui. Non eravamo intimi, noi quattro; non facevamo discussioni sentite, non eravamo tipi da rivendicazioni maschili, però in quelle notti ci riunivamo là fuori tra la salvia e accendevamo fuochi di mitologia del deserto e aspettavamo segni».
Per la band suonare equivale a riappropriarsi delle proprie esistenze dimenticate tra la polvere del deserto californiano e la vendita al dettaglio di pezzi di metallo caduti dal cielo, quel fare musica è una dimostrazione a se stessi prima che al mondo esterno (quattro tizi ubriachi): significa trascendere la realtà per il riscatto di tutte quelle anime perdute di Lost Hills, relegate ad una sopravvivenza stentata, perché, anche se non è possibile dimenticarsi da dove si viene, la musica è comunque una giusta direzione da darsi.
«Se la vita che fai non è quella che sognavi, scappa» dice James Dean, nella frase di chiusura. “Ma se scappi, ricordati che qui devi tornare”, sembra dica Moody, ed è allora che devi decidere in che modo farti sentire.
Rick Moody, The James Dean Garage Band, minimum fax, 2005