A pagina duecentocinquantacinque de La montagna incantata, Thomas Mann pone una domandina facile facile. Di quelle da pausa caffè davanti alla macchinetta nel corridoio: «Che cos’è la vita?».
A quel punto tu, lettore già un po’ provato dalle minuziose descrizioni delle cime e delle valli innevate intorno al sanatorio Berghof (belle per carità!) e dalle dettagliate disquisizioni su tecniche diagnostiche e correnti umanistiche, hai già i polsi che tremano e mentre avverti un brivido gelido correrti lungo la schiena (qui il cliché è necessario) intuisci che stai per affrontare una sequenza di speculazioni sulla vita e l’universo che neanche Melville quando scrive di nodi, sfumature di bianco e tecniche di smembramento della balena sul ponte del Pequod.
Il Babau – Illustrazione di Dino Buzzati, Le storie dipinte
A volte il fantastico, nei racconti, è percepito come uno strumento poco flessibile e quindi, poco originale. In fin dei conti si tratta pur sempre di piazzare una qualche creatura dalle strane forme o poteri e farle perseguitare un malcapitato personaggio. Se ci si sente avventurosi si può scegliere una tra le tante categorie del fiabesco: oggetti magici, aiutanti magici, pericoli magici, nemici magici. Nelle sue caratteristiche profonde, quelle che derivano direttamente dai nostri danzanti progenitori poco vestiti, il racconto serve anche ad esorcizzare le tremende paure umane che, nella maggior parte dei casi, sono solo ombre contro al muro.
È allora più difficile, e occorre una grande maestria, per gestire un materiale che sembra così poco malleabile. Immaginate di dover dipingere un quadro e di aver a disposizione solo tonalità di blu. È molto difficile, ma ogni Picasso ha avuto il suo periodo.
Un maestro dell’eterna variazione di un unico tema è senza dubbio Dino Buzzati, prolifico autore di racconti, e uno di quei grandi scrittori che per tutta la vita hanno raccontato una storia sola: quella del destino mortale dell’uomo. Inscatolando l’autore nel comodo recinto del realismo fantastico, ci siamo apparentemente sistemati le coscienze, ma così facendo abbiamo smarrito l’incredibile gamma di sfumature, stili, tecniche e generi che possiamo riciclare dentro a un racconto. E allora la fiaba viene a convivere con il giornalismo, la cronaca nera con gli spauracchi dei bambini. La storia e le storie si mescolano con gradazioni variabili, per creare cocktail sempre nuovi.
Il Babau[1] è uno dei racconti più dolci e delicati di Buzzati, ma allo stesso tempo uno dei più amari. Questa volta è la tradizione orale ad essere saccheggiata: l’Uomo Nero usato come minaccia per i bambini irrequieti dalle bambinaie di ogni era e latitudine viene rubato e trasformato in un apax contemporaneo. Nella moderna metropoli, è un raro esempio di fantasia incarnata che continua a vivere, stimolando una sana paura nei piccoli creduloni. Il suo vero aspetto è solo in apparenza orribile e spaventoso: guardando bene, infatti, assomiglia piuttosto ad un grosso tapiro. L’occhio è placido e il sorriso amichevole. Ma ecco la prima virata: ad essere tormentato non è un bambino, ma un adulto, l’ingegner Roberto Paudi, dirigente alla COMPRAX. L’autore, con il suo tocco leggero e fiabesco (e ovviamente moralista), ci intrattiene con il mutaforma Babau, che per spaventare meglio l’ingegnere prende l’aspetto del suo direttore, togliendogli il sonno. In realtà, l’insofferenza e l’incapacità di comprensione dell’adulto fanno virare nuovamente il racconto, attraverso un processo kafkiano al mostro e al suo inquietante finale, comprensivo di morale sulla fantasia perduta.
Altro mostro, altro stile, altro racconto, Il mostro[2].
Siamo sempre in una città contemporanea, ma questa volta qualche dettaglio in più è sufficiente a caratterizzare l’ambiente, abbandonando così l’aria fiabesca che pure avvolgeva il Babau. Una mansarda, una porta, un telone. C’è una servetta, Ghitta Freilaber, anche qui con nome e cognome come in un qualsiasi reportage, che ha avuto uno strano incontro con qualcosa di informe e mostruoso nella soffitta del condominio. Non sono molto lontani gli articoli di cronaca nera scritti da Buzzati sul Corriere: misteriosi delitti nelle case di ringhiera di Milano, la stessa oscurità, la stessa reticenza dei vicini. Il mostro non ha nome, non ha perché. Anzi, sembra che nessuno voglia averci niente a che fare, al punto da fingere che non esista. Nell’angoscia crescente, il curioso caso diventa un’ansiogena critica alle convenzioni borghesi, senza mai però soddisfare il lettore con qualsiasi chiarimento.
Sono quindi i piccoli dettagli, le variazioni sul tema, a rendere speciali racconti in apparenza così semplici e così poco originali. La stessa allucinazione urbana, declinata e dosata più verso la fiaba o verso la cronaca, può arrivare a due risultati completamente diversi, dimostrando la grandissima abilità di un narratore che lavora con materiali apparentemente “poveri” per stile e originalità, ma che si aggira con sicurezza da funambolo sul margine dell’abisso delle insicurezze umane, rivelando con mostri e apparizioni le nostre paure più oscure.