Esiste un luogo in America dalla storia un po’ particolare; in realtà quest’affermazione vuol dire tutto e non vuol dire niente perché di posti con storie atipiche in giro per il mondo ce ne sono tanti. L’America è infatti un luogo talmente vasto [...]
C’è un punto in cui
Martin Eden si guadagna il cuore dei lettori. La speciale fratellanza con tutti
coloro che riflettono con passione su come si scrive e su come nascono le
storie. Su quale sia il punto, la posta in gioco, su come si fanno le magie con
le parole.
Succede al capitolo quattordici,
quando Martin, dopo mesi di solitario, disordinato e intensissimo studio, si
decide a condividere finalmente con Ruth i suoi racconti. Le storie che ha
scritto e inviato a decine di editori, senza ottenere risposta, nella
convinzione di avere il talento necessario a muoversi in quella immensa «sala
delle carte di una nave» che è la conoscenza.
Una scena del film Martin Eden, liberamente tratto dall’omonimo libro di Jack London (foto 01Distribution)
Ruth è una ragazza di
buona famiglia, appena laureata in lettere, totalmente all’oscuro delle cose
del mondo. Lui è un rozzo marinaio che da lei, e per amore di lei, ha appreso
tutto. I rudimenti della grammatica, le norme del galateo, il linguaggio della
musica e persino l’igiene personale. Per Ruth ha imparato di nuovo a camminare,
a vestirsi, ad ascoltare.
Sa di non aver
scritto un capolavoro, ma quello che spera è che lei senta.
«Non so cosa penserà di questo» disse Martin scusandosi. «È un racconto divertente. Ho paura di aver voluto andare oltre le mie possibilità ma le mie intenzioni erano buone. Non faccia caso ai particolari, veda se riesce a sentire la grande cosa, l’anima del racconto. È grande ed è vera anche se, molto probabilmente, non sono riuscito a renderla in maniera comprensibile».
La condivisione non dà i frutti sperati. Ruth, nel timore di ferirlo, si nasconde dietro apprezzamenti tiepidi e qualche critica alla debolezza formale del testo. Poi arriva il giudizio. È troppo lungo, gli dice. Troppo pieno di cose che non c’entrano nulla. Martin se ne dispiace ma incassa. Dopotutto è una piccola conferma di ciò che pensa già da qualche tempo. Vuoi vedere che gli editori, gli scrittori e i lettori hanno paura del mondo? Ruth ha studiato il greco antico ma non sa nulla della vita, della bellezza di scorgere «i santi nella melma». 1
La «grande cosa»,
quella che Ruth non sente perché è imbevuta di morale borghese e perché giudica
sulla base di una generica idea di buongusto e secondo parametri estrinseci
(cioè la povertà di Martin), è quella che in tutte le epoche parla alle anime
che grattano con ostinazione la scorza che ricopre le cose e le persone. È l’esclusiva
preziosa di chi si mette in ascolto, in contemplazione del mondo e che non
cessa mai di sollevare interrogativi. È la forza che pervade tutto ed è allo
stesso tempo ciò che Martin Eden vuole disperatamente comunicare: la sua
visione del mondo. Magari cruda, a tratti violenta, indigesta, selvaggia, ma la
sua.
È una visione del mondo che contiene una tale urgenza di essere comunicata che esce fuori come una valanga. Sotto forma di saggio, di articolo, di reportage e, ovviamente, di racconti. Racconti di viaggio, di sopravvivenza, di confronto all’ultimo sangue con la natura, di lotta con gli istinti e con il selvaggio. Quella wilderness che è l’universo d’elezione di Jack London, il creatore di Martin Eden.
Jack London e il successo dei racconti
Il Klondike durante la corsa all’oro (1898). Regione in cui London ambienta diverse storie. Public Archives C8797/Library and Archives Canada
Si è molto scritto
della sovrapposizione tra il personaggio Martin Eden e il suo autore Jack
London. In effetti Martin è, in parte, un alter ego del suo creatore ma, come
sempre accade nelle opere metà tra romanzo di formazione e pamphlet, non
comprende appieno l’esistenza del suo autore. Più che un alter ego, Martin Eden
è piuttosto un Frankenstein di idee.
Il romanzo fu scritto tra l’estate del 1907 e il febbraio del 1908, venne pubblicato a puntate sulla rivista Pacific Monthly e poi in volume da The Macmillan Company nel 1909. È ancora oggi un testo potente in cui la denuncia della «mediocrità senza amore» tipica della borghesia americana si mescola con la narrazione della malattia della mente che prese lo stesso London quando arrivò il grande successo di pubblico. 2
Protagonisti di quel successo furono in larga parte i racconti, pagati molto bene dalle riviste. Storie che ripercorrevano le avventure dei cercatori d’oro (come quelle che London stesso aveva vissuto nel Klondike), dei marinai in giro per il mondo, degli uomini che rischiavano la vita in paradisi insidiosi e che spesso la perdevano nel tentativo di sfidare le leggi della natura. Erano storie allo stesso tempo americanissime e non, la cui forza stava (e sta ancora oggi) nella «grande cosa» sintetizzata da Martin Eden.
Un misto di avventura, erudizione e ironia feroce che (a differenza di quanto pensano le varie Ruth in giro per il globo) si sente sempre tra le righe. C’è nelle primissime prove di scrittura come Le mille e una morte3, quando London appena ventenne gira gli Stati Uniti per trovare la sua strada e uccidere simbolicamente il fantasma di suo padre (che abbandonò la madre quando seppe che era incinta e non riconobbe mai Jack).
C’è in Bâtard, che nelle intenzioni di London
doveva fare coppia con Il richiamo della
foresta, in cui uomo e cane lupo lottano in uno scontro incredibilmente
crudo. E c’è in quello che è considerato uno dei racconti più belli di London: Allestire un fuoco. Un racconto che
tiene insieme il magnetismo tipico delle storie raccontate attorno a un fuoco
(appunto), l’inferiorità umana di fronte alla grandezza misteriosa della natura
e degli animali, l’inutilità dell’erudizione quando si scontra con la wilderness, l’inevitabile e impari
confronto con tutto ciò che non è io. Le
leggi impietose della lotta per la sopravvivenza.
La vera conoscenza: a cosa serve accendere un fuoco
Tutto questo, a vari
livelli, si trova in London e nei suoi racconti. Leggerli oggi vuol dire
immergersi in un’arena in cui tutto è all’apparenza essenziale, ridotto ai
termini del primitivo, ma tutto è allo stesso tempo oggetto di ricerca e di
scoperta. Come una porta che può spalancarsi all’improvviso su altri mari da
navigare. La forza della prosa, tra le più incisive della letteratura
americana, si sposa con la ricerca esistenziale, con la conoscenza vista come
àncora di salvezza e di scoperta di sé. Una conoscenza che è allo stesso tempo capacità pratica di accendere un
fuoco e sensibilità di capire perché
quel fuoco ti serve, chi sei tu in confronto a quel fuoco, che senso hai.
Cosa sia questa
sensibilità lo spiega proprio la voce narrante-Jack London, che alla seconda
paginetta di Allestire un fuoco ci fa
dare una sbirciatina alla «grande cosa» che sta sotto scorza di ciò che è
visibile a tutti:
Ma tutto questo – la misteriosa, sterminata, filiforme pista, l’assenza del sole in cielo, il freddo spaventoso, e la stranezza, l’arcano dell’insieme – non aveva effetto sull’uomo. E non perché vi fosse ormai abituato. Era nuovo del posto, un chechaquo, e quello era il suo primo inverno. Il guaio è che era privo di immaginazione. Nelle cose della vita era sveglio, e sempre pronto, ma soltanto nelle cose, non nel loro significato (…) Quaranta gradi sotto zero per lui erano né più né meno quaranta gradi sotto zero. Che potessero celare qualcos’altro era un pensiero che non lo aveva mai sfiorato neanche da lontano.
Come a dire, è
inutile fare cose se non se ne comprende il senso. È come vivere a metà, o come
non vivere affatto. E allora che senso ha? Sarebbe come avere un corpo ma non
percepirne la presenza nello spazio circostante.
Ed ecco allora che in
un percorso circolare torna in mente Martin Eden nel foyer di un teatro. Mentre
con gli occhi cerca la sua Ruth in mezzo a una folla che non gli interessa,
riflette sulla sua posizione. Ricorda di avere sempre avuto «una vita segreta
nella sua mente» e di aver sempre desiderato una persona con cui condividere i
suoi «pensieri nascosti». Poi dice a se stesso anche un’altra cosa: «se la vita
aveva per lui un significato più elevato, allora era giusto chiedere di più
alla vita».
È il punto in cui Martin prende coscienza della decisione di elevarsi, di raccontare la sua visione, «la grande cosa». Il momento in cui decide che la conoscenza gli servirà per realizzare se stesso e unire i puntini della sua esistenza. Martin ha sempre visto sotto la scorza. Si è sempre interrogato sul senso del mondo. Fa parte di quelli per i quali quaranta gradi sotto zero non sono solo quaranta gradi sotto zero, ma un’occasione per sentirsi vivo. Un corpo pulsante che lotta contro il gelo e che esiste per uno scopo.
Martin ha
immaginazione, conoscenza e sensibilità. E vuole scrivere storie.
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«Nostalgia. Ha a che fare con il dolore, no?». «Sì. Tipo il dolore di non poter più tornare indietro». «Certo che si può. Basta ricordare». «Io però ho una pessima memoria. Forse è per questo che ho bisogno degli oggetti».[1]
Spesso, dopo un periodo di letture molto diverse, mi capita di avere un particolare tipo di smania, un bisogno da dover soddisfare per sentirmi di nuovo a mio agio. È un richiamo che percepisco solo per quelle cose davvero affini a me e familiari al mio essere, e quando si manifesta mi è impossibile non cercare rifugio nella letteratura americana, specie in questo anno per me ancora più americano del solito. Ed è con La sicurezza degli oggetti di A. M. Homes, la prima raccolta dell’esponente femminile del postmodernismo statunitense, che ho ritrovato ciò che cercavo e che in questi mesi avevo temporaneamente messo da parte.
Nel buio della sala Paul ed Elaine si innamorano. Si innamorano non tanto l’uno dell’altra, quella è acqua passata, ma dell’idea di essere innamorati, di essere così attratti da qualcuno. Lei gli appoggia la testa sulla spalla e lui non le dice che gli si indolenzisce il braccio con cui gioca a tennis. Dopo il film passeggiano lungo la via principale. Paul ha le mani in tasca e Elaine si tiene le braccia strette intorno al petto come se si stesse proteggendo da qualcosa. È come se nella sala buia del cinema si fossero giurati amore per tutta la settimana, ma fuori, nell’aria fresca della sera, nessuno dei due è sicuro che sia fattibile.[2]
È una sensazione nota: significa ripercorrere quelle situazioni che già hanno saputo raccontare molti grandi autori prima, basti pensare a Yates con Revolutionary Road, o a Dubus in Non abitiamo più qui, o anche ad alcuni dei racconti di Cheever (di cui ho scritto qui), opere in cui la realtà viene dissezionata e analizzata per rivelare i segreti che si celano dietro perbenismo e perfezione, e per mostrare quel divario tra ciò che pubblicamente appare e ciò che privatamente è.
La Homes sembra voler ripartire da questo, riceve il testimone e rilancia, ma è proprio nel suo rilancio che si crea un punto di rottura con tutto ciò che l’ha preceduta, e rende nuovo e interessante un tema già trito.
Il suo intento infatti è smascherare non solo le ipocrisie, andando a frantumare gli ideali del sogno americano, ma anche quello di urlare, talvolta anche in modo osceno, tutto ciò che nessuno avrebbe il coraggio di dire ad alta voce, e per farlo usa scene disturbanti, spesso da un punto di vista maschile (tanto da far nascere una domanda sul motivo dell’utilizzo delle sole iniziali del proprio nome).
A rendere inoltre la scrittura della statunitense davvero particolare è una commistione di elementi all’apparenza molto diversi: un lessico semplice e asettico e continue immagini surreali che vanno a braccetto con un atteggiamento provocatorio e volutamente dissacrante.
Elaine non dice niente. È troppo complicato. Gli ha lasciato prendere le fettuccine perché lui non le piace, e non le importa quello che fa e spera che muoia presto. Gli ha lasciato prendere le fettuccine perché lo ama e non riesce a negargli i suoi piaceri ed è fermamente decisa a non fare la parte di sua madre.[3]
In questi racconti, la sensazione di spiare realtà private dalle finestre lascia spazio ad un fatto del tutto diverso: non stiamo spiando, ma siamo costretti a vedere e sapere cose che con ogni probabilità vorremmo ignorare, e per farlo la Homes “usa” protagonisti difficili da gestire, con pensieri tanto inquietanti quanto lucidi. Si tratta di genitori immaturi, bambini che non vorrebbero essere abbandonati dal proprio rapitore psicopatico, mariti disadattati, adolescenti chiuse nell’armadio della biancheria occupate a scrivere lettere d’amore ai propri piedi, tredicenni che hanno rapporti non platonici con la bambola della propria sorella.
Sto cercando di trovare qualche parte di me stessa che sia veramente me stessa, una parte che sarei disposta a portare come un gioiello intorno al collo. Il piede. Io amo il mio piede. Se dovessi mandare una parte di me a rappresentarmi in qualche altro Paese, o in qualche altro modo, mi amputerei il piede e lo spedirei avvolto in fazzoletti di carta bianchi su un cuscino con ricami di seta. Manderei il mio piede perché il mio piede sono io, sono io più di quanto voglia ammettere. Ci sono anche altre parti di me che non sono male – le mani, gli occhi, la bocca – ma dopo qualche mese potrei guardarle e non vedere la verità. Dopo qualche anno potrei guardarle e pensare a qualcun altro. Ma il piede è mio, tutto mio, è la cosa più autentica. È impossibile confondersi. Lo guardo; mi tolgo il calzino e lui grida il mio nome.[4]
Forse sarebbe più corretto dire che il centro dei racconti della Homes sono proprio i pensieri (e talvolta, le azioni): le storie si piegano alla volontà di portare alla luce del sole il fatto che siamo tutti vittime della nostra follia, che tutti quanti abbiamo idee o volontà che desideriamo tenere nascoste e che, a modo proprio, ciascuno è un matto abitante del proprio inferno, inconsapevole di esserlo.
Gli oggetti esistono per ricordarci cosa abbiamo perso, e l’americanità dei primi anni ’90 ne è soltanto la giusta cornice.
Tutti hanno il telefono e la televisione, e una persona su due ha il videoregistratore e la lavastoviglie. E il forno a microonde. Non vuol dire che siano più intelligenti. Se ti metti ad accumulare oggetti finisci nei guai. Cominci a pensare che a quella roba ci tieni veramente e ti dimentichi che sono solo oggetti, oggetti fabbricati dall’uomo. Diventano una parte di te e poi quando non ce li hai più ti sembra di essere sparito pure tu. Quando hai della roba e a un certo punto la perdi è come se scomparissi anche tu.[5]
Foto di Jakob Owens su Unsplash
È proprio il titolo della raccolta ad anticipare l’ironia tragica che fa da sfondo ai racconti: la sbandierata sicurezza che dovrebbero dare gli oggetti è fittizia e ingannatrice, ogni oggetto è soltanto il riflesso di una mancanza che crea un campionario di perdite, contrapposto a ciò che sarebbe sensato trovare in un contesto così artificiosamente pieno.
Penso a un ladro. Arriverebbe sulla veranda, girerebbe la maniglia ed entrerebbe in casa mia. Prenderebbe delle cose: il televisore, il videoregistratore, l’argenteria, i miei gioielli, cose che ho raccolto in tutti questi anni, raccolto come simboli del mio matrimonio, cose che a volte sembra che siano esse stesse il mio matrimonio. Io lo aiuterei a riempire i sacchi. Prenderebbe le cose che fanno di me quella che sono, e a quel punto potrei essere un’altra persona.[6]
Si tratta di assenze identitarie, ma anche sentimentali e comunicative. È un mondo arido, superficiale, in cui mancano rapporti sani e conversazioni costruttive, sentite, e tutte quelle cose che nobilitano l’individuo, prima ancora che la coppia o la famiglia, e in cui le assenze si sono sedimentate in tanti calchi, uno per ogni storia: tante forme vuote che sono l’esatta copia di ciò che vogliono imitare ma in cui manca l’aspetto principale, l’empatia.
«Be’?» «Be’ fa la pecora», disse lei. Era quello che diceva sempre quando non restava niente da dire.[7]
Tre racconti, Adulti da soli, In cerca di Jhonny e Esther in the night, valgono da soli l’intera raccolta, ma l’ultimo, Una vera bambola, è probabilmente quello più scioccante per la sua capacità di farci scontrare a tutta velocità con un tir carico di parole e immagini fastidiose, mettendoci a disagio o in imbarazzo e costringendoci a leggere cose che non vorremmo dover sapere, ma fa tutto ciò in modo così surreale che smettere di leggere è francamente impensabile: tale è il potere della letteratura, e tale è il potere di un racconto come questo, che David Foster Wallace era solito far leggere ai propri studenti di letteratura inglese.
Wallace, infatti, di Una vera bambola diceva:
È un racconto molto intelligente, ma in superficie è anche molto perverso, malato, avvincente e veramente toccante per una classe di diciottenni che cinque o sei anni fa o giocavano ancora con le bambole o facevano i sadici con le sorelle. Quando vedo quei ragazzi scoprire che leggere narrativa di qualità può essere difficile, ma a volte ripaga lo sforzo, e che quel tipo di lettura riesce a darti qualcosa che non può darti nient’altro, quando li vedo rendersi conto di questo fatto, è una cosa fichissima.[8]
Be’ fa la pecora.
[1] Tratto da Tutto quello che non ricordo di Jonas Hassen Khemiri, Iperborea Editore. [2] Tratto da “Adulti da soli”, in La sicurezza degli oggetti di A. M. Homes. Dalla stessa raccolta sono prese le citazioni seguenti. [3] Sempre da “Adulti da soli”. [4] In “Con affetto, tua”. [5] In “In cerca di Johnny”. [6] In “Esther in the night”. [7] In “Acchiappare i proiettili al volo”. [8] Tratto da Un antidoto contro la solitudine, di David Foster Wallace.
«Help America Love Again». È con questo auspicio che Viet Thanh Nguyen, scrittore vietnamita naturalizzato americano, chiude l’introduzione a It occurs to me that I’m America[1], la raccolta di racconti nata come risposta ad uno degli eventi più controversi avvenuti nella storia recente degli Stati Uniti: l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti.
«Per me la vita è stata piena di emozioni.
E l’unico modo che avevo per comprenderla
era attraverso la narrazione».[1]
John Cheever
Avvicinarsi alle opere giovanili di un autore che già si è amato e apprezzato è sempre un’esperienza particolare. Quando poi l’autore in questione è John Cheever, spesso trascurato senza motivo, l’unico rischio reale che si corre è quello di non rendergli sufficiente giustizia con le parole. Nel nostro caso la raccolta Birra scura e cipolle dolci, edita da Racconti edizioni con traduzione di Leonardo G. Luccone, di parole se ne meriterebbe tante, o perlomeno se ne meriterebbe di giuste, perché i racconti contenuti sono come tante piccole briciole di pane da seguire per poter tracciare il percorso letterario dell’autore e ritrovare sotto lo sguardo, seppur allo stato embrionale, tutti quei temi che, disseminati qua e là come indizi, verranno ripresi negli anni e approfonditi.
Scritti tra il 1931 e il 1942, eccezion fatta per L’opportunità, datato 1949, i racconti descrivono la realtà della provincia americana nel periodo della Grande Depressione, a cavallo tra le due guerre mondiali. Cheever non ha che vent’anni e ancora non è diventato quel cesellatore di sentimenti e stati d’animo che tutti conosciamo, caratteristica per cui verrà in seguito soprannominato “The Cechov of the Suburbs”, ma è già capace di tratteggiare una depressione che con un devastante effetto domino contagia tutto, andandosi a focalizzare sulle ipocrisie della middle class, sulle azioni e sui comportamenti dell’uomo comune quando ogni riferimento economico viene meno e quando a vacillare è un’intera comunità, e si ritrova da solo a fronteggiare una crisi tanto sociale quanto psicologica, compresso tra i propri desideri e i diktat della società.
L’incipit del primo racconto Fall river, in tal senso è molto significativo:
Erano già due anni che la gente lo sapeva, ma fu durante quell’inverno che divenne lampante. Le fabbriche si erano fermate e le grandi ruote si stagliavano immobili contro i soffitti. I telai, come macchinari abbandonati in un vecchio teatro dell’opera, erano lì sul pavimento a impedire il passaggio. Per terra, sulle travi e sugli scintillanti fianchi d’acciaio il velo di fili non ancora tessuti era ricoperto di polvere come neve vecchia.
L’eco di Hemingway, suo grande maestro, è facilmente individuabile. Le frasi sono semplici così come le trame dei racconti (famosa la citazione di Cheever: «Io non lavoro con la trama, lavoro con l’intuizione, la percezione, i sogni e i concetti. La trama implica la narrazione e un sacco di stronzate»[2]), ma per quanto questo passo sia poetico e funzionale ad introdurre quello che è il background del racconto, la cosa che subito salta agli occhi è quanto sia anche estremamente attuale, contemporaneo. La stessa sensazione la si avverte leggendo uno dei racconti successivi, Di passaggio:
“Tu hai conosciuto solo cosa vuol dire essere poveri, nient’altro. Ora hai probabilmente imparato che” disse, “non c’è potere più forte del denaro – incommensurabilmente più forte, per essere romantici, dell’amore o della morte – e tu, in questo mondo marcio, non sarai mai ricco e il potere non lo avrai mai. Il successo dipende dalla tua generazione, perché se c’è qualcuno che ha il diritto di chiedere giustizia o vendetta questi sono i giovani. E ce ne sono venti milioni” disse, “venti milioni di persone della tua età che si girano i pollici in ristoranti, agenzie di collocamento, stanze ammobiliate, pullman o, peggio ancora, a casa ad ascoltare la radio e leggere e rileggere i giornali. La giovinezza è preziosa e irritrattabile. E nessun uomo, qualsiasi sia il suo coraggio, può restare con le mani in mano e vivere giorno dopo giorno una vita che non ha nulla di intenso e giusto. Ci sono venti milioni di giovani. Hai idea di quanti sono?”.
È incredibile pensare che questo racconto risalga al 1936: sembra infatti che Cheever parli della nostra generazione, alla nostra generazione, ma, al contrario di quello che si potrebbe dedurre da questo estratto, l’autore non è interessato tanto alla questione politica, quanto ad evidenziare come in un tessuto sociale in crisi la prima cosa a sfaldarsi sia il concetto di comunità, e quanto l’uomo si ritrovi solo nella propria condizione di individuo, diviso tra le proprie paure e la necessità di nascondere il proprio disagio agli occhi degli altri.
Nello stesso racconto, infatti, la madre di famiglia, di fronte alla propria rovina economica parla così: «Non siamo che poveri peccatori, credo, e tutto ciò che abbiamo e tutto ciò che conosciamo e amiamo e ricordiamo è esposto alla polvere e alla ruggine».
Nei racconti a seguire, posteriori anche di anni, l’evoluzione dello scrittore è palpabile. Si incontrano frasi dal respiro più ampio, lo stile e le atmosfere si rifanno a quelle di F. S. Fitzgerald, ma rimane una costante la sensibilità che dimostra andando a tratteggiare, seppur in maniera acerba, quelli che saranno i temi cardine delle sue opere, specchio di quei dilemmi esistenziali che lo perseguiteranno per tutta la vita.
I protagonisti di queste storie infatti sembrano essere, più che i personaggi stessi, tutti quegli impulsi e tutti quei desideri che si nascondono abitualmente dietro i comportamenti più comuni: l’inaridimento di una classe sociale attaccata con le unghie e con i denti a un qualcosa che è stato e che non è più (Raduno serale), gli amori della fugace durata di una corsa di cavalli (La moglie giovane), i rapporti corrotti dal vizio e da un peccato capace di rendere soli anche nel momento di maggiore felicità (Saratoga), matrimoni falliti che vengono riesumati al solo scopo di ubbidire alle convenzioni sociali imposte (Pranzo di famiglia).
In SaratogaJohn Cheever dà voce a quelle inclinazioni che vengono messe invano a tacere in nome di una normalità che appare universalmente condivisa:
E malgrado non si fosse mai sforzato di cambiare vita, non faceva che pensare ai mondi migliori in cui vivevano gli altri uomini, alle case in campagna e al posto fisso, alle mogli e ai figli. Riusciva a vederla la casa in cui avrebbe voluto abitare un giorno. Bianca. Se la immaginava sempre bianca. Non lontana da un ruscello con le trote ma neppure troppo lontana dal mare.
Mi torna in mente una frase tratta dai suoi diari: «Forse la normalità non esiste, ma esiste qualcosa che ci va molto vicino».[3] Questo è un concetto semplice ma terribilmente importante nella vita di tutti, a cui spesso ci adeguiamo per non sentirci troppo distanti da un’idea che è astratta e che non esiste in natura, ma che in maniera più o meno inconsapevole vizia le nostre scelte e i nostri comportamenti, condannandoci ad un’esistenza di desideri polverosi e impulsi arrugginiti in cambio di quella normalità che per tutti gli altri sembra rappresentare la retta via da seguire, anche a costo di autoinfliggersi un tormento senza fine.
Questo Cheever lo sapeva bene, vittima di contraddizioni e dissidi interiori, condurrà un’esistenza in cui si vedrà come un peccatore per la consapevole incapacità di resistere ai propri impulsi e alle proprie passioni anche nei confronti di altri uomini, finendo per trincerarsi dietro la maschera del perfetto marito e padre di famiglia. Sottostando a quel conformismo borghese che disprezzerà sempre a gran voce, perché, come troviamo in un racconto scritto in età più matura, nella realtà «i John e le Mary non divorziano mai».[4]
Cheever visse quindi momenti di profonda crisi, schiacciato tra grandi amori e una solitudine alla quale sapeva non esserci rimedio, ma anche da un grande senso di inadeguatezza (non si diplomò mai) nei confronti delle proprie capacità artistiche, e quindi delle proprie opere. Cosa che traspare dalla lettura dei suoi diari. Ciononostante fu capace in vita di scrivere pagine di vera bellezza, alternando drammi umani a semplici storie felici, in virtù di una personale conoscenza di entrambe le condizioni. Un esempio di questo dualismo si può leggere in due sole righe: «Era stremata nel tentativo di separare il potere della solitudine da quello dell’amore; e si sentiva sola. E lo era».[5]
Forse sono state proprio le sue debolezze a rappresentare la sua forza creativa, e la sua profonda sensibilità a renderlo capace di trasferire su carta storie reali di gente comune, senza che si abbia mai la sensazione di leggere un qualcosa di artefatto, ma anzi di un’autenticità senza eguali.
Questi racconti sono perciò una conferma per tutti quei lettori che hanno già amato John Cheever, ma soprattutto rappresentano un buon punto di partenza per avvicinarsi ad un autore che fino ad oggi si è immeritatamente trovato in una posizione defilata nel panorama letterario.
Potrei addurre mille motivazioni a sostegno di questa tesi, ma quella fondamentale è che un’anima capace di mettersi così totalmente a nudo, di essere «così sentimentale senza ricatti emotivi»[6], ha il diritto di essere riscoperta e di essere assaporata fino in fondo.
[1] Tratto da Birra scura e cipolle dolci, postfazione di George W. Hunt S.J [2] Tratto da Birra scura e cipolle dolci, prefazione di Christian Raimo [3] Tratto da Una specie di solitudine di John Cheever [4] La moglie di Cheever si chiamava davvero Mary [5] Tratto da Cronache della famiglia Wapshot [6] Tratto da Birra scura e cipolle dolci, prefazione di Christian Raimo