All’ingresso del National Steinbeck Center, nella città di Salinas, in California, c’è un blocco di pietra che riporta una citazione. È un passaggio di una lettera che John Steinbeck scrisse a George Sumner Albee nel 1933:
I think I would like to write the story of this whole valley, of all the little towns and all the farms and the ranches in the wilder hills. I can see how I would like to do it so that it would be the valley of the world.
«Penso che mi piacerebbe scrivere la storia di quest’intera valle, […] mi piacerebbe farlo così che rappresentasse la valle del mondo». Nel 1933 Steinbeck non era ancora famoso, non aveva neanche il sentore di quel successo che trent’anni dopo gli sarebbe valso il Nobel per la letteratura, ma aveva già pubblicato due libri: La Santa Rossa (1929) e I pascoli del cielo (1932). I pascoli del cielo è una raccolta di racconti, una serie di ritratti di alcuni personaggi tenuti insieme dal luogo in cui sono ambientati: una valle non ben identificata (potrebbe essere Mount Toro), ma sempre compresa entro i confini di Salinas, dove Steinbeck era nato, nel 1902, ha studiato e ha vissuto. I Pascoli è il primo di tanti libri che Steinbeck ambienterà a Salinas, e i racconti, anche se un po’ acerbi, troppo manifesti nel significato che vogliono esprimere, si leggono con piacere. Nel prologo, la valle è descritta in modo così incantevole che per il fortunato caporale ha tutto il fascino di un’apparizione:
Quando, sullo stremato cavallo, raggiunse la vetta del ciglione, si fermò stupito per lo spettacolo che gli si aprì sotto gli occhi. Una lunga valle si stendeva entro un anello di colline che la proteggevano dalla nebbia e dai venti. Disseminata di querce, era coperta di verde pastura e formicolava di cervi. Al cospetto di tanta serena bellezza il caporale si sentì commosso. […] “Madre di Dio!” mormorò. “Questi sono i verdi pascoli del Cielo ai quali il Signore ci conduce!”
Steinbeck e l’Affair Salinas

Oggi, Salinas, e più in generale la contea di Monterey, è una celebrazione itinerante di John Steinbeck. Ogni anno, diverse associazioni organizzano eventi, spettacoli e opere teatrali che spolverano il mito e allettano il turista. Non a caso un busto di bronzo di Steinbeck si trova al centro della Steinbeck Plaza “with gorgeous views of the Monterey Bay as its backdrop”. Una statua dello scrittore troneggia dal punto più alto del Cannery Row Monument, un’opera che riunisce nove personalità che hanno avuto un ruolo decisivo nella storia del paese. La casa in cui Steinbeck trascorse l’infanzia, al numero 132 di Central Avenue, ha un rinnovato profilo vittoriano e nuove e più garbate tonalità pastello. Un’organizzazione senza scopo di lucro acquistò la casa dopo una lunga serie di passaggi di proprietà, a partire della morte del padre dello scrittore nel 1935, e ne fece un ristorante.
Salinas sembra aver dimenticato che Steinbeck usò anche parole non troppo felici per descrivere i suoi abitanti. Ne parlò in modo critico già nel saggio del 1955 Always something to do in Salinas, un pezzo commissionatogli dall’Holiday Magazine. Ancor più duro fu in L’Affaire Lettuceburg, un manoscritto che distrusse egli stesso. Il suo intento era quello di scrivere un’importante opera letteraria ma la bozza che aveva di fronte gli sembrava una prova giornalistica o, peggio, un testo di propaganda. Fu una sconfitta, ma anche uno stimolo, perché proprio L’Affaire diede a Steinbeck le basi per concepire Furore [1], il suo romanzo più famoso: la storia della famiglia Joad che, insieme ad altri mezzadri, è costretta a lasciare l’Oklahoma per raggiungere l’Ovest. La California è la terra promessa; Barstow, poi il deserto, le montagne, e ancora una valle, quella valle:
[…] un valico, e sotto c’è la bella vallata, sotto ci sono i vigneti e gli aranceti e le piccole case, e in lontananza una città. E… oh, buon Dio, è finita.
Steinbeck lasciò Salinas perché il suo libro divenne motivo di attrito tra i proprietari e i contadini, e un malumore diffuso lo costrinse a partire. Persino la sorella Mary si allontanò da lui perché non era d’accordo con sue le idee politiche. I proprietari accusarono Steinbeck di essere stati mal rappresentati, addirittura fraintesi nei loro atteggiamenti nei confronti degli immigrati; gli abitanti dell’Oklahoma dissero che lo scrittore aveva esasperato gli effetti della Dust Bowl (la tempesta di sabbia che colpì Stati Uniti e Canada nel 1930, l’evento scatenante della storia). È un bel libro, secondo me, interessante sotto più punti di vista: è Steinbeck al suo meglio e in tutte sue sfaccettature; paragrafi densi di sentimento si alternano ad analisi puntuali sulle dinamiche del lavoro, sull’idea di libertà e il concetto di fratellanza. Lo sguardo è lucido e compassionevole allo stesso tempo.
Steinbeck trascorse l’ultima parte della sua vita a New York. Morì il 20 dicembre del 1968. Una volta, però, aveva confessato a sua moglie che nessuno dovrebbe essere sepolto in una terra straniera, così le sue ceneri vennero riconsegnate alla città d’origine e ora si trovano al Garden of Memories Memorial Park.
Steinbeck e “Doc” Ricketts
Il National Steinbeck Center è stato inaugurato nel 1998 e si trova nella parte storica della città. Nei pressi del Centro c’è un murale che riprende il volto di Steinbeck e una serie di elementi dei suoi romanzi; è un’opera collettiva realizzata diversi anni fa da un gruppo di giovani pittori. Ci sono altri due murales in giro per la città: uno è stato progettato da Linda Galusha, si trova al 119 di East Alisal Street, e mostra il fantasma di Steinbeck circondato da banconote da un dollaro. L’altro è più recente, del 2002, ed è un’opera di Blagojce Stojanovki: è una serie di quattro, enormi pannelli, posizionati sulla facciata del Salinas Californian Newspaper Building, al 123 West Alisal Street, che ritraggono lo scrittore con i libri e alcuni momenti topici della sua vita.
Per fortuna, non tutto ha subito un rinnovamento strutturale a vantaggio di un più accattivante splendore. C’è un edificio, a Cannery Row, che è rimasto esattamente com’era agli inizi degli anni trenta, ed è stato uno dei siti più significativi per Steinbeck. A vederlo sembra una nota stonata: una costruzione bassa fatta di listelli di legno anneriti che stride con l’aspetto delle vetrine dei negozi di souvenir. È la sede del Pacific Biological Laboratories, appartenuta al biologo marino Edward Flanders Robb Ricketts. Ricketts è stato il migliore amico di Steinbeck, l’uomo al quale lo scrittore s’ispirò per caratterizzare diversi personaggi.

Ricketts era nato a Chicago, aveva lavorato a Pacific Grove e poi si era trasferito a Monterey. I due si conobbero in una spedizione in Messico: durante il viaggio, Ricketts raccontò una storia a Steinbeck che poi diventò il romanzo La perla. Tracce di Ricketts si trovano nel protagonista di Quel fantastico giovedì, in Doc Burton del romanzo La battaglia, nel profilo di Casy in Furore, e nel Dottor Winter in La luna è tramontata. Nel 1945, Steinbeck scrisse un romanzo intitolato proprio Vicolo Cannery, con un protagonista, chiamato soltanto “il Dottore”, che riprende modi e maniere di Ricketts. Come nei Pascoli del cielo, anche la struttura di Vicolo Cannery è composta da una storia principale, che si sviluppa in orizzontale, alimentata da episodi relativi ai singoli abitanti che si relazionano capitolo dopo capitolo. La vicenda raccontata è abbastanza semplice: i ragazzi del quartiere vogliono organizzare una festa per il Dottore, intenzione che non va a buon fine, almeno la prima volta. Il luogo – il vicolo, in questo caso, eppure sempre Salinas –, è guardiano silente di ogni evento.
Il Vicolo Cannery a Monterey in California è un poema, un fetore, un rumore irritante, una qualità della luce, un tono, un’abitudine, una nostalgia, un sogno. Raccolti e sparpagliati nel Vicolo Cannery stanno scatole di latta e ferro e legno scheggiato, marciapiedi in disordine e terreni invasi dalle erbacce e mucchi di rifiuti, stabilimenti dove inscatolano le sardine coperti di lamiera ondulata, balli pubblici, ristoranti e bordelli, e piccole drogherie zeppe, e laboratori e asili notturni. I suoi abitanti sono, come disse uno una volta, “Bagasce, ruffiani, giocatori e figli di mala femmina”, e intendeva dire: tutti quanti. Se costui avesse guardato attraverso un altro spiraglio avrebbe potuto dire: “Santi e angeli e martiri e uomini di Dio”, e il significato sarebbe stato lo stesso.
Questo passo riprende l’esatta distanza dalla quale Steinbeck osservava i suoi personaggi: li raccontava, senza infarcire la narrazione di giudizi morali. Il critico Alfred Kazin scrisse che: « […] egli si era immedesimato nella vita della vallata di Salinas, trovando un certo equilibrio spirituale nel far la cronaca dei cicli di vita dei coltivatori […], immergendovisi con interesse affettuoso ed intimo per le vicende umane». In questo senso raccontare Salinas, per Steinbeck, era un po’ come interpretare la storia di ogni città: come s’intuisce nei Pascoli del cielo o nelle creature più grette che vivono nel Vicolo Cannery, come si legge nella raccolta La lunga vallata o tra le pagine di Furore, è l’attitudine dell’uomo a “fare comunità” che lo rende quello che è. È l’istinto collettivo che porta alla salvezza; anche del singolo, che nel gruppo può finalmente riuscire a trovare se stesso.
Steinbeck e tutte le valli del mondo

In una delle lettere contenute in Journal of a Novel: The East of Eden Letters [2], Steinbeck si rivolge al suo editor, Pascal Covici, e confessa: «Voglio descrivere la valle di Salinas nel dettaglio ma in modo speciale, in modo che possa esserci un sentimento vero». Steinbeck voleva che La valle dell’Eden, il romanzo che considerava la sua impresa più grande, fosse pieno di suoni, odori e colori, ma voleva anche che fosse semplice, comprensibile. L’aveva dedicato ai figli e ci teneva che loro, e con loro tutti i lettori, arrivassero a comprenderne il cuore. La valle dell’Eden è la storia di due uomini e due famiglie ma è anche, ancora una volta, la storia di un luogo:
Ricordo i nomi che da bambino davo alle erbe e ai fiori nascosti. Ricordo dove si trova il rospo e a che ora si svegliano d’estate gli uccelli – e l’odore degli alberi e delle stagioni – che aspetto aveva la gente e come camminavano; ricordo anche il loro odore. La memoria degli odori è molto tenace.
Steinbeck aveva letto i grandi classici, come Madame Bovary e Delitto e castigo, e ricordando certe esperienze di lettura diceva una cosa bellissima, ossia: «I remember them not at all as books but as things that happened to me». Quei libri erano qualcosa che gli era accaduto, come fatti personali; in qualche modo l’avevano toccato nel profondo. Ed è proprio questo che lui voleva fare, con i suoi romanzi, attraverso i suoi racconti: toccare le coscienze, con un realismo amaro e un linguaggio preso a prestito dalla gente comune.
Il messaggio centrale della Valle dell’Eden, la valle del fiume Salinas, che diventa punto nevralgico del mondo, è contenuto nella parola ebraica timshel [3], tradotta da Steinbeck come “tu puoi”. Nel romanzo, Lee fa notare ad Adam, il protagonista, che nella parola timshel c’è tutta la grandezza dell’uomo. Potrebbe essere la più importante, aggiunge, perché suggerisce una possibilità. È quella che dice «che la strada è aperta».
[1] Il titolo originale di Furore, The grapes of wrath, è un verso dell’Apocalisse (14:19-20). Steinbeck ha attinto spesso dalla Bibbia (Al Dio sconosciuto viene dagli Atti degli Apostoli, East of Eden è un verso della Genesi). Dopo la Bibbia, l’opera più “saccheggiata” dagli scrittori statunitensi del Novecento per recuperare titoli evocativi è quella di William Shakespeare.
[2] Una lettera di Steinbeck è stata tradotta da Nicola Manuppelli. Vi consiglio di leggerla perché, oltre a una serie di riflessioni sulla scrittura, tarate intorno al concetto che mettere un punto è sempre un po’ un addio, Steinbeck si diletta a immaginare su una scena tipica di lavoro redazionale; un dialogo tra editor e scrittore, scrittore e correttore di bozze.
[3] Curiosità: Nel periodo in cui Steinbeck era impegnato a scrivere La valle dell’Eden, cominciava ogni giorno di lavoro con una lettera a Pascal Covici. Costruì una scatola di legno, decorata con la parola timshel. Quando finì il romanzo, inviò la scatola al suo editor con una lettera che recitava così: «[…] Ecco, questa è la scatola. C’è dentro quasi tutto quello che ho, eppure non è piena. Ci sono dentro dolore ed eccitazione, sentimenti buoni o cattivi e pensieri cattivi e pensieri buoni – il piacere di disegnare e un po’ di disperazione e l’indescrivibile gioia della creazione. E oltre a tutto questo, in cima, tutta la gratitudine e l’amore che ho per te. E la scatola non è ancora piena» (dalla prefazione della Valle dell’Eden, Mondadori, 1994. Traduzione di Giulio De Angelis).