Su Tong è nato nel 1963, è uno scrittore cinese, vive in Cina e deve buona parte della sua notorietà occidentale alla trasposizione cinematografica del suo romanzo Mogli e concubine in Lanterne rosse di Zhang Yimou, un film del 1991. Aveva ventotto anni e ne erano passati solo un paio dalla protesta di Tienanmen. All’epoca, apprezzai molto quel film ma la letteratura cinese non aveva ancora trovato posto tra i miei scaffali. Sono passati quasi trent’anni da allora e solo di recente, quando la Cina è al centro dell’interesse mondiale per ben altre ragioni, mi è capitato di leggere i suoi Racconti fantastici pubblicati da Elliot, otto racconti permeati di elementi magici, di superstizioni e tradizioni, di misticismo e riti antichi.

Tra questi, uno mi ha colpito in modo particolare perché coinvolge il lettore al punto tale da fargli desiderare di entrare nella storia pur di salvare l’ingenuo protagonista della trama, perché chi legge sa già dopo poche righe che andrà a finire male, molto male, quindi, vorrebbe aiutarlo, urlandogli non lo fare! oppure pregandolo di non insistere, di non chiedere, di non andare oltre… ma il protagonista si ostinerà al pari dell’attrice di Psycho che entra tutte le volte in quella maledetta doccia, ignara della sorte che la attende, e non ci sarà verso di dissuadere nessuno dei due.
Quando si prova questo tipo di coinvolgimento, si è sempre di fronte a un piccolo miracolo, un indizio del talento dell’autore, soprattutto se si pensa che – come sosteneva Vonnegut in Cronosisma – ogni racconto altro non è se non una serie di bizzarre combinazioni su righe orizzontali di ventisei simboli fonetici, dieci numeri e circa otto segni di interpunzione. Mi era successo leggendo La lotteria di Shirley Jackson e, ancora prima, Nella colonia penale di Kafka. Mi è capitato quando meno me l’aspettavo, leggendo Il compimento del rito, il primo racconto di questa raccolta.
«Lo studioso di folclore era arrivato al villaggio di Otto Pini l’inverno dell’anno scorso. Saltato giù dalla corriera con una borsa da viaggio rettangolare in mano, si era incamminato verso nord-ovest. Sulla strada si posavano leggeri fiocchi di neve, che in lontananza parevano azzurri, le linee serpeggianti dei fili dell’alta tensione e dei piloni tagliavano la strada in riquadri eguali; di tanto in tanto, d’improvviso e con regolarità, stormi di uccelli volavano rasente alle teste dei viandanti. Lo studioso si diresse verso il villaggio di Otto Pini e, nei miei ricordi, anche lui diventa una parte del paesaggio.»
Dall’incipit è già chiaro che non sapremo mai il nome dello studioso né molto altro sul suo conto, intuiamo da subito anche che rimarrà un estraneo per gli abitanti del villaggio, fino alla fine del racconto, perché non si avverte nessuna emozione nel ricordo dell’io narrante, solo un freddo resoconto di ciò che un anno prima era accaduto. Lo studioso, entrando nel villaggio, incontrerà per primo un vecchio riparatore di giare che, dopo un breve scambio di saluti, gli chiederà cosa lo porta lì; lui risponderà di essere alla ricerca di storie popolari e dopo un breve dialogo, l’artigiano gli consiglierà di chiedere in giro di un certo Wu Lin. Naturalmente, mezza pagina dopo, il lettore saprà che nessun abitante del villaggio, neppure tra i più vecchi, ricorda quel nome e questo crea una prima punta di inquietudine in lui, poi alimentata da uno di questi che spaventato griderà:
«Ora ricordo, Wu Lin, Wu Lin è un demone, è morto una sessantina d’anni fa, era stato scelto per impersonare l’Uomo Demone!»
Perché mai – si chiede il lettore – il vecchio che riparava giare avrebbe suggerito allo studioso di cercare Wu Lin, un morto? La tensione nel racconto comincia a salire, lo studioso scoprirà di lì a poco un’antica usanza del villaggio Otto Pini, quella dell’Uomo Demone, e si convincerà che raccogliere testimonianze su quella cerimonia sarebbe stata la parte più importante della sua ricerca. Ed ecco che il lettore vorrebbe, invece, suggerire allo studioso di saltare sulla prima corriera che passa per tornarsene a casa sua. Ma figuriamoci, non solo non ascolterà il suo consiglio, ma farà esattamente il contrario.
«Pensò che il modo migliore per descrivere l’usanza era di rivivere la scena del sorteggio così come si svolgeva un tempo»
I vecchi del villaggio gli avevano infatti spiegato che l’Uomo demone, estratto a sorte tra gli abitanti del villaggio, veniva offerto allo spirito degli antenati (a questo punto, il pensiero del lettore vola subito verso La Lotteria della Jackson e l’apprensione diventa sempre maggiore). Il rito veniva compiuto ogni tre anni. Nel giorno stabilito, tutti gli abitanti si riunivano nel tempio degli antenati, sull’altare delle offerte ognuno pescava un biglietto di carta argentata da un mucchio e lo apriva davanti al capo del villaggio; soltanto su uno era tracciato il simbolo magico del demone, colui che lo avrebbe estratto sarebbe diventato l’Uomo Demone, sarebbe stato avvolto in un drappo bianco, posto all’interno di un’enorme giara e battuto a morte a colpi di bastone.
Si capisce subito che l’aver chiesto di rivivere l’usanza è da stolti. I vecchi non avrebbero voluto perché era stata abolita e riesumarla significava andare contro la legge, ma Su Tong a questo punto sviluppa la trama secondo quanto il lettore spera e per un attimo lo distrae, riportando la perplessità dello studioso di fronte alla giara che verrà usata per il finto Uomo Demone mentre si domanda – forse non tutto è perduto – perché mai il vecchio artigiano gli avesse detto di cercare un morto per farsi raccontare delle storie, forse era stato solo uno scherzo inutile e di cattivo gusto. L’estrazione avrà luogo lo stesso, secondo l’antico rito, e Su Tong lascerà che lo studioso partecipi come tutti gli abitanti del villaggio e che sia lui ad estrarre il biglietto segnato col simbolo del demone.
«Il Demone. Il Demone è qui. Lo studioso rise, la testa gli girava leggermente, ma pensò che non ce ne fosse motivo, allora ridendo si rivolse alla folla vociante e disse: Questa è bella, sono io il Demone.»
Senza indugio, lo studioso viene preso da quattro uomini, avvolto in un drappo bianco e portato vicino alla giara – e a questo punto il lettore, sempre più inquieto, rivolge mentalmente allo studioso un te-l’avevo-detto che non riesce più a trattenere.
«D’un tratto gridò: No! Lasciatemi, lasciatemi subito.»
Quelli lo lasciano, lui si libera di drappo e bende e grida a pieni polmoni che si tratta di una finzione, che non è reale e che quindi dovevano lasciarlo in pace. Uno dei vecchi replica che lo era certamente, altrimenti lui sarebbe già stato messo dentro una giara e sarebbe morto a suon di bastonate. Ma…
«La folla a poco a poco si disperse e lui ora si sentiva molto debole, restò seduto fino a quando la luna spuntò in lontananza sui comignoli. (…) cosa gli succedeva? Lo studioso si toccò la gola, da quando l’avevano avvolto in quel drappo bianco gli si era chiusa, respirava a fatica. Toccò le pareti della giara, poi si rialzò. Anche se era stato sfortunato e gli era toccato fare la parte del demone, quella ricerca al villaggio di Otto Pini era senza dubbio la migliore della sua vita.»
Scampato il pericolo? Niente affatto. Su Tong ci ripensa, informa il lettore di come la disgrazia fosse solo stata rimandata al giorno della partenza dello studioso, il quale mentre aspettava la corriera, sente riecheggiare nell’aria, prima piano e poi sempre più forte, un nome: Wu Lin, Wu Lin, Wu Lin… ode il grido rimbombare mentre cerca di capirne la provenienza, senza accorgersi del tram che arrivava alle sue spalle e che finirà per travolgerlo. Il rito è compiuto, l’Uomo Demone sacrificato. A nulla sono valsi gli interventi del lettore.
Su Tong è stato molto abile nel raccontare questo antico rito, tanto da portare il lettore a dubitare della finzione e accettare come reale l’episodio al centro del racconto, risvegliando in lui reminiscenze infantili di simboli primitivi e l’antica paura dell’Uomo Nero, mescolando allucinazione e sogno, fantasia e realtà.
D’ora in poi, prima di andare a dormire, anche lui sentirà riecheggiare tra le pareti della sua stanza quella voce.
«Wu Lin, Wu Lin, Wu Lin….»