Il senso del tatto prima e dopo la quarantena
Nel 1990, Tim Burton torna al cinema con un nuovo film. Il protagonista è una creatura nata dal genio di uno scienziato, una creatura con una serie di lame al posto delle dita: Edward mani di forbice.
Qualche anno dopo, il film passa alla televisione: io ho otto anni, lo guardo e penso che non vedrò più niente di così triste in tutta la vita. Non è il soggetto, o la storia in sé, a turbarmi; è “l’immensa solitudine dei mostri”, per dirla à la Camus. È la condizione d’isolamento, totale e irreversibile.
Interrogato sull’origine del personaggio, Burton rivela che l’idea viene da alcuni disegni che aveva fatto durante l’adolescenza; l’aspetto di Edward1 rappresentava la difficoltà che sentiva nel comunicare con le persone che lo circondavano:
«Era come se la tua immagine e il modo in cui le persone ti percepivano fossero in contrasto con ciò che era dentro di te… [questa sensazione] era connessa a un soggetto che voleva toccare ma che non poteva, che era sia creativo che distruttivo».
Alla morte del suo creatore, Edward – appena più pallido e appena più attraente del mostro di Frankenstein, merito di un giovane Johnny Depp – viene catapultato in un classico quartiere americano sul finire degli anni Cinquanta: un gruppo di personaggi stereotipati, intrappolati in una trama di cliché dalle sfumature pastello, lo rendono ancora più consapevole e perciò più solo.
Ogni tentativo di fingersi umano è un fallimento che lo spinge ai limiti del grottesco; quando prova a mangiare, quando prova a vestirsi, quando s’improvvisa giardiniere e quando diventa un ladro d’appartamento. Quando Peg Boggs lo giustifica perché: «Edward non è cattivo, è solo sbagliato». Quando la biondissima e bellissima Winona Ryder gli dice «Stringimi» e lui risponde «Non posso».2
È in quel periodo che ho cominciato a sviluppare un interesse morboso per il linguaggio delle mani. Poi c’è stata l’università, e lo studio di una certa mano invisibile come legge universale di autoregolamentazione del sistema economico.
Parte di questa ossessione è dovuta senz’altro al posto in cui sono nata. Perché è vero: noi napoletani gesticoliamo parecchio, tant’è che abbiamo dovuto inventare dei verbi ad hoc perché la lingua italiana non contiene tutte le azioni possibili. Come maniare, che è toccare in modo inopportuno, o tuzzuliare, eco di quel suono che fanno i polpastrelli quando battono sulla spalla di qualcuno di cui vogliamo attirare l’attenzione. Esistono decine di modi di dire, nati a partire dalle mani, che sono entrati a pieno titolo nel quotidiano di chi comunica in dialetto: Mettere mane (cominciare un lavoro), Tiene mman (aspetta), Leve mane! (lascia perdere), ’E mmane ’nnanze (giustificarsi in anticipo), A copp’ a man (ribattere), ’A mana è bona (rivolto a chi non si spreca troppo per il prossimo), ’Na bona mana a ffà zeppele (di persona alquanto taccagna), ’Mman all’arte (essere in ottime mani), A pazziella mmane e’ criature (di situazione importante affidata a qualcuno che non è capace di gestirla), Pigliarse ’o dito cu tutt’a mano (abusare della generosità altrui), Uocchie chine e mmane vacante (cose belle che non si possono avere). Non è un caso se uno dei film più rappresentativi di Napoli, una pellicola di denuncia sulla speculazione edilizia negli anni Sessanta, s’intitola Le mani sulla città.
Le mani sono ovunque, se ci pensate. Nella grotta di Gargas, nel sud della Francia, i nostri antenati ci hanno lasciato una parete tappezzata d’impronte, quasi a dire “Noi c’eravamo”. Per i primi cristiani, Dio era una grande mano che attraversava le nuvole. La mano di Fatima, invece, ha un’origine più incerta: nella versione mussulmana ha un occhio al centro (l’Occhio di Allah), nella variante ebraica le cinque dita richiamano i libri della Torah e il simbolo è la Stella di David.
Le mani sono nell’arte, in senso più stretto: è la mano di Plutone sulla coscia di marmo di Proserpina a rendere conto del talento di Bernini. La riflessione del Pensatore di Rodin è un pugno chiuso che sorregge il mento. Un dito proteso a una nuova vita è La creazione di Adamo di Michelangelo. E così via, in un rapsodia epidermica che parte da Studio di mani di Leonardo da Vinci e si estende fino a toccare Le mani che disegnano di Escher. E non dimentichiamo la mitologia: è stato Ovidio a raccontarci di quando Dioniso esaudì il desiderio di re Mida che «iniziò a toccare ogni cosa […] e quello diventò d’oro».
In queste settimane di reclusione, in cui la gente non si abbraccia e le dita non s’intrecciano, torno a riflettere sul linguaggio segreto delle mani; sull’importanza del tatto nelle nostre vite e, di conseguenza, nei nostri libri.
Innanzitutto, l’ovvio: il tatto è uno dei cinque sensi. A differenza degli altri, però, è l’unico che non ha un organo localizzato – una sede centrale, insomma –, in quanto la pelle ricopre l’intera superficie del nostro corpo. La sensibilità tattile, infatti, si attiva grazie a una serie di recettori, circa 130 per centimetro quadrato, che si trovano nel derma. E poi, come ci ricorda Claudio Pogliano, autore del libro Senso lato. Il tatto e la cultura occidentale, esiste una tipologia di tatto attivo, pilotato dalla volontà, e una seconda, passiva, dovuta al contatto con altri corpi esterni.
Il tatto è il senso più sottovalutato, almeno così dice l’antropologo inglese Ashley Montagu, ed è un paradosso perché un essere umano può sopravvivere in condizioni di cecità o sordità, può fare a meno del gusto e dell’olfatto, ma non esiste al di fuori della propria pelle. L’ipoestesia, la patologia caratterizzata dalla diminuzione della sensibilità tattile – e termica e dolorifica –, influisce sulle condizioni di vita dell’individuo. Anzi: l’importanza del tatto si esprime ancora prima, alla nascita; il neonato sviluppa la conoscenza del mondo proprio a partire dalle mani.
Archiviata la lezione di biologia, quello che c’interessa sapere è che il tatto è un senso atipico e complesso, e che le mani sono un veicolo pressoché convenzionale. Tuttavia, capita spesso che gli scrittori ci si affidino per dare ai propri personaggi una dimensione più profonda.
Semplicemente: le mani rivelano quello che le parole non riescono a esprimere.
Esistono numerosi casi di letteratura sensoriale, molti che traggono ispirazione dal potenziale espressivo delle mani, oppure sono io che ci presto attenzione in modo particolare. Qualunque sia la verità, ho un elenco pieno di citazioni, citazioni piene di mani, e sarebbe un peccato non condividerlo.
Cominciamo dalle celebrità. Nel secondo atto di una delle tragedie più belle di William Shakespeare, Macbeth riconosce la colpa nei palmi delle sue mani:
Donde vengono questi colpi? e che mi accade, dal momento che ogni rumore m’incute spavento? Che mani sono queste? Ah! mi strappano gli occhi! L’immenso oceano del grande Nettuno potrà mai lavare e cancellare interamente questo sangue dalla mia mano? No, piuttosto questa mia mano tingerà del suo rosso incarnato la moltitudine dei mari, e muterà il verde in un solo scarlatto!3
Più di un millennio prima, però, nel Libro dei libri, qualcun altro aveva assaporato la stessa analogia, provando a cancellare il senso di colpa con una lavata di mani:
Pilato, visto che non otteneva nulla, anzi che il tumulto aumentava, prese dell’acqua e si lavò le mani davanti alla folla, dicendo: «Non sono responsabile di questo sangue. Pensateci voi!». E tutto il popolo rispose: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli». Allora rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso. (Matteo 27, 24-26)
In epoca più recente, Juan Carlos Onetti usa la capacità espressiva delle mani per costruire l’incipit del romanzo Gli addii, pubblicato da edizioni SUR nel 2015:
Avrei voluto non avere visto di quell’uomo, la prima volta che entrò nel negozio, nient’altro che le mani; lente, intimidite e goffe, con movimenti senza fiducia, affilate e ancora non scurite dal sole, quasi a voler chiedere scusa per il loro gesto disinteressato. […]. Avrei voluto non avergli visto altro che le mani, mi sarebbe bastato vederle quando gli diedi il resto dei cento pesos e le sue dita strinsero i biglietti, cercarono di ordinarli e, subito, per improvvisa decisione, li appallottolarono e li nascosero con pudore nella tasca della giacca; mi sarebbero bastati quei movimenti sopra il legno pieno di fessure riempite di unto e di sudiciume per capire che non si sarebbe curato, che non aveva alcuna idea da cui trarre la volontà di curarsi.
Non abbiamo bisogno di sapere altro: quest’uomo è tutto “scritto” nelle sue mani. Che sia alto o basso, grasso o magro, con il naso aguzzo o i capelli radi, non fa differenza. Quale dettaglio potrebbe raccontarcelo meglio di quel tocco incerto, prima, e discreto, poi così improvviso?
Anche Felisberto Hernández era affascinato dalle mani. C’è da dire che lui era un pianista perciò non stupisce che le sue storie siano piene di riferimenti tattili. «Io non riuscivo a smettere di pensare alla vita delle mani» dice il protagonista di un racconto compreso nella raccolta Nessuno accendeva le lampade; una raccolta in cui, in certe occasioni, il tatto diventa il vero protagonista.
Le mani sono la disgrazia di Wing Biddlebaum, uno degli abitanti più iconici di Winesburg, Ohio, la raccolta pubblicata da Sherwood Anderson nel 1910. Wing vive da anni ai margini del paese; molti lo considerano strano, i bambini lo prendono in giro, quelli che restano lo ignorano. George Willard è l’unico con cui Wing riesce a parlare senza sentirsi a disagio. Ma un giorno qualsiasi, proprio durante un confronto con George, le mani di Wing si animano, così come avevano fatto vent’anni prima, e racconteranno la sua vera storia.4
L’avevano chiamato «Wing», cioè ala, proprio per l’inesauribile attività delle sue mani, che si dibattevano come ali di un uccello in gabbia. Il nome glielo aveva trovato qualche oscuro poeta del paese. Quelle mani turbavano il loro proprietario. Cercava di tenerle nascoste e osservava con ammirato stupore le mani tranquille e inespressive degli altri uomini che vedeva lavorare nei campi o passare lungo i sentieri guidando bestie sonnolente.
E poi c’è Lolita. Lo-li-ta: «la punta della lingua batte tre volte sul palato» e il professor Humbert impazzisce di tenerezza. L’odore dei capelli di Lolita «si spande sul cuscino» e «l’assenza della sua voce» è uno strazio senza soluzione. D’altronde, per quanto sbagliato potesse essere «era amore a prima vista, a ultima vista, a eterna vista».
In questa sublimazione sensoriale, che è la maestria di Vladimir Nabokov nel raccontare in modo così brillante una storia tanto torbida, il tatto si rivela in un unico, fatale momento; tra le ultime battute del romanzo, quando il professore è spogliato di ogni sua volontà e piange “le lacrime più cocenti che avesse mai versato”.
Le sentii serpeggiare tra le dita e giù per il mento, e scottarmi, e mi si chiuse il naso, e non riuscivo a smettere, e poi lei mi toccò il polso.
– Se mi tocchi muoio – dissi. – Sei sicura che non verrai con me? Non c’è speranza che tu venga?
– No – rispose. – No, caro, no.
Non mi aveva mai chiamato caro.
Ho letto molti libri negli ultimi vent’anni, ma l’intensità di questa scena resta insuperabile.
Uno psicanalista britannico, Darian Leader, ha scritto un saggio che s’intitola Mani, come le usiamo e perché nel quale svela un po’ di quel linguaggio segreto a cui facevo riferimento prima, portando diversi esempi a dimostrazione del fatto che le mani dicono parecchio di noi.
Se è vero che la nostra vita è mossa dal desiderio, inteso come lo sforzo di raggiungere qualcosa – un oggetto, un soggetto, uno stato –, l’immagine che traduce questo slancio è una mano protesa. Al contrario, può accadere che una forza della stessa intensità ci spinga nella direzione opposta; la negazione, allora, si concentra in un gesto teso ad allontanare ciò che più spaventa. Leader scrive: «È questa la differenza tra desiderio – con cui ci sforziamo di raggiungere qualcosa che sta al di là di noi – e la pulsione – con cui tentiamo di attenuare qualcosa che si agita in noi».
Anche in questo caso, le mani esprimono ciò che razionalmente non siamo in grado di vedere. La pulsione è uno dei temi del romanzo fantasy più famoso al mondo: il Signore degli Anelli. La missione di Frodo è distruggere l’anello del potere, uno strumento che lo costringe a misurarsi, passo dopo passo, con i suoi impulsi più profondi.
In altri tempi, il principio di ogni attività era di “scacciare il diavolo dalle mani oziose”, oggi utilizziamo strumenti sempre più sofisticati per tenerci impegnati, ma il fine è lo stesso. La conclusione di Leader è che: «in ogni epoca, la cultura è stata il tentativo di creare una distanza da chi ci circonda», la soddisfazione di un bisogno implicito di mediazione per aumentare le barriere e restare al sicuro, ma le mani possono ricondurci a noi stessi e perciò agli altri.
In una conferenza tenuta nel 1983 all’Institute for the Humanities di New York, Italo Calvino anticipò l’argomento del suo ultimo libro. Disse che parlava dei cinque sensi: «Il mio problema, scrivendo questo libro, è che il mio olfatto non è molto sviluppato, manco d’attenzione auditiva, non sono un buongustaio, la mia sensibilità tattile è approssimativa, e sono miope». L’intento era di dimostrare, appunto, che l’uomo contemporaneo ha perso l’uso primordiale dei sensi.
Il libro era Sotto un sole giaguaro, rimasto una traccia monca a tre atti, pubblicata postuma da Garzanti nel 1986. Tra i grandi assenti, ahimè, proprio il tatto. L’aneddoto, però, ci riporta al centro della nostra riflessione, ovvero: il modo approssimativo in cui conduciamo le nostre vite e l’opportunità – la necessità – di cominciare a farci caso in situazioni alienanti come quella che stiamo attraversando. Che significato daremo a tutto questo, altrimenti?
- Una specie di Robert Smith superaccessoriato, strizzato in una tuta di pelle con ganci e catene, immerso nell’esperienza dei sobborghi americani. Burton si è sempre detto affascinato dal potenziale horror della vita suburbana.
- Una tristezza di tale portata l’ho vissuta solo un’altra volta quando, in una distesa d’erba nei pressi di Aguillon, ho visto Etienne Navarre allungare la mano verso Isabeau D’Anjou, ma lei si trasforma in un falco e vola via prima che i due riescano a toccarsi. Credo di essermi mai ripresa del tutto.
- Nel 2006, Zhong & Liljenquist danno al disagio di Macbeth una sorta di dignità scientifica. I due ricercatori avviano alcuni esperimenti sociali tesi a dimostrare il nesso tra la purezza fisica e morale. L’intento della ricerca – Washing Away Your Sins: Threatened Morality and Physical Cleansing – è di verificare se una minaccia alla purezza morale attivi un bisogno fisico di pulizia e se, al contrario, la pulizia fisica sia effettivamente efficace nell’aiutare le persone ad alleviare i propri sensi di colpa. La risposta, a quanto pare, è positiva.
- Le mani che agiscono per volontà propria richiamano un’immagine tanto letteraria quanto scientifica: in diversi thriller, le mani mettono in atto comportamenti criminali come se avessero un potere decisionale autonomo. In neurologia, questa patologia è conosciuta come “la sindrome della mano aliena”. In un articolo del 1908, Kurt Goldestein riferiva di una paziente che si era afferrata la gola con la sinistra e se l’era stretta dicendo «lo fa la mano. La mano fa quello che vuole lei».