«Stelle ossee» di Orazio Labbate

Una raccolta in diciassette inquietudini notturne

Andrea Siviero Notturno per Orazio Labbate
Andrea Siviero. Notturno.

Questa non è una vera è propria recensione. È solo un piccolo gioco. Direi una sorta di autopsia. Come un anatomopatologo ho esaminato Stelle ossee di Orazio Labbate (LiberAria, 2017), ho raccolto degli indizi e ho scritto alcuni appunti. Non ho stabilito nessuna causa di morte, state tranquilli. Non c’era nessun cadavere: solo una raccolta di racconti davvero originale. Stelle ossee è composto da diciassette racconti brevi, tetri e inquietanti, a loro modo innovatori di una tradizione letteraria che affonda le proprie radici nelle migliori suggestioni gotiche ottocentesche.

Per esaminare Stelle ossee sono partito dall’incipit del racconto Luce accesa, si trova proprio a metà raccolta. Sono solo due frasi, molto semplici, ma in queste poche parole mi è sembrato di scorgere l’essenza di tutta la raccolta.

«Scrivo nel buio della mia camera. Devo fuggire da essa e accendere la luce perché possa smettere di sentirmi solo».[1]

Scrivo

Innanzitutto scrittura. Quella di Orazio Labbate suggerisce una profonda attenzione alla parola. In tutti i racconti si avverte una ricerca sul linguaggio: a tratti è una voce che ha il sapore del passato, ma che si contamina di inquietudini contemporanee.

«Il ragazzo si affacciò alla finestra e sorrise. Mite, era mite. Dietro di lui, sul bracciolo del divano, riposavano pillole bicolore, un vegetale selvaggio senza radice e una specie di cucchiaino piegato, il cui fondo bruciato era di un marrone annerito. Rinfilò la testa dentro la camera. Fece discendere le persiane. Dai fori rettangolari, come in una cella urbana, entrava la strada; i colori artificiali che, fulminei, dentro un tubo fittizio di luce, raggiungevano punti sparsi della camera, l’aggressione del freddo della notte e una brevissima scossa di vento che rappresentava l’aria. Aveva dolori al cranio».[2]

Buio

Il buio regna: sia quello della notte che quello dell’anima. L’inquietudine che permea Stelle ossee è sempre notturna. È nel buio che i personaggi labbatiani espiano il proprio senso di colpa. Ed è un senso di colpa che affonda le radici nella tradizione cristiana, nei riti e liturgie secolari. Ma il senso di colpa di questi personaggi non riesce a godere di redenzione, scivola spesso in un sentimento di dannazione perpetua e infinita.
Infinito è anche il tempo della sofferenza. Infinito e statico è il tempo che si trovano a vivere i personaggi. E in alcuni racconti, lo spazio e il tempo sono dimensioni così sospese e rarefatte da descrivere certe allegorie cupe, una sorta di purgatorio dei vivi, uno spazio onirico e di delirio in cui uomini e animali in carne e ossa stanno per liberarsi della loro dimensione terrena per trasformarsi in pure presenze.

«Ogni notte, a letto, a cinque anni dalla dipartita, con in mano il crocifisso, chiamavo Dio ché me la facesse vedere da fantàsima, o che mi riportasse da lei, negli Inferi o nella gola nera del Mediterraneo, era lo stesso».[3]

Camera

I luoghi sono quasi sempre spazi chiusi. Bare, camere da letto, lo spazio angusto tra il pavimento e la rete del letto, il ventre di una nave diretta in America. Ma anche gli spazi aperti hanno il loro lato claustrofobico. Che si tratti di cimiteri di periferia o una campagna deserta, interviene sempre l’elemento notturno a frustrare l’ampiezza dello sguardo.

«Le luci delle case, nella pianura gelese, singhiozzano come candele spente dal respiro spaventoso di un bambino. Mi fermo davanti all’ingresso delle abitazioni e prego affinché queste si spossessino dei demoni dentro gli armadi, delle persone sotto le lenzuola impaurite dal buio conchiuso anticamente sul soffitto».[4]

Qui emerge un altro particolare che caratterizza la raccolta. Negli episodi in cui l’universo letterario di Labbate sfiora i luoghi reali (Corsico, New York, la Sicilia) l’immaginario onirico fagocita i luoghi per restituirli trasfigurati. È palese nel caso della Sicilia: lontanissima dalle oleografie solari e dai panorami da cartolina, sostituita da un territorio nero, primitivo, inquietante.

Fuggire

La fuga è un elemento che ritorna. Può essere una fuga dalla vita, come nel caso del protagonista di Dentro una bara e la sua singolare scelta di attendere la morte da sepolto vivo, ad esempio. Ma la fuga è anche l’unico modo per evadere il tempo fermo. I personaggi di Stelle ossee spesso vagano, sperduti, senza bussola, avvolti dalla notte alla ricerca disperata di un’illuminazione risolutiva.

«Il mio amico muove la testa a studiare quelli che ci vengono pian piano incontro. Dice che dobbiamo fuggire, che arriveranno, mi tira la felpa nera, bestemmia l’anima di Dio che aspettiamo, lui però fugge come colei che mi baciò, io invece attendo lì».[5]

Luce

La luce illumina uno spazio molto piccolo. Spesso è ridotta appena un lumicino. Alcuni personaggi sono alla ricerca della luce, in altri casi la luce è l’elemento che offre i contorni stessi alla narrazione. Quando la luce manca realtà e immaginazione sono sullo stesso piano, possono convivere allo stesso tempo i vivi e i morti.

«Durante questo piccolo viaggio percepisco le lontane carezze dei morti: di mia nonna, di mio nonno, anche quelle dei miei cani morti quando ero bambino. Che senso ha allora voler accendere la luce se tutto quello di cui ho bisogno è già nel buio?»[6]

Solo

La solitudine è un altro leitmotiv. Spesso i personaggi di Labbate sono rimasti soli a causa della perdita di un familiare. E da soli tutti i personaggi sono chiamati a combattere contro i propri demoni interiori. I contatti umani sono rari e fugaci, dominati dalla diffidenza.

«Quante ere passano e quante ne svela la luce nelle camere notturne. La solitudine è ovunque… In quegli istanti in me si compiono anni, mi pare di avere piaghe e non poter studiare i misteri delle tane, dei nascondigli».[7]


[1] Orazio Labbate, “Luce accesa”, in Stelle ossee, LiberAria, 2017 (Pag. 52)
[2] Orazio Labbate, “Il divano”, in Stelle ossee, LiberAria, 2017 (Pag. 65)
[3] Orazio Labbate, “Tempesta di stelle”, in Stelle ossee, LiberAria, 2017 (Pag. 78)
[4] Orazio Labbate, “La notte della pianura”, in Stelle ossee, LiberAria, 2017 (Pagg. 76-77)
[5] Orazio Labbate, “Case incendiate”, in Stelle ossee, LiberAria, 2017 (Pag. 19)
[6] Orazio Labbate, “Luce accesa”, in Stelle ossee, LiberAria, 2017 (Pag. 53)
[7] Orazio Labbate, “Il cimitero e il coniglio”, in Stelle ossee, LiberAria, 2017 (Pag. 30)

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