Di Andrea S. Alcamisi
Quattro racconti, quattro sguardi differenti: la Sicilia prende forma, si desta, respira con le contraddizioni e gli angoli misteriosi, incanto millenario dell’immaginario comune. I sessant’anni dalla pubblicazione de Il Gattopardo sono un’ottima occasione per sfogliare I racconti di Tomasi di Lampedusa.

La prima Sicilia, intima e sincera, è incastonata ne I ricordi d’infanzia. La recherche comincia, ma Proust non è la guida. È la primavera del 1955. Tomasi ha terminato la prima parte del romanzo e trova ristoro nella lettura de La vie de Henry Brulard di Stendhal. Questo scritto autobiografico incompiuto si trasforma nei binari lungo i quali lo scrittore riavvolge il filo della memoria. In tal senso sono emblematiche le sue parole: «Cercherò di aderire il più possibile al metodo di “Henry Brulard”, financo nel disegnare le “piantine”delle scene principali».
Una fedeltà assoluta che si riverbera sul manoscritto del racconto fatto di umili fogli a quadretti. Si sforza di incidere sulla carta il perimetro dell’antica dimora dei Lampedusa, inebriando l’inchiostro con i profumi del «paradiso perduto». Poi segue lo scarto dal modello: se per Stendhal l’infanzia fu l’età dei soprusi, per Tomasi invece essa rappresentò il culmine della felicità.
I ricordi non procedono secondo una cronaca annalistica, ma si generano e si rincorrono sull’intreccio di sentimenti e sensazioni che affiorano spontaneamente. Luce e calore imbrigliano le prime pagine e lasciano che il lettore si aggiri vestendo i panni del piccolo Tomasi fra le dettagliate descrizioni di salotti sfarzosi, emblema della miglior Sicilia a cavallo della Belle Époque.
Protagoniste indiscusse sono le proprietà dei Lampedusa e in particolar modo la casa palermitana di via Lampedusa. «Anzitutto la nostra casa. La amavo con abbandono assoluto. E la amo ancora adesso quando essa da dodici anni non è più che un ricordo». Era il 5 Aprile 1943, un brusio metallico s’intrecciava a tonfi sordi e intermittenti: l’amata dimora cadde sotto le bombe degli Alleati. La perdita del nido venne elaborata dal Tomasi come un vero e proprio lutto e a nulla valse l’acquisto della attuale dimora di via Butera, liquidata con l’anonima etichetta di «palazzo». Ecco che allora il ricordo della spensierata fanciullezza, all’interno degli spazi aviti, funge da dolce medicina, alleviando così la mestizia del tempo perduto.

Lo spettro di Pirandello abita la seconda Sicilia di La gioia e la legge. La trama è lineare: l’impiegato Girolamo, onesto a giudizio dei colleghi, ottiene in regalo per meriti un panettone di sette chili. Felice del riconoscimento, dopo anni di dura fatica, torna lesto a casa, desideroso di “scannare” quel dolciume. Corre, sale, apre la porta e la beffa è servita: la moglie Maria proibisce di sacrificare la vittima perché il dono spetta all’avvocato Risma, dei cui servigi Girolamo usufruì. Doppia beffa. S’intuisce che il legale vive nell’agiatezza opulenta, pagato dal buon Girolamo per quel consulto legale. Per l’apparenza si sovverte l’etica e si diviene camaleonti per convenienza. L’uomo siculo è campione in questa disciplina sportiva e sa bene che la rispettabilità conta più dei valori. Nel frattempo, la maschera è pronta e si va in scena.
Della terza Sicilia si è scritto abbastanza: testamento spirituale, freudiano amplesso fra Eros e Thanatos. La Sirena è il racconto più conosciuto, più onirico, più imperscrutabile di Tomasi. Sarebbe un torto rivelare il finale della storia e un atto di arroganza sforzare ogni tentativo di interpretazione. Poeti e scrittori hanno i loro scrigni ben serrati che è impossibile dischiudere alle volte e il raziocinio, in tal senso, pecca. Allora, resta come unica chiave di lettura la sensibilità estemporanea.
Purezza, misticismo, disillusione sembrano forse reggere questo lungo racconto, ai quali si aggiunge lo sfondo agreste e idealizzato del paesaggio siciliano che fa da collante nei dialoghi tra i due interlocutori principali, anch’essi siciliani. Si viene quasi rapiti e catapultati nell’età mitologica di Demetra e Persefone:
Così parlammo della Sicilia eterna, di quella delle cose di natura, del profumo di rosmarino sui Nebrodi, del gusto del miele di Melilli, dell’ondeggiare delle messi in una giornata ventosa di Maggio come si vede daEnna, delle solitudini intorno a Siracusa, delle raffiche di profumo riversate, si dice, su Palermo dagli agrumeti durante certi tramonti di Giugno.
E poi c’è la Sirena:
[…] mi cinse il collo con le braccia, mi avvolse in un profumo mai sentito, si lasciò scivolare nella barca: sotto l’inguine, sotto i glutei il suo corpo era quello di un pesce, rivestito di minutissime squame madre perlacee e azzurre, e terminava in una coda biforcuta che batteva lenta il fondo della barca. Era una Sirena.
Nessuno può dire di aver visto una creatura così fascinosa, tranne il vecchio professore di greco Rosario La Ciura. Egli conosce bene l’arcano, veglia il sancta sanctorum serbato nel suo studiolo. È il negromante e il profeta che inizia ai misteri della vita il rampollo Paolo Corbera di Salina. È certo però che chi ha perduto qualcosa è possibile che la ritrovi tra le voluttà sinuose di una Sirena, al cui canto è un miraggio resistere.
Echi gattopardeschi impregnano la quarta Sicilia dove i ricordi spensierati, gli accenni ai padri morali o alle mistiche riflessioni scompaiono. Si ritorna alla cruda realtà. In origine, I gattini ciechi rientrava nel progetto di un romanzo incompiuto sull’epopea del latifondo nella terra natìa. È un Tomasi diverso – “steinbeckiano” diremmo –, pronto a dipingere senza alcun compromesso le attese di una scalata sociale risolta in un fallimento morale.
Di questi racconti si potrebbe dire di più o forse si è detto troppo. Un caso “Tomasi” non è mai esistito, bisognava scrostare soltanto un po’ di ruggine.
Andrea S. Alcamisi ha pubblicato La giostra sul numero otto di Tre racconti. Per leggerlo, puoi scaricare il Pdf della rivista o sfogliarla su ISSUU.