L’avventura di Sherlock Holmes. Parte I – Immaginare

“Data!data!data!” he cried impatiently. “I can’t make bricks without clay.”

Le parole di Sherlock Holmes in un momento di furiosa frustrazione ne L’avventura dei Faggi Rossi suonano più che attuali in questi giorni. Altrettanto frustrati dall’incertezza dell’emergenza, dobbiamo fare i conti con l’altissima volatilità delle informazioni in nostro possesso. Le cose vanno bene? Male? Peggio? Meglio? L’ormai appurata incapacità di fornire dei dati, non forse precisi, ma con almeno un minimo di senso, ci ha derubato della possibilità di leggere il caos che ci circonda e tentare di porvi rimedio. Eppure ognuno di noi, per giorni e settimane si è impegnato a leggere grafici e studiare curve, con la speranza di sapere se quello che stiamo facendo sia giusto o sbagliato.

Foto di Evelyn Paris su Unsplash

Sherlock Holmes, per nostra fortuna, supera sempre velocemente questi momenti di incertezza e frustrazione: protagonista di quattro romanzi e di più di cinquanta racconti, i suoi fallimenti si contano sulle dita di una mano. E per fallimenti intendo dei brevi ritardi prima di giungere alla verità: ci scappa un morto magari, è necessario prendere un treno all’ultimo minuto o tirare qualche cazzotto, ma il colpevole viene sempre, se non assicurato alla giustizia, almeno identificato. 

Holmes è il più famoso detective della cultura contemporanea e gode di una fama trasversale, dal Giappone a Umberto Eco. Oltre alle citazioni colte però l’investigatore è protagonista di una quantità perniciosa di film, sceneggiati televisivi, radiofonici, serie tv, cartoni animati. Negli ultimi dieci anni il suo personaggio è stato considerato un asset così affidabile e sicuro da poter realizzare con i suoi adattamenti due serie televisive: Elementary (americana della CBS dal 2012 al 2019) e Sherlock (inglese della BBC dal 2010 al 2017); due film blockbuster (quelli per la regia di Guy Ritchie del 2009 e 2011) e almeno un raffinato e delicato film tratto da un libro (Mr Holmes e il mistero del caso irrisolto, del 2015 con un sempre meraviglioso Ian McKellen). L’investigatore britannico è un personaggio pop nel senso migliore del termine: il suo nome è probabilmente noto anche a chi non ha mai visto un film o letto un libro, ed è entrato stabilmente nell’immaginario collettivo di buona parte dell’Occidente culturale.

Tutti abbiamo un qualche tipo di conoscenza su Sherlock Holmes. Sappiamo che è molto intelligente, che è molto sagace, che fuma la pipa e ha un amico molto stupido, l’onesto Watson. Risolve casi con l’aiuto della logica e della scienza, a Londra, in epoca vittoriana. I più colti sapranno che: non ha mai indossato un cappello da cacciatore nei libri e che non ha mai pronunciato le parole «Elementare, Watson!». Ma chi ha provato a leggerli, i libri, sa che ha detto qualcosa di molto simile e che il famigerato cappello è indossato in una delle illustrazioni di Sidney Paget che accompagnarono i racconti nelle prime edizioni.

Ma a cosa è dovuto l’enorme e perdurante successo di questo personaggio letterario? La sua onnipresenza culturale da dove arriva? La critica letteraria ha identificato il poliziesco, e in generale il racconto di indagine, come uno dei generi letterari (ma vale anche per altre forme d’intrattenimento) più rappresentative della contemporaneità. Il giallo può essere maneggiato sia dal produttore seriale di spazzatura letteraria che dall’autore raffinato, dal giallo da edicola all’esperimento postmoderno. Metafora della lotta tra caos e ordine, dell’eterno sforzo dell’uomo nel comprendere la realtà, della lotta tra Bene e Male, l’investigazione letteraria è uno dei generi più graditi agli intellettuali e al tempo stesso popolari. 

Bene, Sherlock Holmes è il primo e il più grande. Le sue storie sono lo spartiacque di una cosa che forse prima non c’era e dopo c’è. Tutti gli scrittori di gialli che verranno dopo dovranno avere a che fare con lui, con i suoi metodi e le sue caratteristiche, a maggiore o minore distanza, ma sempre come riferimento obbligato alla narrazione. L’enorme successo dei racconti, e del loro rapidissimo adattamento cinematografico, radiofonico, teatrale ha consolidato il tòpos in una ventina d’anni, facendo nascere un genere.

Illustrazione di Sidney Paget, pubblicata su The Strand per il racconto Silver Blaze

Il padre di Sherlock Holmes, Conan Doyle

Ignorato per ben sei paragrafi, può ora entrare in scena l’Autore: Sir Arthur Conan Doyle, medico scozzese con ambizioni letterarie e pochi quattrini. La fama del suo personaggio fu tale da fagocitarlo, l’investigatore gli rubò la scena come ha fatto d’altronde persino in questo articolo: i lettori più esaltati scrivevano all’indirizzo di Baker Street e acquistavano la firma autentica di Sherlock Holmes! Conan Doyle dovette prima cercare di uccidere il suo personaggio, senza riuscirci, e poi andare in guerra per potersi finalmente emancipare come entità autonoma e guadagnarsi il titolo di baronetto come corrispondente della guerra Anglo-Boera. Eppure lo dobbiamo considerare come uno dei più geniali inventori di persone di carta della letteratura mondiale. Il problema è che forse non ne aveva nessuna intenzione.

Nelle prime due apparizioni, Uno studio in rosso e Il segno dei quattro, Sherlock Holmes (e Watson) sono poco più di una cornice: Conan Doyle aveva puntato tutto sulla minuziosa ricerca storica e sulla ricostruzione delle storie narrate all’interno della cornice stessa, ambientate nel Selvaggio West dei Mormoni di Salt Lake City o nelle altrettanto esotiche Andamane. Per quanto interessanti, sono evitabili. Per il neofita è impossibile nascondere lo stupore mentre per pagine e pagine si domanda: ma quando torna il detective? E infatti furono un clamoroso fiasco, poche vendite e commentate in questo modo dalla critica: “Gli ammiratori del Dott. Doyle leggeranno il piccolo volume con una buona dose di entusiasmo, ma difficilmente lo riprenderanno ancora in mano.”

Nella sua autobiografia, Memorie e avventure, pubblicata nel 1924, Doyle confessa di aver scritto i racconti di Holmes proprio per poterli pubblicare su una rivista nata da poco: the Strand.

A number of monthly magazines were coming out at that time, notable among which was the Strand, under the very capable editorship of Greenhough Smith. Considering these various journals with their disconnected stories it had struck me that a single character running through a series, if it only engaged the attention of the reader, would bind that reader to that particular magazine… Looking around for my central character, I felt that Sherlock Holmes, who I had already handled in two little books, would easily lend himself to a succession of short stories.

Verosimilmente il povero, possiamo dirlo, dottore fu spinto da un’idea abbastanza prosaica: la possibilità non solo di pubblicare, ma anche di assicurarsi entrate continuative grazie alla serializzazione del personaggio. Non più un unico, enorme fouilleton da pubblicarsi a puntate come era ancora consuetudine, ma tante piccole storie, veloci da scrivere, da leggere… e da farsi pagare. Ed è così che nascono le storie di Sherlock Holmes, così rimpiante dal suo autore una volta raggiunto il successo: delle perfette macchine narrative, replicabili all’infinito con il minimo sforzo. Holmes e Watson sono nel salotto di Baker street, bevono il tè, fanno colazione, cenano, leggono ma soprattutto si annoiano; entra un vistoso nobiluomo, una graziosa donna, un enorme energumeno, un investigatore di Scotland Yard, che racconta un caso abbastanza particolare da essere portato all’attenzione di Sherlock Holmes; il detective privato ha un’intuizione e bisogna correre, prendere il treno, menare le mani o complottare qualcosa recandosi sulla scena del delitto o del misfatto che si vuole evitare; qualcosa d’altro attira l’attenzione del protagonista e lo aiuta nello svelamento finale, con dettagliata descrizione e soluzione del mistero. Exeunt.

Il meccanismo è così perfetto che funziona: le vendite dello Strand decollano e Doyle si trova nella situazione di mantenere la macchina che aveva progettato: questo significa per esempio trovare un modo per sbarazzarsi della moglie di Watson, che lo aveva sposato alla fine del secondo romanzo: l’autore è stufo di inventare scuse rispettabili per costringere un buon medico ad abbandonare casa e moglie ogni volta nel bel mezzo della notte. Dopo aver ambientato per un po’ i racconti prima del matrimonio, la cara mogliettina è levata di torno senza troppe storie. I due amici tornano ad essere scapoli d’oro a Baker Street. È un piacere perdere tempo a setacciare i racconti alla ricerca delle tante piccole incongruenze: cani che scompaiono, donne misteriose, sdoppiamenti di trame e un arcinemico che è così tremendo e cattivo da apparire in un racconto solo ed essere citato in un altro paio.

Foto di Annie Spratt su Unsplash

Queste distrazioni sono in realtà uno dei punti di forza di questa serie di storie: annichiliti dall’eterno ritorno dell’uguale, queste fugaci allusioni alla vita oltre il racconto aiutano a creare un universo letterario, un vasto mondo che può essere facilmente riempito dalla nostra fantasia, con gli stessi strumenti forniti da Conan Doyle. Con quale desiderio si arriva a bramare una nuova avventura in cui Irene Adler, affascinante antagonista del primo racconto Uno scandalo in Boemia e unica a beffare il detective, torni per tramare un nuovo inganno; oppure scoprire un nuovo piano del professor Moriarty. Ebbene c’è chi lo fa: una numerosa schiera di appassionati nel corso degli anni ha provveduto a riempire questi vuoti, inventando e pasticciando con alterne fortune, ma alimentando un culto che non da segni di debolezza. Riempire i buchi: un potentissimo motore narrativo.

“Matilda Briggs was not the name of a young woman, Watson,” said Holmes in a reminiscent voice. “It was a ship which is associated with the giant rat of Sumatra, a story for which the world is not yet prepared.”

Motore di cui Conan Doyle non è inconsapevole. Adoro questa citazione: basta un’allusione, un riferimento a qualcosa di misterioso inventato in fretta e furia per creare infinite possibilità. Ovviamente non esiste nessun ratto gigante di Sumatra, e nessun racconto al riguardo, ma la mente del lettore si è ormai messa in moto, immagina e soprattutto vuole sapere a cosa il mondo non è preparato. Ed è questa una delle ragioni dell’enorme successo dei racconti, la loro infinita replicabilità e la possibilità per chiunque di integrare questo mondo immaginario.

Molto spesso nei racconti Watson o Sherlock accennano ad altri casi di cui si sono occupati, a volte rimandando la narrazione dei fatti a quando le acque si saranno calmate o i protagonisti morti. Ma non mancano le allusioni ai racconti effettivamente pubblicati: mentre il loro autore provvede a creare un vasto universo finzionale, prova anche a vendere tutte le sue storie già pubblicate ai nuovi lettori. Un vero scozzese.

Motivazioni finanziarie a parte, il potere creativo è nelle mani di tutti e tre gli attori dell’esperienza letteraria: l’autore che crea la trama e lascia dei buchi che possono essere riempiti dal personaggio o dal lettore; l’investigatore che crea possibili scenari di soluzione del mistero in cui è coinvolto ma ne sceglie uno solo da raccontare a Watson, infine il lettore che prova a immaginare la fine della storia con le incomplete informazioni fornite da autore e personaggio, per non finire sempre schiacciato tra l’essere più bravo del buon dottore e meno bravo di Holmes. Dopotutto, le condizioni di incertezza in cui esistiamo non sono diverse da quelle di un mondo letterario, e i nostri metodi da lettori della realtà non sono così diversi da quelli dell’investigatore più famoso del mondo:

We balance probabilities and choose the most likely. It is the scientific use of the imagination.

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