Il suono di molti tamburi. Uno sguardo su Olga Tokarczuk.

Quando nel 2019, invece che uno solo, furono annunciati ben due vincitori del Nobel per la Letteratura, ci si era forse dimenticati che eravamo sotto di uno. L’anno precedente l’Accademia di Svezia era stata travolta da uno scandalo sessuale e il premio non era stato assegnato per mancanza del numero legale di membri, alcuni dei quali si erano dimessi per protesta. Olga Tokarczuk, vincitrice del premio per il 2018, dovette dividere la scena con Peter Handke, vincitore per il 2019 e per la gioia dei giornalisti, scrittore con una sconveniente affezione per la Serbia sconfitta nelle guerre balcaniche a cavallo del nuovo millennio. Anche se sono sicuro che la scrittrice non se la sarà presa troppo, questa serie di coincidenze ha aiutato a lasciarla un po’ nell’ombra.

Castello di Ratno Dolne, Slesia

Nonostante le polemiche che lo accompagnano, e gli occasionali colpi di testa (leggi alla voce Bob), il premio resta una vetrina di visibilità che permette di scoprire voci internazionali ma appartate nella nostra contemporaneità globalizzata ma sostanzialmente anglosassone e maschile. La speranza era trovare un’altra autrice incredibile come era capitato con Svetlana Aleksievic o con Alice Munro. Quindi ho fatto come faccio sempre in questi casi: sono andato in biblioteca e ho scelto a caso il primo libro che non era già prenotato.

Che Guevara e altri racconti è una raccolta pubblicata in tempi non sospetti da Forum, casa editrice universitaria dell’Università degli Studi di Udine, e tradotta con il contributo dell’Unione Europea. Per qualche motivo il titolo di uno dei racconti è stato preferito al titolo originale della raccolta Gra na wielu bębenkach “Suonando su molti tamburi”, un titolo che forse avrebbe potuto prevenire un po’ di disorientamento. Perché a quanto pare un tratto caratteristico della Tokarczuk è non avere un tratto caratteristico. Ad aprire la raccolta è un racconto dichiaratamente letterario e non particolarmente riuscito, in cui una lettrice annoiata interviene per movimentare il libro giallo che sta leggendo uccidendone i personaggi. Il racconto seguente e quello successivo ancora continuano sulla linea tracciata, con espedienti metanarrativi di sdoppiamento tra autore, personaggio, personaggi scrittori e personaggi scrittori che si sdoppiano. Arrivato al quarto racconto, L’isola, ero pronto a gettare la spugna, sconfitto di fronte a una rievocazione delle atmosfere di L’invenzione di Morel ma che deraglia in un’allucinazione egizia che fa pensare più a Lost che al realismo magicosudamericano.

A costo di ridurre il talento di un autore al poter scrivere solo ciò di cui ha un qualche tipo di conoscenza, quando la Tokarczuk torna in patria, i suoi racconti cambiano completamente. Nata nella zona occidentale della Polonia, la scrittrice si è trasferita in Slesia, una regione al confine con Cechia e Germania e lì ambienta molti dei suoi romanzi e racconti, quando non piuttosto nella Francia del XVII secolo. Regione ricca di storia e profondamente multietnica, la Slesia è stata completamente trasformata dopo la seconda guerra mondiale, quando la consistente popolazione di etnia tedesca è stata costretta ad abbandonare le terre dove aveva vissuto per secoli, sostituita a sua volta dai polacchi espulsi dai territori dell’est acquisiti dall’Unione Sovietica. Castelli, villaggi e santuari, antiche foreste alle pendici dei Sudeti e miniere abbandonate.

Mia cara signora, noi dobbiamo fare cose prive di scopo. Altrimenti la nostra vita sarebbe piatta e insipida, come la vita di quelli… – Indicò il villaggio che spuntava dal fondo della vallata. Ciò che ci distingue dalle bestie è il bisogno di irrealtà. Non il nostro pensiero, non la saggezza dei libri. Dobbiamo fare cose inutili, inservibili, dalla vita breve ma sfolgorante, cose che strabiliano anche se si scordano subito. La nostra esistenza dev’essere piena di fuochi d’artificio. Altrimenti sprofonderemo nell’inquietudine e diverremo sterili.

Sono le parole di von Kynast, un nobiluomo con il gusto per le rappresentazioni teatrali che coinvolgano centinaia di figuranti in La conquista di Gerusalemme. Raten 1675. Ricco e volenteroso, obbliga ogni anno i recalcitranti contadini dei suoi possedimenti a interpretare le quattro stagioni o quadri religiosi. Li costringe a lavorare durante il raccolto, a costruire impalcature di legno o macchine d’assedio ma senza riuscire a coinvolgerli veramente. Ha un’illuminazione mentre sta preparando una colossale messa in scena della conquista di Gerusalemme durante la prima crociata. Se questi beceri contadini badano solo alle cose terrene e poco alle spirituali, allora von Kynast provvederà a soddisfarli.

Questo racconto è esemplare del vero modus operandi della Tockarczuk, al netto delle sperimentazioni e delle contaminazioni dei suoi molti tamburi. In una regione dove ogni paese ha un nome che può essere scrito in tre lingue diverse ogni toponimo ha un significato. I von Kynast sono stati una tra le famiglie più ricche della Slesia, dal medioevo al secondo dopoguerra, quando furono espulsi assieme agli atri tedeschi. Ma il castello di Raten, o sarebbe meglio dire di Niederrathen oppure meglio ancora Ratno Dolne, anche se esiste veramente, non è mai appartenuto a questa famiglia. Fu invece ricostruito proprio nel 1675 dopo le distruzioni della guerra da Daniel Paschasius von Osterberg, un arricchito di origine veneziana la cui famiglia si era meritata la nobiltà. Spinto da una grande fede e da un grande fiuto negli affari, fu coinvolto nella ricattolicizzazione della Slesia, successiva alle guerre di religione, e si occupò di ampliare un santuario dedicato a un’apparizione della Vergine Maria a Wambierzyce, o Albendorf, o Vambeřice.

Secondo la leggenda, essendo stato per ben due volte in Terra Santa, voleva replicare l’esperienza anche per i poveri villici, e quindi fece costruire una riproduzione del Monte Calvario, costituita da un’enorme scalinata e da qualche cappella barocca. Il santuario divenne una delle mete di pellegrinaggio più famose della zona. Oggi, a Raten di sotto, rimangono le rovine del castello di von Osterberg, con delle curiose fattezze moresche, simulacro di simulacri.

La Tokarczuk si ispira a una storia vera, della sua terra, ma la distrugge per poi ricomporla, in una finzione che si percepisce posticcia. I nomi sono utilizzati quasi a casaccio, non c’è nessuna volontà di istruire o di utilizzare l’enciclopedismo per arrivare ad una verità più profonda. In Slesia chiunque sembra di passaggio, ai nuovi arrivati polacchi è stato detto che quelle terre erano loro, ma la sensazione è quella che si muovano su un fondale, su una ricostruzione artificiale della realtà, in cui i castelli sono fatti di cartone e la valle si chiama Cedron come quella che da Gerusalemme va verso il mar morto.

Questa mancanza di fiducia nella realtà sembra in contrasto con l’impegno politico e sociale dell’autrice, attiva contro la deriva autoritaria della Polonia, a difesa dell’ambiente, dei più deboli e degli animali. Vegetariana, in uno dei suoi romanzi immagina che gli animali selvatici comincino a ribellarsi ai cacciatori e li uccidano per vendicarsi. E’ forse una innata predisposizione alla vita sviluppata sotto la dittatura? Quando si cresce durante il crepuscolo di un sistema una volta potente si percepisce la falsità della propaganda, ma non si hanno gli strumenti e le forze per comprendere il mondo. Il mondo come lo si era conosciuto si rivela falso, ma non si trova nessun velo di Maia da scostare.

E’ un senso di smarrimento che si ritrova anche in altri racconti della raccolta, ambientati in contesti più realistici e contemporanei al crollo o a fasi precedenti al crollo del comunismo in Polonia, o all’istituzione della legge marziale nel 1981. Ne Il professor Andrews a Varsavia uno studioso straniero vive quei giorni convulsi,in cui non si capisce cosa stia succedendo e i carri armati attraversano le strade: abbandonato dalla sua guida locale, si aggira smarrito per una città che non conosce, lasciandosi ipnotizzare dal grigiore e dal rito dei pescivendoli che chiedono ai clienti se vogliono il loro pesce vivo o morto. Lo straniero non è in grado di capire quello che dicono, ma ripete la frase a un anonimo salvatore. Siamo vivi o morti? La risposta non è convincente.

Attraverso quella che può sembrare superficialità (e a volte forse lo è) la Tockarczuk riesce ad interpretare il sentimento di una vecchissima Europa, che si trova smarrita e senza identità, che si guarda indietro verso le proprie radici ma le trova posticce, inventate ad ogni cambio di regime, ad ogni nuovo dominatore, e che non ha ancora capito come crearsi da sola le proprie. Olga continua a suonare, cercando la propria voce, il suono del proprio tamburo.

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