Il sequestro del lettore

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Illustration by Arthur Rackham – “Hop Frog’s last joke”

La tesi di molti lettori occasionali di racconti, spesso grandi divoratori di romanzi, è che nei primi succeda poco o non succeda quasi niente. Forse, perché – come disse una volta Maria Di Biase, detta La Capa – da Carver in poi, mentre leggiamo un racconto siamo tuttalpiù concentrati a guardare il bicchiere che passa da una mano all’altra. Può darsi. In ogni caso, tale tesi sottintende che, nel dedicarsi ai racconti, la noia è sempre dietro l’angolo.

Giorni fa, mentre tentavo ancora una volta di mettere ordine tra i miei libri, impilati in ogni dove ed in modo scriteriato in giro per casa, mi sono ritrovata tra le mani i Racconti del terrore di quel genio del racconto breve che è stato Edgar Allan Poe. Non ho resistito all’impulso di rileggerne uno, la cui trama ricordavo a mala pena in realtà ma che, anni fa, mi aveva molto colpita. Si tratta di Hop-Frog, l’ultimo della raccolta. Inizia così:

«Non ho conosciuto mai nessuno che più del re fosse portato alla beffa. Pareva non vivesse che per scherzare. Il modo più sicuro per ottenere i suoi favori era di narrare una storia buffa e di raccontarla bene».[1]

Ecco il punto – o il trucco, visto che è di Poe stiamo parlando – per ottenere il favore del lettore, occorre raccontare bene. Non a caso Horacio Quiroga, nel suo Decalogo del perfetto scrittore di racconti, aveva individuato come primo precetto «Credi nel maestro»[2] e tra i maestri, manco a dirlo, indicava proprio Poe con Maupassant, Kipling e Cechov.

Tornando al nostro racconto del terrore, questa in sintesi è la trama.

Siamo alla corte di un re e dei suoi sette ministri, tutti dotati di un grande talento di buffoni, sempre pronti allo scherzo, sempre disponibili a burlarsi di qualcuno. Uno dei loro bersagli preferiti è il buffone di corte, Hop-Frog, nano e zoppo, che deve il suo nome alla sua andatura a sbalzi. Il re decide di dare un ballo in maschera, ma lui e i suoi ministri vorrebbero stupire gli invitati, per tanto, si rivolgono a Hop-Frog e Trippetta, la sua compagna appena meno nana di lui, affinché suggeriscano loro un travestimento straordinario e sorprendente, adatto allo scopo. Convocati dinanzi al re, succede che questi offra da bere del vino a Hop-Frog, nonostante lui non ne bevesse mai dato che il vino lo eccitava fino alla follia. Il buffone esita, il monarca comincia a diventare rosso di rabbia. Trippetta interviene, supplicando il re di lasciare in pace il suo compagno, ma viene respinta e offesa violentemente. Hop-Frog, dopo un attimo di smarrimento, si riprende, propone  loro di travestirsi da oranghi e affidarsi a lui per l’effetto sorpresa ma, in realtà, da quel momento in poi Hop-Frog non pensa che a vendicarsi; alla fine della storia, il re e i suoi ministri finiranno carbonizzati, sotto gli sguardi terrorizzati dei  loro ospiti mentre il buffone e la sua compagna si daranno alla fuga, non prima però di aver pronunciato queste parole davanti alla folla impaurita: «Io, poi, sono semplicemente Hop-Frog e questa è la mia ultima buffonata»[3].

Il racconto è di poche pagine, ma il parapiglia che si crea è inversamente proporzionale alla sua brevità: otto morti e svariati feriti!

Ciò non vuol dire che bastino un po’ di morti a movimentare un racconto o a renderlo emozionante, così come per scrivere un buon poliziesco non basta narrare un omicidio. Tuttavia, l’azione tiene desto e sotto sequestro il lettore anche in racconti diversi da quelli di tipo grottesco o in stile gotico, quello – per intendersi – zeppo di segrete e segreti, di castelli e fanciulle rapite, agguati e assassini.  Mi vengono in mente, Gogol’, che nei suoi Racconti di Pietroburgo, riesce a proiettare il lettore sulle orme di un pittore e a fargli vivere, insieme a lui, la sua intera vita in meno di un paio d’ore; oppure Bulgakov, che racconta di un cane che diventa un uomo a seguito di un intervento chirurgico, per poi ritornare ad essere un cane o, ancora, Kafka che scrive di quel tale che, al risveglio, si ritrova trasformato in un grande insetto.

Insomma, chi può dire che nei racconti non succede mai nulla? Forse, per non annoiarsi leggendo racconti, basterebbe dare un calcio alla pigrizia e fare un salto in biblioteca, in realtà.

Perché così come la tempesta in un bicchier d’acqua è possibile, anche l’azione ha trovato e trova spazio in un racconto. Certo, bisogna saper raccontare, e per farlo occorrono tecnica, ritmo, un intreccio perfettamente combinato e anche un po’ di logica. Poe in questo era un vero maestro ed è questa l’unica ragione per cui i suoi racconti, ancora oggi, incantano e stupiscono, intimoriscono e ispirano altre storie. «Nel racconto breve» scriveva Poe «l’autore è in grado di attuare il suo pieno intento [ndr. la totalità d’effetto] senza interruzione. Durante l’ora che dura la lettura, l’animo del lettore è sottomesso al suo controllo»[4].

A queste parole fanno eco quelle di un autore decisamente a noi più vicino, Cortázar, quando scrive che il mestiere dello scrittore è quello di ottenere

[...]quel clima proprio di ogni grande racconto, che costringe a continuare a leggere, che cattura l’attenzione, che isola il lettore da tutto quanto lo circonda per poi, terminato il racconto, restituirlo alla sua circostanza in un modo nuovo, arricchito, più profondo o più bello. E l’unico modo in cui si possa ottenere quel sequestro momentaneo del lettore è mediante uno stile basato sull’intensità e sulla tensione[5].

Poe è vissuto nella prima metà dell’Ottocento, quando ancora Freud e la psicanalisi erano di là da venire. Oggi, dimentichi degli autori del passato, siamo portati a credere che la vera tensione in un racconto sia quella di tipo psicologico, per cui gli autori di storie brevi si concentrano sugli sguardi, battiti, sospiri, movimenti appena percettibili del corpo, pensieri fluttuanti, ma dedicano meno spazio all’azione vera e propria. È solo un altro modo di raccontare, meno frenetico, più intimistico, ma non per questo meno carico di tensione. Se però abbiamo bisogno di azione e di pathos, di sentirci rapiti e sequestrati dal racconto, seguiamo il consiglio di Quiroga, poiché come vale per lo scrittore così vale per il lettore di storie brevi: crediamo nei maestri, leggiamo e riscopriamo Cechov, Flaubert, Maupassant, Puskin, Poe e chi più ne ha, più ne metta. La noia sparirà.


[1]  Edgar Allan Poe, Racconti del Terrore, trad. di Delfino Cinelli ed Elio Vittorini, Mondadori, 2004, (pag. 326)
[2] ibid. (pag. 326)
[3] Horacio Quiroga, Decálogo del perfecto cuentista, Revista El Hogar, luglio 1927 (trad. dell’autore dell’art.)
[4] Edgar Allan Poe, dalla prefazione ai Racconti del terrore, Sergio Perosa, (pag. II)
[5] Julio Cortázar, “Alcuni aspetti del racconto” in Bestiario, Einaudi, 2014, (pag. 125)

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