di Barbara Mannucci
Quando penso a Nabokov lo immagino chino al microscopio, intento a studiare i genitali dei lepidotteri. L’immagine mi arriva sfogliando Fine Lines, un volume scientifico dove sono disegnate e commentate le parti anatomiche delle farfalle, spiegate dallo scrittore in veste di entomologo, sua seconda grande passione oltre alla letteratura. Pare che alcune specie di farfalle siano simili in tutto tranne la forma dei genitali, e che con questa segreta combinazione, come una chiave e il suo lucchetto, riescano a preservare specie in apparenza indistinguibili. È il particolare che distingue il generale, dunque, e lo caratterizza. Ed è questo, secondo me, l’aspetto più caratteristico della scrittura di Nabokov.

Avevo letto da qualche parte di Segni e simboli, un suo racconto pubblicato dal New Yorker. Di questo autore conoscevo solo i romanzi, corposi e col passo lento, primo fra tutti Il dono. Spesso, leggendo, avevo l’impressione di perdermi il senso e la trama, catturata dalle immagini della sua scrittura, enfatica e carica come una cattedrale di Pietroburgo. Leggere un suo racconto, soprattutto quello scelto da una rivista tanto autorevole, mi pareva il modo giusto per accostarmi in piccolo alla sua indole, per capirlo. Di fatto, il racconto è un’esperienza breve e intensa, come un appuntamento galante, ben diversa dal tempo quieto e disteso del romanzo a cui associo la vita matrimoniale. Spesso il primo prelude al secondo, ma non è detto. Per questa nuova esperienza fugace con Nabokov sono andata a rintracciare la raccolta che lo racchiude: Una bellezza russa e altri racconti, ho pescato in fondo a questo imponente volume, edito da Adelphi, e ho letto quelle tre o quattro pagine fitte fitte. Senza averci capito niente. A poco sono valse le riletture e una vana e superficiale ricerca sul web di qualche saggia recensione che mi aiutasse a cogliere la chiave di lettura.
Ho dovuto fare un passo indietro, leggendo Intransigenze, un volume in cui sono contenute una raccolta di interviste e considerazioni personali dell’autore. Non narrativa, per intenderci, solo una visione di retroscena. Nabokov mi ha ripreso con le sue considerazioni feroci sui recensori – li definisce imbrattacarte – e sulla volgarità di coloro che cercano di risalire agli aspetti autobiografici dietro alla trama di un romanzo. Il suo, in Intransigenze, è tutto un difendere gli aspetti personali e privati e decontestualizzarli dall’espressione artistica. Nabokov, infatti, definisce così la narrativa:
[…] non c’è dubbio che ciò che salva un’opera di narrativa dai bachi della ruggine non è la sua importanza sociale ma la sua arte, soltanto l’arte.
Da qui un importante suggerimento per accostarmi alle sue opere: non cercare di capirle ma sentirle. Ho iniziato, da capo, la raccolta di racconti. Uno al giorno, anche meno, perché a qualunque racconto breve che si rispetti è necessario lasciare il tempo della sua eco che si estende a lettura ultimata e nel giorno a seguire, a volte anche molto oltre. Ogni brano di Nabokov porta lo stesso carico di particolari, l’espressione enfatica e mai spontanea, e una sacralità che avvolge come una bruma settembrina. Un esempio:
La vita terrena, messa assolutamente a nudo e assolutamente comprensibile, atroce nella sua tristezza, umiliante nella sua insensatezza, sterile, senza miracoli…
E qui veniamo a Segni e simboli, la storia di due genitori che vanno a trovare il figlio ricoverato in una clinica psichiatrica. La patologia clinica si chiama ‘mania referenziale’, nella mente del figlio ogni espressione del creato, dal movimento delle nuvole ai giochi di luce di una pozzanghera, è un messaggio che egli deve intercettare. La spontaneità della natura, ma anche la realtà circostante in tutte le sue forme, gli oggetti nelle vetrine, i sassolini, tutto diventa foriero di messaggi, simboli, un insopportabile carico di significati da interpretare di cui lui è soggetto e che lo conduce a vari tentativi di suicidio. La trama è lineare, i genitori partono da casa con un dono da portare al figlio e tornano indietro, respinti da «un’infermiera che già conoscevano e non amavano.»
Ma il senso del racconto si compie nei dettagli che punteggiano il loro percorso, segni e simboli, appunto, di cui il lettore deve farsi carico, provando a interpretarli, probabilmente senza riuscirci – com’è successo a me – ma sentendosi avvolgere dall’esperienza emotiva della mania referenziale, e dalla dolcezza con cui la realtà esprime la sua natura più cruda.