E se un popolo non ha poeti,
è come se gli avessero tagliato la lingua.
Jurij Lotman[1].

Tra gli ultimi arrivati in casa minimum fax c’è Con in bocca il sapore del mondo di Fabio Stassi, un breve libro sulla vita di alcuni dei più grandi tra i poeti italiani del ‘900. Un saggio direte voi? No. Un’opera biografica? Nì, non del tutto. Quella di Stassi è un’operazione più letteraria, e anche più coinvolgente per il lettore; in questi dieci racconti infatti i poeti tornano a vivere, o meglio a far sentire la loro voce, da un oltretomba dal quale sono loro stessi a raccontare la storia della propria vita. Il pensiero va subito all’Antologia di Spoon River, la celebre raccolta di epigrafi di Edgar Lee Masters, qui però lo spazio è più dilatato, e i poeti si prendono più tempo per raccontarci la loro storia. I testi che compongono questo libro sono stati utilizzati anche per un programma televisivo prodotto sempre da Minimum Fax, L’attimo fuggente, che è andato in onda su Rai 5 ma che potete tranquillamente recuperare su Raiplay (potenza dello streaming!). Fabio Stassi è stato bravissimo a farci sentire la voce dei personaggi ai quali ha dedicato il suo libro, io proverò a farvi sentire la sua, pescando qua e là tra i brani che più mi hanno colpito e i poeti ai quali sono maggiormente affezionato.
Il primo a parlare è l’uomo dei boschi, Dino Campana. Pazzo certificato, disprezzato e deriso dai paesani ma sempre abbastanza lucido da percepire la propria superiorità rispetto al mondo che lo circonda.
Perché la mia vera follia è stata la letteratura. Mi ci ammalai da ragazzo. Nella biblioteca dei preti, dove iniziati a leggere Tasso e Ariosto, e Dante. E poi tra questi monti, tra queste valli selvose e deserte, dove mi sono sentito a casa.[2]
I Monti e le Valli sono quelli di Marradi, da dove Campana fuggì dalla cattiveria della gente e dalla ingombrante presenza della madre, arrivando fino in Sudamerica per tentare di trovare un po’ di pace e serenità, tra mille mestieri per sbarcare il lunario.

Altre Stelle, un’altra luce illuminavano Montevideo. Da allora iniziarono giorni e mesi che si dilatarono nello spazio. Mi sentii libero come non ero stato mai in una terra sterminata e piena di segreto. Con delizia, dentro e fuori di me nacque un uomo nuovo. [3]
Ma non basta l’America a lenire le sofferenze dell’animo tormentato di Campana, che torna a Marradi e alla vita di sempre, dentro e fuori dai manicomi, schernito e schivato dai compaesani. Una vita a braccetto con la delusione, come quando Papini e Soffici smarriscono l’unico manoscritto delle sue poesie, frutto di sudore, fatica sangue e del tormento di mille incertezze. Ma determinato e incrollabile Campana le riscrive tutte a memoria, e riesce a farsele pubblicare. Finalmente un po’ di notorietà, accolta però con il dovuto disincanto:
Anche i fiorentini dovettero scrivermi, e reinvitarmi con lettere educate alla loro corte dei miracoli. A qualcuno, come a Marinetti, vendetti delle copie con alcune pagine strappate, tanto non avrebbero potuto intenderle.[4]
Unico momento di luminosità la storia d’amore con Sibilla Aleramo, amore tardivo per il quale ormai Campana non ha più le forze. «Le avrei dato tutto quello che mi restava, ma era troppo poco».[5]
L’amore, nelle sue diverse forme, è uno dei grandi temi di questo libro. C’è quello più sensuale, di un Gabriele D’Annunzio, e quello più spirituale, di un Eugenio Montale per arrivare a Ungaretti, che da anziano riesce ancora ad innamorarsi di una ragazza (e a ridere della cosa). Poche pagine più avanti a parlare è il «coso con due gambe»[6] della letteratura italiana, al secolo Guido Gozzano, poeta della piccola borghesia virtuosa e modesta, cantore di farfalle e di mille chincaglierie. Malato e schivo, Gozzano mette in scena il rifiuto dell’amore, e lo fa con queste parole:
Si era detto di seppellire nella solitudine della campagna quanto restava di noi. L’abbiamo fatto. E così sia. Ci siamo salvati dalla sorte comune dei piccoli amanti e dobbiamo uscire da questa ribellione più sereni e più franchi. […] Addio mia buona Amalia, io fuggo un’altra volta da Voi: e non so perché rido a questo pensiero![7]
Nell’ultima citazione a parlare non è Fabio Stassi, sono parole sono di Gozzano stesso. Una delle particolarità del libro infatti sono le fittissime citazioni da poesie, epistolari e biografie degli autori protagonisti, che vengono inserite nel racconto elaborato dall’autore e vi si adattano con molta naturalezza. I passi delle opere originali sono evidenziati in corsivo nel testo (e lo stesso nei passi che ho citato), e fine libro c’è un indice per i lettori più curiosi che vogliono tentare qualche recupero.
Cos’altro accomuna i dieci scritti dedicati ai protagonisti di questa raccolta? Io credo una certa qual propensione a non saper stare al mondo, che forse è una condizione essenziale per poter dirsi poeti. Spesso questa inquietudine del vivere ha come risultato un’incomprensione da parte del prossimo che può manifestarsi, come abbiamo visto con Campana, nel pubblico scherno di paesani rozzi, ma anche essere più dolce e più sottile, se vissuta all’interno delle mura domestiche, come per Aldo Palazzeschi:
Mio padre non approvò mai la mia vocazione, non poteva. Che razza di lavoro è scrivere? A cosa serve? Ma fu abbastanza intelligente da non contrastarla, o forse astenersi fu il suo modo di volermi bene. Procedemmo come due parallele che ogni tanto si lanciano un fischio da marciapiedi opposti. Ma per i miei genitori scrivere rimase sempre una cosa da morti di fame, da disperati.[8]
Sul tema le parole più belle del libro sono però quelle che Stassi mette in bocca a Eugenio Montale:
Vissi al cinque per cento, non aumentate la dose. Il che non significa che un poeta debba rinunciare alla vita. È la vita che si incarica di sfuggirgli. Ma non scomodiamo la psicanalisi. Non c’è bisogno di tirare in balle Freud per dire che l’arte è un compenso o un surrogato per chi non ha mai veramente vissuto.[9]
Con l’ultima citazione vediamo anche il rapporto con la poesia stessa, un tema al quale nessuno dei protagonisti del libro rinuncia a dedicare qualche parola. Qualcuno parla della musicalità del verso, qualcun altro dell’istinto e delle scelte che lo hanno portato a farsi poeta, e ancora una volta Stassi è stato molto bravo a interpretare il pensiero dei suoi personaggi e a dargli nuova voce.
La raccolta si chiude con l’unica protagonista femminile, Alda Merini, che tra questi quadretti poetici è sicuramente uno dei più riusciti.
Nel brano conclusivo il cerchio aperto con Dino Campana si chiude, e ritornano tutti i temi visti per gli altri protagonisti, come se la poetessa milanese fosse in qualche modo una sintesi o un distillato di tutta la poesia italiana dell’ultimo secolo.
E forse fu per gioco, o forse per amore… Ah, l’amore. Non l’ho dimenticato. Come si può, del resto, dimenticare la struttura elementare delle cose? Siamo portati all’amore naturalmente, ma preferiamo perdere tempo con le nostre misere e sterili individualità di ferocia assoluta.[10]
Ritornano con la Merini anche i temi della follia e dell’incomprensione da parte del mondo, oggetto di molte sue opere
Per i matti non c’è comprensione, non ci sono attenuanti o solidarietà. I matti è come se non appartenessero più al genere umano. Perché la follia, per gli occhi del mondo, è una mala metafora, non una malattia. È una metafora della colpa. Una responsabilità. E le metafore, i miti, uccidono, indeboliscono, criminalizzano.[11]
La chiusura però non è nel senso della disperazione, perché per Alda Merini più forte di tutto è l’amore per la vita, qualcosa di cui parlare perché la vita è qualcosa di molto più importante e più interessante della poesia stessa.
Ho provato a tracciare un veloce percorso nel libro di Fabio Stassi, quelli che ho citato sono i passi e gli autori che più mi hanno colpito, ma ce ne sono altri, altrettanto validi, che aspettano solo che andiate a leggerli. Io ho fatto mio l’auspicio che l’autore manifesta alla fine del libro, quello di andare a rileggersi qualche verso di questi personaggi, e spero sarà lo stesso per voi. Infatti questo è il più grande merito di questo libro, e il motivo principale per cui sono felice che libri del genere vengano scritti: fa venire una gran voglia di avvicinarsi (o ri-avvicinarsi) a questi giganti della letteratura che sono i poeti, che troppo spesso anche noi lettori forti trascuriamo dimenticandoli nella polvere della manualistica scolastica o universitaria.
[1]Per una fortunata coincidenza mentre scrivevo questo pezzo mi sono trovato a leggere La grande Russia portatile di Paolo Nori, un libro in cui si parla della Russia e anche dei suoi poeti. La citazione in esergo mi è sembrata perfetta anche per l’Italia e per i poeti italiani di cui parliamo oggi.
[2]Fabio Stassi, “L’uomo dei boschi” in Con in bocca il sapore del mondo, Minimum Fax, 2018, (p. 9 dell’edizione ebook).
[3]Idem, (p. 14).
[4]Idem, (p. 18).
[5]Idem, (p. 20).
[6]La citazione è dalla poesia “Nemesi”, della raccolta La via del rifugio. Guido Gozzano, Tutte le poesie, Newton e Compton, 1993, (p. 59).
[7]Fabio Stassi, “Tra la piuma e il piombo”, op. cit., (p. 36).
[8]Fabio Stassi, “Il saltimbanco”, op. cit., (p. 57).
[9]Fabio Stassi, “In un’aria di vetro”, op. cit., (p. 90).
[10]Fabio Stassi, “Invettiva contro la luna”, op. cit., (p. 107).
[11]Idem, (p. 114).