Immaginate di ascoltare un dibattito tra Lincoln e Douglass e che, a un certo punto, qualcuno li interrompa, li faccia scendere dai rispettivi scranni e li costringa a decidere il vincitore in una gara di rutti
Alex Wolff si esprimeva così su Sport Illustrated, senza troppi giri di parole, riguardo al fatto che una finale dei Mondiali di calcio, Italia – Brasile di USA ‘94, si fosse decisa per la prima volta nella storia della competizione ai calci di rigore. Della stessa opinione erano stati anche alcuni dirigenti della FIFA, decisi a far sì che fosse, oltre alla prima, anche l’ultima.
È andata diversamente; quello spettacolo torcibudella, adrenalinico e crudele, non è mai più stato abbandonato. Quando la partita finisce in pareggio, si va ai rigori, fine.

Giusto o sbagliato, bello o brutto che sia, il calcio di rigore è forse l’unico momento, nel contesto degli sport di squadra, in cui la sfida si riduce a un duello tra due individualità, e che non tiene più minimamente conto di tutto quello che è stato in un match lungo centoventi minuti. Non importa chi ha giocato meglio, chi ha avuto più occasioni o, banalmente, chi è più forte, perché a quel punto tutto si azzera, e restano solo i nervi; i nervi di chi tira e di chi para.
Uno scrittore innamorato del calcio come Osvaldo Soriano non avrebbe mai potuto non sfruttare una situazione così carica di dramma e tensione per scrivere una storia; e infatti è del 1995 il suo racconto Il rigore più lungo del mondo, inserito nella raccolta Pensare con i piedi.
Considerato uno dei più bei racconti mai scritti sul calcio, Soriano usa in realtà la forza emotiva di un calcio di rigore come perno attorno al quale far ruotare i ricordi della propria adolescenza quando, assieme ad amici e gente del paese, andava a vedere le partite della squadra locale. Sono gli anni Cinquanta dei campi in terra, e i frequentatori del circolo che bevono e giocano a carte sono gli stessi che poi vanno in campo la domenica a giocarsi il campionato della piccola regione argentina della Valle del Rio Negro. Gli spalti sono mezzi vuoti e se si riempiono è solitamente per deridere quei giocatori troppo scarsi e svogliati; sono gli stadi malconci di tutte le periferie del mondo, dove nelle domeniche troppo fredde o troppo calde non c’è nulla da fare se non andare a sostenere la propria squadra di calcio.
Soriano racconta in prima persona di quel campionato del 1958, quando la squadra per cui fa il tifo, solitamente scalcinata e sempre nelle ultime posizioni, trova in quell’anno una serie incredibile di vittorie, tutte brutte, stiracchiate e fortunose, ma che una domenica dopo l’altra portano la sua Estrella Polar a un solo punto dalla prima in classifica, il Deportivo Belgrano, oggettivamente più forte e sempre favorita e che da anni monopolizza la testa della della classifica.
Erano diventati l’attrazione del paese e a loro tutto era consentito. I vecchi li raccoglievano nei bar quando bevevano troppo e cominciavano ad attaccar briga; i commercianti li omaggiavano di qualche giocattolo e di caramelle per i bambini e al cinema le ragazze accettavano carezze al di sopra delle ginocchia
Ed è così che si arriva all’ultima giornata, nello scontro diretto tra Davide e Golia. Il Deportivo gioca in casa e basta un pareggio per essere campione, ma l’Estrella passa inaspettatamente in vantaggio e a quel punto, il povero Herminio Silva, arbitro che vive e lavora per il circolo di paese, si inventa all’ultimo minuto un rigore per salvare, oltre che il suo lavoro e sé stesso, anche la squadra di casa. Partita truccata, ovviamente, e scoppia, come in ogni campo di periferia che si rispetti, una rissa gigantesca che coinvolge tifosi e giocatori, e che dura così tanto che si è costretti a sospendere la partita, anche a causa del ko subito da Silva, colpito da un pugno di qualcuno dell’Estrella.
La decisione dei commissari è che la partita venga conclusa la settimana seguente, giocando solo quei venti secondi finali a partire dal rigore.
Eccolo il rigore più lungo del mondo, una settimana di attesa durante la quale il protagonista è el Gato Diaz, il portiere quasi quarantenne dell’Estrella Polar, che diventa in quei giorni il punto di riferimento e la speranza a cui tutto il paese si aggrappa. Lui nel frattempo si allena, e si fa calciare rigori da chiunque. La gente lo cerca, lo sprona, lo tratta come un oracolo, chiedendogli dove tirerà l’avversario e se lui sarà in grado di parare.
Benché la maggior parte dei ricordi legati a partite decise ai rigori riguardino chi l’ha calciato più che chi avrebbe dovuto pararlo, è bene ricordare che, come nel racconto di Soriano, anche la realtà ha invece visto come protagonisti principali i portieri.
A tal proposito, è interessante riportare un aneddoto raccontato dal giornalista Simon Kuper, che nel suo libro Calcionomia cita proprio un dialogo preso da Il rigore più lungo del mondo:
Dìaz rimase tutta la sera senza parlare, gettando all’indietro i capelli bianchi e duri finché dopo mangiato si infilò lo stuzzicadenti in bocca e disse:
– Constante li tira a destra.
– Sempre, – disse il presidente della squadra.
– Ma lui sa che io so.
– Allora siamo fottuti. – Sì, ma io so che lui sa, – disse el Gato.
– Allora buttati subito a sinistra, – disse uno di quelli che erano seduti a tavola.
– No. Lui sa che io so che lui sa, – disse el Gato Dìaz e si alzò per andare a dormire
Questo passaggio, dice Kuper, e se avete mai provato a calciare un rigore vi renderete conto di quanto sia universale questo scambio di battute, rappresenta perfettamente la teoria dei giochi applicata al calcio. Alcuni economisti appassionati di calcio, hanno infatti nel tempo applicato questa teoria allo studio dei rigori, per capire al momento giusto come e dove calciarlo.
Nel 2008, per esempio, Ignacio Palacios-Huerta, uno studente di economia appassionatosi allo studio dei rigori, dopo aver raccolto una quantità impressionante di materiale e aver elaborato tantissimi dati, fa avere, tramite un amico matematico, i suoi studi alla squadra del Chelsea, poco prima della finale di Champions League che avrebbe giocato contro il Manchester United. Ironia della sorte, quella partita è finita ai rigori.
Lo studio di Huerta indicava esattamente a ciascun giocatore dove avrebbe dovuto calciare, cioè sempre e costantemente alla sinistra del portiere, il suo lato debole. Tutti i giocatori del Chelsea eseguono, segnando. Dopo sei rigori, Van der Sar, portiere del Manchester United, si accorge che quella è una precisa strategia così, quando è il turno di Anelka per il Chelsea, Van der Sar si piazza in porta e con il dito inizia ad indicargli l’angolo dove avrebbe dovuto calciare secondo la strategia, come a dirgli: l’ho capito, è lì che lo devi tirare, vero?
Con quel banale gesto, il portiere olandese si era preso il controllo psicologico della situazione. Quello è infatti il preciso istante in cui il povero Anelka crolla mentalmente, e nella sua testa si presenta esattamente il dialogo scritto da Soriano. Decide di non rispettare la strategia e sbaglia. Era il tiro decisivo, e la coppa è volata a Manchester.

Il rigore come fulcro di una partita non è una scelta casuale, è anzi un momento perfettamente funzionale dal punto di vista narrativo e drammaturgico. Quella settimana di attesa non è altro che l’apice della suspance sportiva, metafora perfetta dell’attimo che diventa tempo sospeso dilatato all’infinito, carico di incertezze e aspettative, percepibili negli sguardi tra i due e nella rincorsa di pochi passi in attesa del fischio dell’arbitro. Vorresti solo finisse presto, ma più desideri che tutto finisca in fretta, più il tuo cervello è risucchiato in quella schiacciante eternità emotiva che si gonfia di dubbi e responsabilità.
L’attesa massacrante del rigore è l’orlo del baratro ideale, tra la gloria e il nulla, su cui trasformare un portiere di paese qualunque quasi quarantenne come el Gato Diaz, in una figura triste e romantica, un personaggio letterario a tutti gli effetti, tormentato e combattuto, come solo chi è a un passo dall’essere l’eroe della gente oppure venire dimenticato assieme a tutti nella polvere di un campo semi sperduto della Patagonia argentina.
E poi, c’è quella promessa d’amore che la Rubia Ferreira gli ha fatto:
Giovedì, quando lo trovarono che camminava sui binari del treno, parlava da solo e lo seguiva un cane dalla coda mozzata.
– Lo pari? – gli domandò, ansioso, il garzone del ciclista.
– Non lo so. Che cosa cambia, per me? – domandò.
– Che ci consacriamo tutti, Gato. Glielo diamo nel culo a quelle checche del Belgrano.
– Io mi consacro quando la Rubia Ferreira mi dirà che mi vuole bene, – disse e fischiò al cane per tornarsene a casa. […]
Sabato pomeriggio el Gato Dìaz chiese in prestito due biciclette e andarono a fare una passeggiata sulla riva del fiume. Mentre iniziava il pomeriggio cercò di baciarla ma lei girò la faccia e disse che forse gliel’avrebbe permesso domenica sera, se parava il rigore, al ballo.
– E io come faccio a saperlo? – disse lui. – A sapere cosa? – Se mi devo buttare da quella parte. La Rubia Ferreira lo prese per mano e lo portò fino al posto in cui avevano lasciato le biciclette. – In questa vita non si sa mai chi inganna e chi è ingannato, – disse lei. – E se non lo paro? – domandò el Gato. – Allora vuol dire che non mi vuoi bene, – rispose la Rubia, e tornarono in paese
Non è ovviamente il caso di svelare il finale, anche perché quello che conta in questa storia, oltre a come Soriano temporeggia e costruisce vite e sentimenti attorno a un dischetto, è anche la sua capacità di racchiudere e raccontare in questa piccola vicenda di un calcio e un tempo che non ci sono più, l’universale senso di inadeguatezza, paura di sbagliare e senso di colpa a priori, prima dell’eventuale fallimento, che si nascondono dietro i volti e i pensieri di chi è stato protagonista di questi momenti.
Basta rivedere i volti dei calciatori professionisti nei video che si trovano un po’ ovunque, quasi tutti sono segnati dal peso di emozioni talvolta insostenibile, nonostante lo studio dell’avversario e la preparazione maniacale.
Nel suo saggio Undici metri sulla storia dei calci di rigore, il giornalista Ben Lyttleton racconta una quantità impressionante di aneddoti e situazioni al limite dell’assurdo vissute da calciatori e tifosi proprio a causa del tiro dal dischetto. Il libro è disseminato di storie in cui il rigorista principale, o il giocatore più talentuoso e normalmente abituato a trascinare i compagni, davanti alla prospettiva di dover calciare un rigore decisivo, si tira indietro. Si va dal dignitoso “non me la sento”, ai crampi o ai polpacci rigidi, fino a scene di gente che semplicemente si defila, come un ragazzino che non vuole farsi interrogare dal professore.
È successo a tanti, anche a campioni leggendari e, praticamente tutti gli intervistati, specialmente coloro che a causa dei rifiuti altrui si trovavano per la prima volta a doverne calciare uno, descrivono quei momenti come una tortura dalla quale uscire alla svelta e che invece, nella loro percezione, era stata lunga chilometri e anni.
Il finale della vicenda reale che ha ispirato Soriano per Il rigore più lungo del mondo fa parte di questa nutrita collezioni di rifiuti e sparizioni anche se, come abbiamo visto, lo scrittore argentino decise di cambiarlo per questioni narrative. Il rigore decisivo, infatti, non venne assegnato ai padroni di casa per poter pareggiare, bensì fu fischiato agli sfavoriti, che avrebbero avuto così la possibilità di vincere il campionato. Uno dei rigoristi scelti decise però di tirarsi indietro, lasciando l’ingrato compito all’unico che se la sentiva, un rude difensore dai piedi non proprio delicati.
Per giocare con un’espressione rubata a David Foster Wallace, ogni storia di rigori è una storia di fantasmi.
La pressione sul povero portiere del racconto mi ricorda quella che ha dovuto subire, per tutta la vita, il portiere del Brasile 1950, incolpevolmente ritenuto il colpevole della sconfitta del maracanazo. Avevo sentito l’aneddoto riguardante una madre che, ad anni di distanza, lo indicò al figlio dicendogli “guarda, quello è l’uomo che ha fatto piangere una nazione intera”. Terribile.
Ciao Stefano, si la vicenda Maracanazo è una delle più epiche della storia dello sport e di conseguenza il peso che ha dovuto ingiustamente (anche se davvero fosse stata una papera) sopportare Barbosa è stato devastante. Se sei molto appassionato, te lo consiglio quel saggio di Lyttleton, ci sono davvero tante storie e interviste a vari campioni. Non è per nulla pesante, pensando che comunque tratta un argomento specifico. La storia più triste, per me, resta quella di Djukic, che sbaglia il rigore dopo il novantesimo dell’ultima giornata del campionato spagnolo 1994: lo avesse segnato, il Deportivo La Coruna avrebbe vinto il primo campionato della sua storia centenaria. Ci ha messo anni a fare pace con quel rigore.