Raffaele La Capria e la filosofia di una bella giornata

Palazzo Donn'Anna, Posillipo

Basta una giornata di sole, cantava Pino Daniele.

Se per qualcuno può essere una discriminante al buon vivere quotidiano, la bella giornata diventa un elemento essenziale nell’opera di La Capria. La Capria Raffaele, nato a Napoli il 3 ottobre del 1922, è scrittore, traduttore e sceneggiatore, soltanto una delle voci più rappresentative di un certo Novecento italiano. È l’unico autore al quale Mondadori ha dedicato due Meridiani: il primo, nel 2003, per festeggiare gli ottant’anni dello scrittore napoletano, con l’idea che avesse già dato il meglio di sé. Ma tra il 2003 e il 2014 La Capria vive una nuova giovinezza letteraria, scrive una manciata di libri tanto da meritare una nuova e ampliata antologia. 

La bella giornata, per Raffaele La Capria, è un topos letterario. È uno schema narrativo e un’immagine evocativa che percorre tutta la sua produzione. D’altronde è lui stesso a confessarlo: i suoi libri si richiamano l’un l’altro, spesso anche in modo abbastanza esplicito, e richiamano anche la vita, dell’unico personaggio e pure del creatore, inseguendo il concetto secondo il quale «dove non c’è giudizio non ci può essere memoria e dove non c’è memoria non c’è neppure il presente». Così la vita diventa un racconto, la vita è nell’arte stessa del racconto, nell’esercizio di guardarsi con distacco e ripercorrere ogni evento secondo un ordine emozionale più che cronologico. 

Prima di trasferirsi a Roma nel 1950, Raffaele La Capria viveva a Posillipo, a Palazzo Donn’Anna, ed è in quel periodo che scoprì il valore della bella giornata. Era ancora bambino quando si svegliava grazie al rumore delle onde e con un tuffo raggiungeva il mare. Questo ce lo raccontò lui stesso qualche anno fa, quando tornò a Napoli per la quarta edizione dell’evento Suono della Parola, una rassegna gratuita di letteratura e musica che ospitò un reading in suo onore.

C’era una volta una bella giornata

Nel 1952 La Capria pubblica il romanzo d’esordio, il primo di un’antologia che nel catalogo della casa editrice Einaudi diventò Tre romanzi di una giornata, ovvero Un giorno d’impazienza, Ferito a morte e Amore e Psiche.

Un giorno d’impazienza è un libro concepito come un castigo; con questo romanzo, infatti, La Capria dichiarò di voler punire un adolescente che sentiva ancora vivo dentro di sé, un adolescente che racchiudeva tutti i vizi e le illusioni di una generazione che aveva avuto la pretesa di cambiare il mondo «[…] di dominare il reale con l’intelletto». 

È un romanzo di formazione che si consuma in una sola, bella giornata, nel riflesso di Napoli come appariva nel 1950, attraverso gli occhi di un protagonista anonimo che affronta il suo primo rapporto sessuale. Il fatto è la lacerazione più banale, la crepa tra l’adolescenza e l’età adulta, ma è anche la frammentazione inaspettata dell’io, la difficoltà – e la necessità – di pensarsi lontano da sé. 

In una delle prime battute del romanzo, l’amico Enrico suggerisce al protagonista di colmare l’insofferenza di vivere riversandola nel Cambiamento Generale. Ma come posso impegnarmi a cambiare alcunché, dice lui, se sono sempre io ad agire, cioè colui che voglio appunto cambiare? E qui, come in molti altri testi di Raffaele La Capria, le proporzioni saltano e la prospettiva si rovescia: il mondo interiore prende il sopravvento sulla realtà e il protagonista viene attratto in un moto centripeto che è un penoso – per chi vive, meraviglioso, per chi legge – giro “a vuoto” nella mente.

Si gira sempre intorno alle stesse cose, vita elicoidale, elicoitale, il giro successivo uguale al precedente, ma più avanti nel tempo inavvertitamente. Come quando giri a vuoto il cavatappi, la punta pare che avanzi. 

Con Ferito a morte del 1961, Raffaele La Capria vince il Premio Strega. Anche questa storia è il racconto di un’unica, bellissima e fatale giornata. A differenza di Un giorno d’impazienza, però, più acerbo perché troppo condizionato dai riferimenti letterari dello scrittore, Ferito a morte è una prova di maturità: la scrittura di La Capria insegue la musicalità del parlato, la sintassi è contaminata da flessioni dialettali, ma allo stesso tempo è lirica ed elegante, a tratti solenne. Il suo stile si traveste di una semplicità apparente, come egli stesso specifica nel saggio Lo stile dell’anatra, in analogia con l’animale che senza sforzo sembra assecondare la corrente del fiume mentre sott’acqua agita affannosamente le zampe palmate. 

La narrazione si sviluppa su più piani temporali e il protagonista, Massimo De Luca, rivive un intero decennio in un solo giorno; una notte di Capodanno del 1949, il mare di Positano e la Grande Occasione Mancata. È il giorno che precede il suo trasferimento a Roma: la speranza di Massimo è di sfuggire all’indolenza borghese che lo circonda e alla città che lo divora, la Grande Madre Napoli, «che ti ferisce a morte o t’addormenta, o tutt’e due le cose insieme»

Palazzo Donn'Anna, Posillipo

Attraverso la costruzione di un incipit memorabile, La Capria utilizza la dimensione del dormiveglia per confondere ricordi ed emozioni, e amplificare un senso del tempo che rifugge da ogni convenzione. La bella giornata s’infiltra nei pensieri di Massimo, come «una pioggia di dardi luminosi che il mare rimanda dalle imposte socchiuse». L’intento è di svelare una tragica verità, già suggerita nel primo romanzo: un giorno vale dieci anni e dieci anni contano quanto un giorno, dieci o mille anni, «mille anni indifferenti e uguali», se sono anni spesi come noi li spendiamo, ad arrovellarci sulle stesse cose. È questa la ferita mortale che attraversa la bella giornata.

Perché sei rimasto?, dovremmo chiedere a Massimo, che cosa ancora ti trattiene? 

Potevo dirgli la cosa assurda? Potevo dirgli ritrovare uno solo di quei giorni intatto com’era, ritrovare una mattina per caso uscendo con la barca me stesso al punto di partenza – e rimettere tutto a posto da quel punto.

Questo libro si presta a due chiavi di lettura: è una critica mossa a una certa classe dirigente (ribattezzata “la classe digerente”), alla napoletanità come alibi e inganno, alla denuncia di un’armonia perduta che costringe Napoli a una recita permanente. È la storia, poi, di un mattino che risplende «tutto luce in fondo al mare», quel mare «felice Eldorado popoloso di pesci». È una tentazione, la bella giornata, un invito da cui fuggire e una promessa che non riusciamo a mantenere.  

Amore e psiche, infine, è una storia ambientata a Roma intorno ai primi anni Sessanta. Il protagonista è uno scrittore, ancora una volta anonimo, ancora una volta vittima delle stesse trappole mentali dei suoi predecessori. Il romanzo subisce diverse revisioni, tant’è che l’edizione pubblicata nel 1973 è una riscrittura di una versione rimasta inedita. Nel 1979, La Capria rimaneggia di nuovo il testo, ma non è davvero soddisfatto: pensa che sia troppo artificioso, anche se forse è soltanto troppo influenzato dalle vicende personali.

Posillipo

La bella giornata, nella sua accezione più pura, compare nella raccolta La neve del vesuvio. È il 1988, La Capria ha sessantasei anni e scrive alcuni racconti che hanno come protagonista un bambino di nome Tonino. I racconti sono ordinati in base al grado di consapevolezza che il bambino acquisisce attraverso piccole situazioni di ordinaria quotidianità. Lo scrittore si affida a una serie di correlativi oggettivi per condurre le riduzioni semplicistiche di Tonino a una complessità di sentimenti che sfuggono al bambino tanto quanto a noi appaiono chiare e definite

Nel capitolo d’apertura, Il tempo e il risveglio, Tonino vive la sua prima esperienza dolorosa perché scopre che le cose scompaiono. Dove vanno a finire? Dove andrò a finire, io? E Le sensazioni, Le parole, Il mare: ogni racconto è tradimento, ferita dell’anima, perciò occasione di crescita. Anche la bellezza di una giornata perfetta, perché unica e irripetibile, diventa motivo di sofferenza. Come in Ferito a morte, la bella giornata di Tonino irrompe dalle finestre: un raggio di sole s’insinua attraverso le imposte e oscilla sulla parete per annunciare una nuova opportunità. Anno dopo anno, racconto dopo racconto, Tonino abbandona la spensieratezza dell’infanzia, certo che una tale leggerezza non gli sarà più concessa. È una conquista, quindi, ma anche una perdita, nella misura in cui «i bambini conoscono attraverso lo stupore, attraverso la meraviglia del mondo. Una meraviglia che i concetti non hanno. Il tremito, il brivido dato dalla meraviglia delle cose – quella è la vera conoscenza». 

Il tema è riproposto nella raccolta Il fallimento della consapevolezza, una serie di saggi pubblicati da Mondadori nel 2018. La Capria riflette ancora sul conflitto irrisolto e irrisolvibile che nasce tra la pretesa di dominare razionalmente l’esistenza con un’ideologia – come Massimo, come il protagonista anonimo del primo romanzo, come tutti i personaggi di cui abbiamo parlato – e la vita stessa, che non si lascia dominare. In questo senso, la bella giornata è la vita che interviene sui nostri piani, che s’infrange contro le nostre certezze e ci costringe all’abbandono. A prescindere da quanti anni tu abbia vissuto: basta una sola, bella giornata.

Ciascuno di noi aspetta la bella giornata, legittimamente, tutta la vita. Anzi, è la volontà stessa di vivere. È la causa della vita, quell’attesa: una speranza che noi nutriamo, altrimenti l’esistenza sarebbe inutile viverla.

(Raffaele La Capria, 2015

Palazzo Donn'Anna, Posillipo
Palazzo Donn’Anna, Posillipo

Epilogo

Nel 2014, la bella giornata di Raffaele La Capria diventa il soggetto di un documentario. Una bella giornata. Luoghi e miti di Ferito a morte è un lavoro di Maurizio Fiume e Giuseppe Grispello; alcune istantanee ispirate dal romanzo si alternano alle riflessioni dell’autore. La voce narrante è di Roberto De Francesco, gli interventi critici sono di Silvio Perrella. Il documentario è disponibile gratuitamente su YouTube.

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