
Covavo l’idea di leggere e scrivere qualcosa che riguardasse i Balcani da un po’ di tempo, spinto da una specie di attrazione rimasta negli anni sottotraccia ma che, a fasi alterne, mi ha portato via via a interessarmi in maniera crescente dei Paesi dell’ex-Jugoslavia.
Questa, per contingenze storiche, è l’occasione perfetta per decidermi finalmente a trattare l’argomento per due motivi ben precisi: il primo, riguarda una ricorrenza che ha avuto un’importanza enorme nei Balcani, e mi riferisco al celebre Accordo di Dayton, firmato il 21 novembre in Ohio, e poi formalizzato il 14 dicembre 1995 a Parigi, che avrebbe posto fine alla guerra in Bosnia Erzegovina; il secondo, invece, riguarda l’uscita del libro Shooting in Sarajevo di Luigi Ottani curato da Roberta Biagiarelli, proprio in occasione dei venticinque anni dall’Accordo.
Durato 1.425 giorni, dal 6 aprile 1992 al 29 febbraio 1996 e costato la vita a 11.541 persone – di cui più di mille minorenni – l’assedio di Sarajevo da parte dell’esercito serbo-bosniaco è stato il più lungo assedio nei conflitti moderni e rappresenta, forse, l’evento più tragico delle recenti guerre dei Balcani che hanno sancito la fine della ex-Jugoslavia; quattro anni durante i quali i civili disarmati sono stati i bersagli dei cecchini che avevano circondato la città, costringendoli a una vita di stenti, senza acqua corrente, luce e gas.
Di colpo si fa notte
S’incunea crudo il freddo
La città trema
Livida trema 1
Shooting in Sarajevo raccoglie immagini e racconti e, oltre a essere esteticamente bello ed elegante, è anche un libro che si fa memoria storica, proprio in virtù dell’idea formidabile che sta dietro alla sua realizzazione. Le foto del libro, infatti, sono state tutte scattate dai principali punti di osservazione che sovrastano la città e da cui i cecchini sparavano sui civili durante l’assedio. In post produzione, poi, a ogni foto è stato aggiunto un mirino, che dà al lettore la sensazione angosciante di trovarsi a guardare dalla stessa prospettiva del cecchino.
Il titolo è quindi già una dichiarazione di intenti perché, come spiega Ottani, in inglese shoot si utilizza sia per sparare che per fotografare.
Cupe vampe livide stanze
Occhio cecchino etnico assassino
Alto il sole: sete e sudore
Piena la luna: nessuna fortuna 2
Io non sono per nulla esperto di fotografia, ma sinceramente l’impatto emotivo di questo lavoro, impreziosito dai racconti, tra gli altri, di giornalisti che erano in città durante l’assedio, è impressionante. È un espediente narrativo fortissimo, perché guardando le immagini, non solo vediamo quello che i cecchini vedevano attraverso i cannocchiali dei loro fucili, ma ci rendiamo anche conto di quanto fossero inermi i passanti. Tutte le persone immortalate dalla macchina fotografica di Ottani sono intente a fare le cose più banali della vita di tutti i giorni: c’è chi attraversa la strada, chi passeggia con il nipote, chi si abbraccia e chi, semplicemente, vive la propria vita incurante di tutto. La sensazione che queste foto restituiscono è, oltre all’ansia che i cittadini di Sarajevo provavano sapendo di essere potenzialmente sotto tiro in ogni occasione, senza però a loro volta poter mai vedere i cecchini appostati, anche l’idea, spaventosa, di essere seguiti dal mirino, totalmente esposti alla volontà di vita e di morte del soldati, i quali potevano decidere di distogliere lo sguardo e cercare qualche altro passante sfortunato, oppure di premere il grilletto. Per quanto la gente man mano imparasse i punti in cui era meglio non passare, o gli orari precisi in cui attraversare una determinata strada e la velocità con cui farlo, nessuno poteva mai essere sicuro di non essere visto.
Camminavo con la testa girata verso sinistra e con lo sguardo perlustravo le pendici del monte Trebević. Cercavo di scorgere qualche movimento insolito, magari una testa incappucciata che sbirciava da dietro da dietro un muro o un cespuglio, la canna di un fucile che sbucava dietro un albero. Credevo che, se i cecchini avessero visto che li stavo guardando, non avrebbero sparato. Ero convinta che avrebbero avuto vergogna delle loro intenzioni sapendo che li fissavo. Contavo sulla morale e sulla coscienza degli assassini.
Queste sono le parole di Azra Nuhefendić, autorevole giornalista bosniaca che in quel periodo abitava a Sarajevo, e che qui racconta la sensazione iniziale, quasi ingenua, di quando ancora nessuno era davvero pronto per quello che stava succedendo, e la gente non aveva ancora imparato a non soccorrere morti e feriti, diventando a loro volto bersagli facili; o di quando ancora non avevano imparato che attraversare il ponte soprannominato “Fratellanza e unità” dai sarajevesi stessi, largo e a due corsie, era praticamente come firmare una condanna a morte. Attraversare i ponti, più in generale, era una roulette russa, la stessa che toccava anche a chi percorreva quello che fu ribattezzato “il viale dei cecchini”, strada di collegamento fra gli estremi della città e che dava su uno dei punti favoriti dai cecchini, la caserma militare “Marsal Titov”.
Quel giorno, una volta attraversato indenne quel punto critico, credevo di essere al sicuro, quando ho sentito un “zaaak”: il suono secco di una pallottola conficcata dentro una corteccia del salice di fronte a me. Lo sparo proveniva dal grattacielo sotto il quale mi trovavo. Mi buttai a terra e rimasi immobile, facendo finta di essere morta, finchè il buio della notte non mi fece da scudo.
Un altro racconto che non lascia indifferenti, è quello di Gigi Riva, all’epoca inviato a Sarajevo per Il Giorno e L’Espresso, il quale si sofferma sulla figura del cecchino per riflettere sulla disumanizzazione che porta la guerra; una disumanizzazione che rischia di colpire chiunque, tanto che fra i cecchini c’erano padri di famiglia, ex olimpionici di tiro al piattello, gente che, prima ancora della guerra, la propaganda basata sull’odio etnico e religioso perpetrata per anni dai partiti politici nazionalisti aveva trasformato in assassini privi di scrupoli, in mercenari con un tariffario preciso: mille marchi tedeschi un bambino; ottocento una donna incinta, e così via. In quanto giornalista, e non senza rischi, Riva ebbe la possibilità una volta di stare con un cecchino.
Ed eccolo lì davanti: il cecchino in carne ed ossa, sempre senza un nome però con una fisionomia. Alto come i balcanici, segaligno, una corta barba curatissima, i capelli rossicci e freschi di shampoo, una cartucciera a tracolla sopra una giacca verde, i pantaloni con la riga e gli scarponi ai piedi. E poi il suo habitat: una casa diroccata di Grbavica. Lui seduto su una poltrona semisfasciata, dietro il treppiede con attaccati il fucile e il mirino […]
Per terra, un tappeto di bottiglie di birra vuote e un capace posacenere colmo di mozziconi fino all’orlo.

Nel 2014, insieme a due amici, abbiamo improvvisato un viaggio in macchina nei Balcani. Saremmo dovuti andare in Trentino a camminare, ma le previsioni davano temporali per giorni e giorni così, senza pensarci troppo, abbiamo deciso di proseguire verso la Slovenia. Da lì siamo poi scesi fino in Grecia, attraversando Croazia, Bosnia, Montenegro e Albania. Ho un ricordo nitido dei paesaggi e delle strade panoramiche bosniache, ma il rammarico più grande di quel viaggio resta quello di non esserci fermati di più a Sarajevo. In tre non abbiamo fatto nemmeno una foto durante il nostro giro in città e, in ogni caso, ci siamo rimasti solo una mezza giornata, passeggiando distrattamente, senza preoccuparci troppo di cercare le cose davvero interessanti. Quando visiti una città del genere non puoi perdere l’occasione di visitarla bene, dedicandogli il tempo che merita. Purtroppo è andata così, e benché non abbia grande memoria di quel giro, una cosa stampata nella mente ce l’ho ancora, qualcosa che aveva impressionato tutti, e da cui è impossibile non restare colpiti: arrivando in macchina, prima di scendere verso il centro della città, ti rendi subito conto che il verde delle colline circostanti Sarajevo è, per lunghi tratti, coperto da un’infinita distesa di lapidi, perché le colline circostanti sono diventate un cimitero che si estende a perdita d’occhio. Come spiega sempre Nuhefendić nel bellissimo racconto Le stelle che stanno giù, che dà il nome anche alla raccolta, ad agevolare il lavoro dei cecchini era proprio la posizione della città; il cimitero ebraico, il secondo più grande d’Europa, situato sul monte Trebević era, non a caso, uno dei punti prediletti dei tiratori scelti perché, guardandola da lì, la città sembra offerta sul «palmo di una mano».
Bella la vita dentro un catino bersaglio mobile d’ogni cecchino
la vita a Sarajevo città
Questa è la favola della viltà 3
Il cimitero ebraico, nel momento della ritirata dell’esercito serbo-bosniaco, è stato fatto saltare in aria, ma è solo uno degli importanti siti storico-culturali a essere stato distrutto. Il più doloroso attacco alla città di Sarajevo, perché importante simbolo dell’integrazione e della memoria di popoli, culture, etnie e religioni che hanno convissuto pacificamente per secoli, è rappresentato dal bombardamento della Biblioteca Nazionale che, prima della guerra, custodiva un milione e mezzo di libri, tra cui 155.000 esemplari rari.
Iniziato il 25 agosto del 1992, «dopo tre giorni di rogo, della biblioteca bruciata rimanevano lo scheletro di mattoni e dieci tonnellate di cenere», scrive l’autrice bosniaca in Neve nera, racconto in cui ripercorre quei momenti alternando i ricordi personali alla storia della Biblioteca Nazionale.
Il valore aggiunto di una raccolta come Le stelle che stanno giù è proprio la capacità di Azra Nuhefendić di riuscire a inserire all’interno della narrazione, a tratti molto poetica e per lo più basata su ricordi di giovinezza e sulle esperienze vissute in prima persona durante la guerra, tante note storiche che aiutano a capire i sentimenti dei protagonisti e il contesto, che è fondamentale, senza mai però risultare didascalica. C’è infine un’ultima immagine, sempre in Neve nera, significativa e drammatica: il famoso violoncellista bosniaco Vedran Smailović che, commosso alle lacrime, suona sui resti dell’edificio ormai distrutto.
Brucia la biblioteca i libri scritti e ricopiati a mano
Che gli Ebrei Sefarditi portano a Sarajevo in fuga dalla Spagna
S’alzano i roghi al cielo
S’alzano i roghi in cupe vampe
Brucia la biblioteca degli Slavi del sud, europei del Balcani
Bruciano i libri
Possibili percorsi, le mappe, le memorie, l’aiuto degli altri
S’alzano gli occhi al cielo
S’alzano i roghi in cupe vampe 4