Racconti parigini. Pochi racconti e tanta nostalgia

La mia Parigi inizia nella pensione di Madame Vauquer nata Conflans, nelle prime pagine di Père Goriot1. Comincia con un centrino di pizzo su una tavola sporca, tra i pensionanti che mangiano in silenzio come sposi anziani che non hanno più nulla da dirsi. Un’immagine che all’epoca della prima lettura mi colpì profondamente restando impressa nel mio immaginario come poche altre cose letterarie. Al pari forse di un passaggio tratto da Le dérnier jour d’un condamné, lo splendido romanzo breve che Victor Hugo scrisse a ventisei anni come requisitoria contro la pena di morte.  

Il protagonista-condannato, che resta anonimo per tutto il libro, si trova a bordo della camionetta che lo sta portando in prigione. A mano a mano che si avvicina alla costruzione, nota nuovi dettagli. Metro dopo metro, l’edificio si trasforma e si spoglia della sua aria di antico castello per rivelare il suo vero aspetto: è in realtà un forte degradato, senza i vetri alle finestre e pieno di sbarre, tanto deturpato che sembra quasi avere la lebbra. «È la vita vista da vicino». «C’est la vie vue de près»2 è la sentenza netta e amara a chiusura della descrizione. Fulmine per me e applausi per Hugo, che insieme a Balzac e Zola, divenne il mio maestro di grandeur. La punta più avanzata del mio personale Pantheon delle meraviglie letterarie francesi.

La mia Parigi continua poi al fianco di Lucien de Rubempré de Le illusioni perdute, un giovane di provincia che vuole farsi largo in una città che sembra fatta di guanti costosi comprati per entrare nei circoli mondani e sperare di lasciarvi il segno. Una metropoli fascinosa e crudele fatta anche di redingote rattoppate, pizzi squisiti e calze rammendate, bastoni da passeggio e casette squallide nei vicoli del quartiere latino.

Insieme a Lucien, sul Pont Neuf c’è anche Gringoire, il poeta di Notre-Dâme de Paris, incrociato per la prima volta su una spiaggia calabrese l’estate dopo la maturità, mentre decidevo a quale facoltà iscrivermi. Un personaggio ritrovato in vesti ben più gagliarde nell’opera musicale composta da Cocciante. Amatissima.

La vista da Notre-Dame de Paris
Foto: Kalisa Veer su Unsplash

Poi ci sono D’Artagnan, Athos, Porthos, Aramis e (ovviamente) Lady Oscar, che nella mia città immaginaria convivono con i romanzi e i racconti di Dumas, Gautier, Maupassant, Hemingway e Fitzgerald. Un miscuglio di titoli, immagini e versi che finiscono nel pugno chiuso di Eugène de Rastignac, l’eroe che giura vendetta all’intera Parigi nel finale di Père Goriot. Un pugno chiuso in cui c’è tutto, la gloria e il fallimento.

È dunque con questo immaginario e con molte aspettative che ho letto Racconti parigini, la raccolta uscita lo scorso dicembre per Einaudi con la cura di Corrado Augias.

Due obiezioni di una lettrice di racconti

Prima di tutto un’obiezione di forma. Scorrendo l’indice, si comprende che la dicitura “racconti” della copertina non fa riferimento al genere racconto, ma a un concetto molto più ampio che tiene insieme diverse tipologie di scritti. È quindi un’antologia di grande letteratura e saggistica, con qualche tocco di mémoir, ma i racconti propriamente detti sono la netta minoranza: sei su venti. Pochi per un libro che in copertina riporta il titolo Racconti parigini. Almeno secondo il mio modestissimo parere.

Seconda obiezione. Tolta la ricca introduzione di Corrado Augias, che spazia dallo Zibaldone al De rerum natura passando per Jean-Paul Sartre e Dan Brown ed è molto chiara nell’insistere sulle «possibilità descrittive di Parigi», resta la percezione di una mancanza. Il lettore che si addentra in questa città «materiale, storica e letteraria» si trova paradossalmente senza molte coordinate ed è costretto a mettere insieme i pezzi affidandosi alle scarne note bibliografiche poste alla fine del libro. Troppo poco sia per chi di letteratura ne sa poco, sia per chi di Hugo e colleghi ne sa molto e si aspetta un viaggio di altro tipo.

La logica della raccolta, spiegata da Corrado Augias

Capito che non si tratta di una raccolta di racconti brevi, nei minuti che mi ha gentilmente concesso al telefono, Corrado Augias ha risposto alle tre domande che seguono.

Come è avvenuta la selezione dei testi raccolti in Racconti parigini?

«Ho scelto quello che mi sembrava più divertente e utile per abbracciare i diversi punti di vista dai quali Parigi può essere raccontata. Questo è stato il criterio. Non ho tenuto conto della maggiore o della minore brevità perché non mi pare sia un criterio da prendere in esclusiva. Un’antologia di racconti brevi è un altro discorso, ma se si vuole fare un’antologia su Parigi la brevità diventa un carattere secondario».

In Funzione di Parigi, Victor Hugo scrive: «In un’epoca in cui le dottrine sanciscono l’immobilità, bisogna fare un favore al genere umano, dimostrare capacità di movimento. E Parigi la dimostra. Come? Essendo Parigi. Essere Parigi significa camminare». È ancora così? Parigi sta camminando?   

«Parigi è stata a lungo il centro della vita culturale del mondo, un ruolo interpretato con gaiezza, allegria e un certo libertinaggio, ma di tutto questo oggi è rimasta solo l’ombra. È in declino la città ed è in declino la Francia che cerca di restare a livello delle grandi potenze ma fatica a causa di tutto ciò che sta succedendo in Cina, India, Brasile e Russia. Questi piccoli Paesi europei sono destinati a subire, e se non ci fosse nemmeno questo embrione di Europa sarebbero letteralmente schiacciati. La Francia e Parigi subiscono».

E di questo declino c’è traccia nella letteratura di oggi?

«No, c’è però traccia di una profonda inquietudine. Se legge i libri di Michel Houellebecq vede che questa inquietudine è portata all’angoscia. Non si racconta il declino, ma il segno della sofferenza e della crisi, nel senso etimologico greco del termine. C’è la sofferenza causata dal cambiamento rivoluzionario che stiamo attraversando. Sommato al fatto che stiamo passando dalla civiltà della carta alla civiltà digitale. Un passaggio dalle conseguenze immense».

E qui torna Hugo con il suo «Ceci tuera cela» («Questo ucciderà quello») in Notre-Dame de Paris.

Esatto.

Lo sguardo che cambia: da Zola a Perec

Parigi e i suoi ponti
Foto: Leonard Cotte su Unsplash

Compreso il perimetro di Racconti Parigini, c’è molto su cui riflettere perché il bello delle antologie è che a volte tra i testi (a seconda di chi li legge) nascono dialoghi “involontari” molto suggestivi. Come quello tra i Taccuini di Zola e Tentativo di esaurimento di un luogo parigino di Georges Perec.

Letti uno dopo l’altro, i due testi sembrano portare sotto ai nostri occhi la frattura tra due secoli. Apparentemente Zola e Perec fanno la stessa cosa, cioè guardarsi intorno e prendere appunti, ma si tratta di due esercizi di osservazione con esiti molto diversi.

Mentre tra le righe di Zola percepiamo già in embrione centinaia di possibili storie, tra le righe di Perec scorgiamo uno specchio che riflette e frantuma l’io di chi scrive. Perec guarda fuori ma in realtà si guarda dentro.

Zola:

Di là dal pont Louis-Philippe la curva formata dalla fila dei lungosenna di destra, chiusa nella bruma in lontananza dal pavillon de Flore sporgente come una roccaforte. Si scorgono tutti i ponti allineati (elencarli) e gli sprazzi di luce sotto, l’acqua come seta marezzata. Quando il sole tramonta dietro la riva sinistra, l’île Saint-Louis e la Cité, i lungosenna a sinistra sono in ombra mentre a destra sfavillano. La gloria accecante del sole in alto. Un tramonto dopo un acquazzone, il sole che riappare dietro una nube, l’effetto che fa: l’orizzonte intero perso in un vapore iridato.

Perec:

Passa un pulitore dei canali di scolo. In confronto a ieri cosa c’è di cambiato? A prima vista, sembra tutto uguale. Forse il cielo è più nuvoloso? (…). Bevo una vittel mentre ieri prendevo un caffè (in che cosa questo trasforma la piazza?). 

Omaggio al maestro dimenticato: Guy de Maupassant

A mio parere, il testo che più di tutti condensa il fascino ambiguo di Parigi è proprio un racconto breve di un autore ingiustamente trascurato: Guy de Maupassant.

In Un’avventura parigina, una giovane donna decide di fuggire dalla piattezza della provincia per provare almeno una volta nella vita l’ebbrezza della grande metropoli. Arrivata a Parigi di nascosto dal marito, entra in una bottega di un’antiquario dove incontra per caso un personaggio famoso, lo scrittore Varin. Per attirare la sua attenzione, si offre di acquistare il ninnolo costosissimo che Varin ha appena riposto scoraggiato dal prezzo. Pur tra qualche imbarazzo, lei compra il ninnolo e subito dopo si lancia con il nuovo compagno in un tour frenetico della città che si rivela essere «un’apoteosi di lusso magnifico e corrotto». Apoteosi che il mattino successivo, mentre osserva gli spazzini pulire le strade, le appare sotto un’altra luce.

E le sembrava che anche dentro di lei avessero spazzato via qualcosa, da spingere nel rigagnolo, nella fogna: i suoi sogni esaltati. 

Applausi a Maupassant, che in qualche modo chiudendo il suo racconto sembra quasi richiamare idealmente Valery 3: più ci si sforza di vivere Parigi, più ci si accorge di essere vissuti da lei.

  1. Honoré de Balzac, Papà Goriot, Garzanti
  2. Victor Hugo, Le Dernier Jour d’un Condamné, Gallimard, 2000. Pag. 48-49
  3. «Pensare PARIGI?… Più vi si pensa, più ci si sente, al contrario, pensati da PARIGI». Tratto da Funzioni di Parigi / Presenza di Parigi, in “Sguardi sul mondo attuale”, Adelphi, 1994
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