È andata così: ho cominciato a prendere appunti per questo articolo sui racconti di Roberto Bolaño e Alejandro Zambra alcuni mesi fa, molto tempo prima che scoppiasse la contestazione in Cile. Ora mi ritrovo a rifinirlo mentre per le strade e le piazze di Santiago, Valparaíso e di altre importanti città di quel Paese latinoamericano stanno sfilando e protestando milioni di persone. È un fattore di cui devo tenere conto, mi dico, quantomeno mentre scrivo devo tenere l’orecchio teso, perché alcuni degli avvenimenti che stanno accadendo in questi giorni potrebbero trovare una chiave di lettura nel materiale che sto consultando.

Tenere l’orecchio teso significa sicuramente leggere le notizie che arrivano dal Cile e consultare gli spazi di approfondimento dedicati. Ce n’è uno in particolare, quello di Edicola ediciones, che propone articoli tradotti in italiano quasi in tempo reale. Con lo spagnolo me la cavo, ma il mio è uno spagnolo da autodidatta, ci sono sfumature che temo di non cogliere bene, per cui gli articoli tradotti che sto leggendo in questi giorni mi stanno aiutando a capire qualcosa di più su quello che sta accadendo in Cile e anche a ripercorrere quello che è successo negli ultimi anni in un Paese che dall’Italia in cui vivo e scrivo appare oggi paradossalmente lontano e vicino. Tra Italia e Cile ci sono molte differenze, certo, ma quello che sta accadendo laggiù non è molto diverso da ciò che sta accadendo in altre forme anche qui da noi. Un importante cambiamento è in atto nella società Occidentale e – anche se è ancora difficile capire se sarà epocale o meno – in molti Paesi se ne avvertono quantomeno i sintomi. Si tratta di un progressivo aumento della distanza tra benestanti e poveri, tra una piccola parte della popolazione, la più ricca, che trae un enorme beneficio economico dallo status quo attuale, e una classe media che si vede sempre più povera e precaria. In questo senso c’è un nesso tra gli eventi di queste ore in Cile e ciò che potrebbe accadere anche da queste parti in futuro se non si riprende la strada della ridistribuzione equa delle risorse e se non si trova modo di allentare la pressione su quelle fasce di società ancora provate dalla grande crisi economica mondiale scoppiata ormai un decennio fa. Da noi la pressione fiscale ed economica sulle fasce della popolazione più in difficoltà e sulla classe media ha acuito il grande sentimento di sfiducia nelle istituzioni democratiche di cui ha sempre sofferto il nostro Paese, facendo riemergere (quantomeno sulla superficie del discorso politico) certe affermazioni e ideologie che credevamo superate, se non sconfitte dalla Storia. In Cile, invece, la pressione economica e fiscale sulla classe media sta portando il Paese a fare i conti con la sua Storia recente, una Storia che era rimasta irrisolta, come nascosta sotto un tappeto, e che ora sta tornando drammaticamente a galla. Parlo del regime militare di Pinochet, naturalmente, e della transizione alla democrazia, avvenuta in Cile intorno alla fine degli anni Ottanta. Non mi addentro oltre nel discorso, soprattutto perché non sono padrone di tutti gli strumenti per commentare gli eventi né tanto meno per offrire delle analisi, ma quello che mi pare evidente, quantomeno per ciò che riguarda il Cile, è che buona parte della letteratura cilena non ha mai smesso di fare i conti con il passato recente del Paese. E lo ha fatto evocando e allo stesso tempo esorcizzandone i fantasmi.
Fantasmi di ritorno
Certe immagini evocano fantasmi. Nel caso specifico del Cile, alcune immagini che scorrono sui nostri schermi in questi giorni evocano un recente passato di dittatura e repressione. Ma da queste parti si parla di letteratura, per cui provo a raccontare alcuni fantasmi del Cile attraverso le parole di due autori che amo molto, senz’altro per come hanno saputo interpretare in forma narrativa il loro rapporto con la Storia recente del Paese latinoamericano. Sto parlando di Roberto Bolaño e Alejandro Zambra.
Di dettagli e di vuoti
La cattiva letteratura racconterebbe il Cile di questi giorni in maniera diretta, al limite della cronaca. È una cosa che fa sempre, la cattiva letteratura: prendere le cose di punta e raccontarle così come appaiono. Non mi ci soffermo oltre: vi dico soltanto che per me è cattiva letteratura quella che porta con sé un certo giudizio sui fatti o che trasuda di un eccesso di trasporto emotivo da parte dell’autore o dell’autrice. La buona letteratura, invece, è quella che lavora sui dettagli e intorno ai vuoti. Sui primi si potrebbe dire che più sembrano insignificanti rispetto alla vicenda raccontata più hanno valore. Sui secondi, invece, occorre una precisazione: i vuoti sono quelle elisioni consapevoli, quella massa sommersa dell’iceberg, per dirla alla Hemingway, che costituisce la parte più importante della storia. Questi vuoti sono naturalmente qualcosa che lo scrittore conosce bene, altrimenti, come dice sempre Hemingway «le lacune si noteranno». La buona letteratura è una letteratura costruita sui fragili bordi dei vuoti e più tali vuoti sono oscuri e profondi più l’autore è bravo a guardarci dentro senza sprofondarci, più il risultato è straordinario. Vi faccio un esempio che mi sembra piuttosto chiaro: pensate alle opere di Primo Levi, pensate alla voragine nera della storia dell’umanità in cui è precipitato fisicamente, pensate a quando ha dovuto riguardare là dentro per scrivere e infine pensate al modo in cui ha scritto i suoi libri, alla straordinaria oggettività scientifica della sua penna. Tempo fa, su queste pagine, ho scritto del Sistema periodico di Primo Levi sottolineando come l’esperienza nel campo di concentramento – il tema intorno cui si è misurata in buona parte la letteratura leviana – sia solo in apparenza marginale. In merito alla raccolta Il sistema periodico scrissi che «l’argomento Auschwitz è un grande cratere su cui Levi si affaccia, cui accenna, ma non affronta mai con la stessa tesa lucidità di altre sue opere». Eppure è proprio intorno al fantasma del campo di concentramento, all’evocazione lasciata al “rumore di catene” che qua e là si avverte in molti racconti, che la raccolta nel suo complesso diventa uno strumento eccezionale di indagine e memoria.
Intorno al vuoto
Se per Levi Auschwitz è il vuoto intorno cui produrre letteratura, per i due autori cileni di cui vi parlerò di qui in poi il vuoto è costituito rispettivamente dal golpe di Pinochet del 1973 e dal processo di transizione alla democrazia che ha vissuto il Cile a fine anni Ottanta.
Roberto Bolaño: tra detective e poesia
«Una segretaria dell’università gli ha detto che come minimo dovrebbe essere espulso. E dove? Ha gridato Belano. Nel suo paese, giovanotto, ha detto la segretaria. Ma lei è analfabeta?, ha detto Belano, non ha letto qui che sono cileno? Fareste prima a spararmi un colpo in bocca. Hanno chiamato la polizia e siamo scappati di corsa. Non avevo idea che Belano fosse un clandestino qui da noi»1.
Il primo dei due autori è Roberto Bolaño. Nato a Santiago nel 1953, e vissuto in Cile fino all’età di quindici anni, Bolaño trascorse la sua adolescenza in Messico, dove si era trasferito con i genitori. Nell’estate del 1973, poche settimane prima del golpe dell’11 settembre, rientrò in Cile per appoggiare il processo di riforme socialiste di Salvador Allende, come raccontò lui stesso in questa intervista. Si ritrovò coinvolto negli eventi che seguirono il colpo di stato di Augusto Pinochet e fu arrestato e incarcerato. Bolaño ha riportato anche le circostanze della sua liberazione: riconosciuto da due suoi ex compagni di scuola, fu rilasciato dopo otto giorni. Questo evento, e più in generale il trauma collettivo causato dal colpo di stato, ha costituto per Bolaño proprio del materiale per fare letteratura. Un fatto naturale, questo, ma la singolarità di Bolaño non è che cosa abbia scritto in merito, ma come l’esperienza del golpe si sia trasformata in materiale narrativo2.
In generale la letteratura di Bolaño si intreccia continuamente con il tema dell’esilio e dell’impossibilità del ritorno. I personaggi bolañani sono condannati a un persistente senso di precarietà ed estraneità al contesto che li circonda. Così i legami e le amicizie non possono che svilupparsi seguendo due filoni: 1) la passione condivisa per la poesia; 2) la comune situazione di esuli. Come in un gioco di specchi, dove l’autore ha giocato facendo della propria vita da esule letteratura, i personaggi bolañani fanno della letteratura la loro vita. Per inseguire tale scopo, però, non si possono sottrarre a un’esistenza raminga.
Nelle opere narrative di Bolaño la poesia spesso costituisce uno strumento d’indagine e di salvezza. Talvolta, invece, la poesia agisce in maniera sotterranea, come uno stampo in cui versare materiale liquido che si cristallizza in nuova letteratura. In questo secondo caso la poesia rimane in trasparenza, costituisce il rovescio su cui innestare i fatti della vita. Mi riferisco per esempio al racconto I detective, contenuto nella raccolta Chiamate telefoniche, un racconto che è stato costruito da Bolaño sullo spunto della poesia Saranguaco di Nicanor Parra3. La poesia di Parra, una sorta di dialogo folle e impossibile, costituisce la base su cui lo scrittore cileno ha innestato un dialogo tra due poliziotti che ricordano i giorni successivi al golpe del 1973, e in particolare l’episodio in cui riconoscono il loro vecchio compagno di scuola Arturo Belano in prigione. Il racconto è un’occasione per raccontare le conseguenze psicologiche di un trauma nazionale, di una ferita che in buona parte non si è ancora rimarginata neppure oggi.
«Nei sogni mi appaiono i morti, insieme a quelli che non sono né vivi né morti».
«Come non sono né vivi né morti?».«Voglio dire quelli che sono cambiati, che sono cresciuti, come noi, senza cercare altri esempi».
«Ho capito, non siamo più bambini, è questo che vuoi dire».
«E a volte mi sembra che non riuscirò più a svegliarmi, che ho mandato tutto a puttane per sempre».
«Sono solo fisse, nient’altro, sai».
«E a volte mi viene tanta rabbia che devo cercare un colpevole, mi conosci, no, quelle mattine che arrivo con la faccia scura, cerco il colpevole, ma non trovo nessuno o peggio ancora trovo quello sbagliato e sto di merda».
[…]
«E allora penso che questo paese è andato a catafascio da tempo, che noi altri siamo rimasti qui per essere tormentati dagli incubi, solo perché qualcuno doveva rimanere a ciucciarsi i sogni»4.
Alejandro Zambra: il ricordo attraverso i documenti
«Nel marzo del 1988 entrai all’Instituto Nacional. E poi vennero, contemporaneamente, la democrazia e l’adolescenza. L’adolescenza era vera. La democrazia no»5.
C’è una forma di memoria che trova alimento nei ricordi altrui. È una memoria di seconda mano, propria di chi è costretto a fare i conti con episodi accaduti poco prima della propria nascita o nel periodo dell’infanzia. È una memoria non meno importante di quella di prima mano, ma che a differenza di quest’ultima possiede una tendenza a elencare gli eventi per trovarne una spiegazione.

Alejandro Zambra, nella raccolta I miei documenti, pubblicata in Italia da Sellerio nel 2015, si è mosso in questi territori della memoria. Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, in particolare, lo scrittore cileno racconta la propria infanzia e giovinezza nel Cile degli anni Ottanta. Un Paese governato dalla dittatura militare di Pinochet e che a poco a poco procede verso la democrazia.
Cileno, classe 1975, Zambra non può che raccontare per interposta memoria i fatti storici che hanno interessato il suo Paese pochi anni prima della sua nascita. In I miei documenti il colpo di stato di Pinochet non è narrato direttamente, ma è un evento che getta la sua ombra lunga sulla quotidianità di una famiglia della media borghesia. Non si deve però pensare a un’ombra asfissiante, ma piuttosto a una presenza silente che circonda e sovrasta l’esistenza di una famiglia comune della Santiago degli anni Ottanta. La quotidianità di un bambino che cresce nel Cile di quegli anni apparentemente non è dissimile a quella di un qualsiasi bambino cresciuto in una democrazia Occidentale: la sua vita è scandita dai ritmi della scuola dell’obbligo, dalle dinamiche familiari e dalle attenzioni e dall’affetto dei parenti più prossimi (in particolare la nonna, che mette ogni evento della sua vita in relazione al terribile terremoto del 1939, e la madre, che trova nella musica di Simon & Garfunkel una sorta di spazio di evasione). Tuttavia, l’adolescenza del narratore scorre in parallelo allo sfaldamento del regime dittatoriale che governa il Paese (nel 1986 Pinochet subisce un attentato e alla fine degli anni Ottanta si completa quella che è considerata una transizione verso la democrazia). E qui, quella che nell’economia del racconto era rimasta una presenza sotterranea e silente, ovvero la memoria ereditaria del golpe, si manifesta attraverso una presa di consapevolezza. Attraverso l’ascolto delle canzoni di alcuni musicisti che si sono opposti al regime, e alla frequentazione della casa di un suo coetaneo, il narratore scopre la sua profonda ignoranza rispetto alla Storia del suo Paese:
«Da loro sentii parlare per la prima volta delle vittime della dittatura, dei detenuti scomparsi, degli assassini, delle torture. Li ascoltavo perplesso, a volte me la prendevo con loro, altre volte mi rifugiavo in un certo scetticismo, sempre pervaso da un senso di inadeguatezza, di ignoranza, di pochezza, di estraneità.
[…] Capii che un modo efficace per garantirmi un’appartenenza era stare zitto. Capii o cominciai a capire che i telegiornali mascheravano la realtà, e che facevo parte di una moltitudine conformista e neutralizzata dalla televisione. Adesso la mia idea di sofferenza era l’immagine di un bambino che ha paura di vedere assassinati i propri genitori, o che cresce senza conoscerli se non in poche fotografie in bianco e nero. Anche se facevo il possibile per staccarmi dai miei, perderli era per me l’idea più desolante che potessi immaginare».
- Questo frammento è tratto dalla terza parte dei Detective selvaggi. Arturo Belano, personaggio identificabile come un alter ego letterario di Bolaño, è alle prese con una zelante segretaria dell’università. Siamo nel 1976 e Belano, insieme al suo gruppo di amici e poeti, sta vagando da giorni per lo stato del Sonora, in Messico, alla ricerca della poetessa Cesárea Tinajero.
- Certamente tra le opere dell’autore cileno più rappresentative sull’argomento ci sono i romanzi Stella distante e Notturno cileno. Ma in questo spazio dedicato al racconto mi soffermerò maggiormente sulle sue opere brevi, in particolare un racconto contenuto in Chiamate telefoniche.
- Dall’intervista a Roberto Bolaño uscita su Lateral. Revista de cultura, numero 40, aprile 1998.
- Roberto Bolaño, I detective, da Chiamate telefoniche, Adelphi. Traduzione di Barbara Bertoni.
- Alejandro Zambra, I miei documenti, Sellerio. Traduzione di Maria Nicola.