«Altre parti caddero nella buona terra; portarono frutto, che venne su e crebbe, e giunsero a dare il trenta, il sessanta e il cento per uno».

In questo universo, non si può prescindere l’opera letteraria di Primo Levi senza l’esperienza del campo di concentramento. Un giorno, durante una conversazione con un amico, lui disse che scrittore lo era diventato proprio a causa di quello che gli era capitato. Oggi, mentre grazie al lavoro della critica e al lavorio degli anni anche i suoi racconti extra lager vengono sempre più letti e apprezzati, rimane ancora la percezione comune che fu proprio quello l’evento scatenante che fece nascere lo scrittore dal chimico.
Ad alimentare questa fama è stato lo stesso Levi, che disse di aver scritto Se questo è un uomo di getto, senza pianificazione. Salvo poi redimersi (ma senza perdere il gusto per il depistaggio) molto tardi, nel 1985 intervistato da Germaine Greer:
La scrittura non è mai spontanea. In realtà, ora che ci penso, capisco che questo libro è colmo di letteratura, letteratura che ho assorbito attraverso la pelle anche quando la rifiutavo e la disdegnavo (giacché sono sempre stato un cattivo studente di letteratura italiana).
Levi fu infatti un cattivo studente, se vogliamo guardare le sue pagelle: al ginnasio fu rimandato in italiano, insieme a un’illustre compagna di classe, Natalia Ginzburg, la quale al liceo femminile avrà come insegnante Cesare Pavese. È inoltre da segnalare come, nonostante già intorno ai sedici anni l’autore avesse espresso il desiderio di intraprendere la professione di chimico, Levi aveva comunque continuato a frequentare il liceo classico, facendo copiare ai compagni i compiti di latino e collaborando come redattore del giornalino scolastico D’Azeglio sotto spirito, dove pubblica la sua prima poesia, di argomento prettamente scolastico.
Nel racconto Un lungo duello, ambientato in quel periodo, descrive la sua classe come «Una mostruosa Prima Liceo composta da quarantuno studenti, tutti maschi e quasi tutti zotici, selvaggiamente impermeabili al sapere che ci veniva somministrato»; eppure raccontando del “gioco degli schiaffi” un barbaro gioco di aroma adolescenziale, non manca di sottolineare come lui avesse evitato uno schiaffone citando Dante e sorprendendo l’onorevole schiaffeggiatore. E nello stesso racconto gerarchizza le materie posizionando all’ultimo posto proprio la letteratura italiana, ma senza dimenticare di aggiungere che questa classificazione: «[…] era stata generata prevalentemente dal talento e dal calore umano dei rispettivi insegnanti».
Piuttosto (oppure oltre?) che dal liceo Gentiliano, dove assorbe con sorprendente profondità il canone italiano da Dante a Manzoni, la formazione letteraria di Levi passa dalla famiglia. Il padre Cesare, ingegnere e appassionato di scienza, è anche un feroce lettore, tanto che si fa cucire delle tasche apposite nel cappotto per poter trasportare i libri più agevolmente (i tascabili ancora non esistevano, eh). E tranne che per le opere del concittadino Salgari, vittima di un oscura repulsione, la biblioteca di famiglia viene costantemente arricchita da opere di ogni tipo, tra cui classici come Gargantua e Pantagruele di Rabelais, a cui dedica un affettuoso saggio breve nella raccolta Il mestiere altrui. Ed è proprio questa raccolta che ci aiuta nella comprensione della formazione Leviana:
Se ancora necessario, devo confessare che sto parlando qui di una mia vecchia debolezza, che è quella di occuparmi a ore perse di cose che non capisco, non per edificarmi una cultura organica, ma per puro divertimento: il diletto incontaminato dei dilettanti. Preferisco orecchiare che ascoltare, spiare dai buchi della serratura invece di spaziare sui panorami vasti e solenni; preferisco rigirare tra le dita una singola tessera invece di contemplare il mosaico nella sua interezza.
Un modo di approcciarsi alla letteratura che sembra nuovamente naif e spontaneo ma che non deve dimenticarsi di altri dettagli: ad esempio quando, trasferitosi per lavoro a Milano nel 1941, tra i pochi bagagli della sua valigia già da tempo di guerra, porta proprio un libro, il Moby Dick tradotto da Cesare Pavese e da poco ripubblicato. Negli anni universitari legge Mann, Huxley, Sterne, Tolstoj, Darwin, con la tranquilla curiosità di qualcuno che non è obbligato a nessun canone se non dal suo stesso gusto.
Levi è un entusiasta linguista. Levi è un entusiasta curioso di qualsiasi argomento, ma le parole e il loro senso lo solleticano particolarmente. È poliglotta, e rivendica da parte sua la conoscenza di cinque lingue: italiano, francese, tedesco, inglese e piemontese. Quanto le conosce? Del tedesco sappiamo come lo aiutò a salvarsi ad Auschwitz, ma sarebbe anche bene ricordare che lo approfondì a tal punto da arrivare a tradurre in italiano Il processo di Kafka; dell’inglese ci racconta le fatiche dello studio in età avanzata in Tornare a scuola, al piemontese dedica interi articoli pieni di affetto e nostalgia, del francese basti dire che legge la Cosmogonia di Quenau e la capisce. A queste lingue, possedute ad un livello che personalmente invidio, bisogna aggiungere l’ebraico scolastico della sua formazione infantile, l’yiddish e le lingue dell’Europa askenazita, il greco, il latino. Levi frequenta le parole e i dizionari etimologici con passione mai sopita, riflette sul loro senso e la loro origine, anche in questo caso con un’entusiasmo che non può essere nato dalla Babele del campo.
Levi racconta, fin da quando torna a casa. E non è solo la necessità della testimonianza a spingerlo, il terrore di non essere creduti, la paura di essere dimenticati, parallelamente lo spinge il gusto stesso della narrazione, delle sue avventure, prima ai parenti, poi agli amici, poi al mondo. Ha una necessità di scrittura che trascende la Storia ma che si scontra con la vita: le sue prime opere vengono respinte o hanno uno scarso successo, “è troppo presto”, e questo lo convince a trovarsi una vera professione per vivere, fa il chimico in una fabbrica di vernici fino al 1975, quando, finalmente in pensione, può tornare ad essere ciò che è sempre stato: uno scrittore.
Passata quasi inosservata nella tarda produzione di Primo Levi, La ricerca delle radici, è una breve antologia in cui l’autore raccoglie brevi brani di opere che hanno avuto un significato durante la sua vita. Levi non si limita ad accumulare una bibliografia o a introdurre ogni selezione, ma nella prefazione fornisce anche le istruzioni necessarie per “navigare” il libro: liberamente, come opera di consultazione, oppure seguendo uno dei percorsi creati da Levi, secondo il suo gusto e la sua intenzione, anche in questo caso, autoriale. Un libro fatto di libri, in cui un posto centrale è concesso alle avventure gigantesche di Gargantua e Pantagruel, i giganti immaginati da François Rabelais, rivelando una sfaccettatura dell’uomo che vuole mostrarsi attraverso lo scrittore:
In tutta questa opera sarebbe difficile trovare una sola pagina triste, eppure il savio Rabelais conosce bene la miseria umana; la tace perché, da buon medico anche quando scrive, non l’accetta, la vuole guarire:
Mieux est de ris que de larmes écrire.
Pour ce que rire est le proprie de l’homme.
Di nuovo il diletto, il divertimento. La curiosità bambinesca del mondo, da conoscere attraverso gli strumenti della chimica o della letteratura. Se non ci fosse stato il campo, la guerra, il fascismo, forse Levi non avrebbe scritto, non avrebbe mai trovato la sufficiente motivazione. Ma se noi guardassimo tutto da un’altra prospettiva. Tra i sei milioni e più di vittime, tra le migliaia e migliaia di persone i cui pensieri sono andati perduti, tra le tante persone che sono riuscite a sfuggire alla distruzione, solo pochi hanno trovato dentro di sé le risorse per trasformare la tragedia in arte, sublimarla, trasmetterla. Un seme aveva spinto le sue radici in profondità, dove aveva trovato nutrimento per crescere.
Proviamo ad immaginare un Primo Levi in un’ucronia contemporanea. Ormai in pensione dal suo lavoro di chimico, nel Regno d’Italia del 1970, sazio di libri e di vita, finalmente può dedicarsi alla sua passione: complice lo sbarco sulla Luna realizzato dai sovietici l’anno prima, un anonimo chimico torinese scriverà i migliori racconti di fantascienza italiani mai scritti, pieni di arguzia, satira e curiosità per le cose di lassù.