Meraviglie orientali di Natsume Sōseki

Quest’anno è il centocinquantesimo anniversario della nascita di Natsume Sōseki, mentre l’anno scorso è stato il centenario dalla morte, e se queste ricorrenze sono passate inosservate nel nostro Paese, Edizioni Lindau ha pensato bene di celebrarle con questa raccolta, freschissima di stampa, di racconti brevi dell’autore giapponese.
La prima cosa a colpirmi di questa raccolta è stata il titolo, tradotto con Piccoli racconti di un’infinita giornata di primavera, che ha subito catturato la mia attenzione, complici un inizio maggio freddo e una voglia di una primavera che stenta a fare capolino. È quindi con sorpresa che, leggendo l’introduzione (a cura di Tamayo Muto, che si è occupata anche della traduzione) ho appreso che una delle interpretazioni del titolo è proprio il sentimento di attesa delle giornate primaverili, e il desiderio che queste possano non finire mai. Permettetemi una piccola nota per complimentarmi con traduttrice ed editore, la cura nella traduzione è evidente anche ad un profano (come il sottoscritto) e i molti termini giapponesi rimasti in lingua originale sono accompagnati da note minuziose che ne chiariscono il significato.
Sōseki nacque nel 1867 e morì nel 1916, visse quindi durante l’epoca Meiji, detta anche della restaurazione, o del rinnovamento. Questo periodo storico fu caratterizzato dal ritorno al potere della figura dell’imperatore, dopo anni di dominazione degli shogun, e per il Giappone significò l’ingresso nell’epoca della modernità e l’inizio di una serie di riforme che portarono il Paese a diventare una potenza economica e militare. Sōseki ebbe un’esistenza ricca ma travagliata, seppur figlio di una famiglia influente infatti non fu particolarmente amato dai genitori (tanto che visse per alcuni anni in affido) e gli anni della sua infanzia e adolescenza segnarono profondamente la sua personalità. Cresciuto si specializzò in letteratura inglese all’Università Imperiale di Tokyo e successivamente iniziò ad insegnare presso vari istituti, carriera che proseguì per alcuni anni. Dal 1900 al 1903 si recò in Inghilterra, su incarico del governo, per condurre ricerche (Sōseki era considerato tra i massimi esperti di letteratura inglese del Giappone). Gli anni inglesi furono tuttavia molto infelici, e minarono la sua salute fisica e mentale. Sōseki non sentendosi a suo agio nell’ambiente universitario scelse di proseguire i suoi studi da autodidatta, passando il suo tempo a leggere libri chiuso nella sua stanza.
Alcuni anni dopo, a proposito del suo periodo inglese, scrisse:
«I due anni che passai a Londra furono tra i più sgradevoli della mia vita. Tra i gentlemen io vivevo in miseria, come un cane qualunque, messo controvoglia a far parte di un branco di lupi».[1].
Richiamato in patria iniziò la sua collaborazione con il quotidiano Asahi Shinbun, e la sua carriera letteraria, iniziata con la composizione di haiku. I racconti di questa raccolta sono stati scritti tra il 1909 e il 1910, e originariamente pubblicati sul giornale, per poi confluire in questa raccolta. L’autore affronta diversi temi, e molto della sua vita privata è presente in questi racconti. Troviamo infatti sia esperienze autobiografiche, ispirate al suo periodo come insegnante e a quello come studioso a Londra (pagine in cui traspare tutto il suo malessere e tutto il suo senso di inadeguatezza nel trovarsi nella capitale inglese, popolata da individui perennemente di corsa e indaffarati), sia scene di vita domestica. Tra i racconti più interessanti quello intitolato Il professor Craig, nel quale viene ricordata la figura di William James Craig, studioso ed esperto di Shakespeare dal quale Sōseki prese lezioni private per un certo periodo. Il professore è ricordato come un tipo eccentrico e stravagante, dal carattere freddo e tutto preso dalla stesura di un dizionario shakespeariano. L’insegnante è tuttavia ricordato anche con parole di affetto e con qualche nota di benevola ironia:
«Sai, dei tanti che vedo passare qua sotto, neanche uno su cento capisce la poesia. Poveretti! In fin dei conti gli inglesi sono un popolo che non riesce a comprendere la poesia, sai? Se ci penso, da quel punto di vista, noi irlandesi eccelliamo, e siamo di gran lunga più raffinati… In effetti devo dire che le persone come te o me, che riescono ad assaporare le poesie, sono proprio fortunate».[2]
La raccolta offre, oltre ai racconti autobiografici, una serie di opere di pura fiction, che Sōseki utilizzò anche come “palestra” per sperimentare un nuovo linguaggio letterario. In questi racconti, popolati da personaggi talvolta malinconici e crudeli, Natsume Sōseki dipinge, con la delicatezza di un acquerellista, un ritratto della società nipponica dei primi del novecento, filtrandola con il suo attento occhio di artista. Tra le immagini che mi sono rimaste più impresse c’è quella di un ubriaco, disteso nel fango, che viene salvato dalle risate della folla da un suo compagno:
L’ubriaco assunse un’aria felice e si lasciò cadere di schiena sul carretto dicendo «Grazie a Dio!»; guardando il cielo luminoso sbatté due o tre volte gli occhi stanchi e abbagliati dalla luce, e disse: «Imbecilli! Anche se non sembra, sono un essere umano!»[3]
Sōseki è maestro della forma breve, e i suoi racconti riescono a racchiudere in poche pagine, spesso in poche righe, contraddizioni e sentimenti personali e della sua epoca, e lasciano molto su cui riflettere rimanendo in mente anche a lettura ultimata. I suoi ultimi anni furono caratterizzati da crisi nervose e un’ulcera dolorosa (che ne causò la morte prematura nel 1916), ma anche da una vivace attività letteraria: l’autore teneva infatti un piccolo circolo letterario in casa sua ogni giovedì assieme ai suoi studenti, per i quali nutriva un sincero affetto e che compaiono spesso anche nei racconti. Nel frattempo i suoi lavori riscuotevano un crescente successo.
I racconti, pur costituendo una parte minoritaria della sua produzione, sono ricchissimi di spunti di riflessione e pagine di poesia, riescono a trasportare il lettore in un’altra dimensione temporale, e a farlo vivere in un’alterità che può essere apprezzata anche da chi non ama particolarmente la letteratura orientale. Ultimo ma non ultimo, sono il passatempo perfetto per trascorrere queste ultime giornate fredde in attesa della bella stagione.
[1] La citazione è tratta dall’introduzione, cui devo molto per la parte biografica di questo articolo. Piccoli racconti di un’infinita giornata di primavera, Introduzione di Tamayo Muto, Edizioni Lindau, 2017 (pagina 8 dell’edizione in formato epub).
[2] Il professor Craig, op. cit. (p. 110).
[3] Un essere umano, op. cit. (p. 61).
Di Natsume Soseki ho letto “E poi”, e avrei detto che è uno dei tipici autori giapponesi: lenti, contemplativi, allusivi. Avevo in programma di leggere “Io sono un gatto”, forse il suo romanzo più famoso, e non sapevo che avesse scritto anche racconti e che ne esistessero delle edizioni italiane. Un autore a 360 gradi! Potremmo considerarlo il Manzoni giapponese: padre della letteratura moderna del suo Paese, viene letto spesso a scuola e il suo ritratto era perfino stampato sulle banconote, come il nostro milanese ai tempi della lira!
Bello il paragone con Manzoni! Confesso che non mi era venuto in mente. Di Soseki vorrei leggere “il mio individualismo” (prima che finisca fuori catalogo) voglio sentire la sua voce da saggista dopo quella di narratore, ma anche “Io sono un gatto” é in whishlist da tempo.
Complimenti per l’articolo: aiuta ad inquadrare un autore importante che, fino a poche settimane fa, non conoscevo.
Per quanto ho letto fin’ora di questo libro concordo con quanto hai scritto.
Mi permetto di segnalare che Tamayo Muto non è un traduttore, è una traduttrice.
Grazie per i complimenti e per la segnalazione Dario! Ho provveduto a correggere, il giapponese mi ha tratto in inganno. Mi sarà di lezione per la prossima volta!