E poi c’è la vita che ti assorbe1

Capire quali siano i motivi che si nascondono dietro alla notorietà o meno di un personaggio comporta sempre molta fatica, soprattutto quando all’apparenza la cosa in sé sembra non avere senso: la fama e la popolarità sono aspetti terribilmente insidiosi, perché la corrente a fare da traino è talvolta piuttosto incomprensibile – quanto spesso mi chiedo il motivo di tanto hype intorno alla pubblicazione di un certo libro, o dell’attenzione rivolta ad alcuni titoli e autori – quando, al contrario, i nomi che davvero si meriterebbero una giusta (ri)scoperta tendono a rimanere in un dimenticatoio più polveroso che mai, e sappiamo bene quanto spolverare sia odioso.
Questo è più o meno quello che è accaduto anche a Gina Berriault, e se vi state chiedendo “Chi?”, non vergognatevi, siete sicuramente in buona compagnia: su di lei ci è giunto troppo poco, sia qui in Italia dove nel 2018 grazie a Mattioli 1885 è finalmente arrivata la prima traduzione in assoluto della scrittrice con Piaceri rubati, ma anche nella madrepatria, dove è stata considerata – e amata – più dagli altri scrittori (Richard Yates, Richard Ford e Andre Dubus su tutti) che da semplici lettori, tanto da farle guadagnare l’appellativo di writer’s writer, scrittrice per scrittori
Gina Berriault, all’anagrafe Arline Shandling, nasce a Long Beach nel 1926 da due immigrati ebrei provenienti da quella regione russa che sarebbe poi diventata la Lituania e cresce in un sobborgo di Los Angeles, che però è presto costretta ad abbandonare a causa della Grande depressione che non risparmia neanche la sua famiglia.
Costretta a vivere in un bungalow sprovvisto perfino di tende, la sua infanzia trascorre nella più profonda ristrettezza economica, tanto che Gina cresce senza tante pretese, osservando in disparte dietro la finestra il mondo che continua a girare e le persone che cercano di tirare avanti senza arrendersi e che dopo ogni caduta si rialzano, un po’ acciaccati è vero, ma con dignità.
Scruta in silenzio, immaginandosi cosa si possa nascondere dietro i gesti di chi la circonda, ed è probabilmente in questi anni che si accorge della propria curiosità nei confronti degli altri, di quanto sia affascinata dalla loro vita, tanto da provare ad assecondarla cominciando a scrivere.
Questo è uno dei motivi per cui ho sempre voluto scrivere degli altri, la ragione per cui sono così curiosa degli altri. Perché sono come sono? Cosa nascondono e cosa ci rivelano? Dovevo scrivere di quello che vedevo per evitare di scrivere di me
La sua adolescenza continua piuttosto regolare; durante il liceo classico scopre sia la letteratura russa, sviluppando un amore viscerale per Gogol’ e Cechov, ma anche il teatro, tanto da spingersi deliberatamente a desiderare per sé un futuro da attrice; il sogno – o forse più l’idea stessa del sogno, un piacere in cui probabilmente si crogiolava negli anni più critici della sua crescita – le viene strappato dalla prematura scomparsa del padre, un marmista con la passione del giornalismo, e Gina si ritrova così sulle proprie spalle il destino della propria madre, divenuta cieca, e dei fratelli.
Inizia così a scrivere, col desiderio di alleviare l’indigenza in cui versa la famiglia, ma le lettere di rifiuto sono così tante che Gina non può che accettare il proprio fallimento, senza superarlo mai del tutto e soprattutto senza smettere di scrivere, ma anzi riversando nelle proprie opere tutta la rassegnazione di un’umanità ferita dai propri errori e dalla tragicità delle condizioni in cui vive.
Comincia ad occuparsi quasi esclusivamente degli outsiders, degli emarginati e dei solitari – prediligendo le donne, ma non solo – e di tutte quelle scelte che si sono rubate la loro vita, testimoniando come anche dalle crepe dello squallore più ordinario possa trapelare un’onesta bellezza. Non c’è mai giudizio nelle storie che racconta, non c’è condanna ma la comprensione di chi ha passato la vita immerso nelle angosce abbrutenti della propria generazione: c’è infatti un filo sottile che unisce i suoi protagonisti, e quel filo è esattamente l’assenza di una delimitazione, l’incapacità di distinguere dove finisca Gina e dove inizi la persona che ci racconta, come se lei fosse contemporaneamente il narratore e il narrato.
Forse, copiando sulla carta tutte quelle strane idee che lo rimescolavano, quel tizio aveva sperato di convincersi di essere simile agli altri? Era un’intrusione diversa dal solito: un ragazzo che si intrufolava in una casa già sua 2
Negli anni Cinquanta, Gina si trasferisce con il marito John Berriault a San Francisco, dove mettono al mondo una bambina: purtroppo il matrimonio finisce in fretta e la Berriault si trova di nuovo economicamente responsabile di un altro essere umano, ed è perciò costretta a dividersi tra la stesura della sua prima raccolta di racconti che viene pubblicata nel 1958, e la scrittura di articoli che escono su The Paris Review e Esquire. La pubblicazione della prima antologia non le porta certamente la fama, ma neanche la tranquillità economica che le servirebbe: il grande pubblico – la stessa pazza folla che aveva logorato Yates – continua ad ignorarla, e gli unici che sembrano accorgersi di lei sono proprio i più grandi scrittori americani a lei contemporanei, e le università che le offrono di insegnare scrittura creativa.
Nel 1960 esce il suo primo romanzo The Descent quando ha già 34 anni, passando anch’esso quasi inosservato, ed è solo nel 1996, a tre anni dalla sua morte, che viene pubblicata quella che diverrà la più famosa antologia della scrittrice Women in their beds (Donne nei loro letti, nella traduzione italiana edita da Mattioli 1885 del 2019) che le varrà il National Book, il PEN/Faulkner Award e anche il prestigioso Rea Award for the Short Story alla carriera: è la sua prima vera consacrazione, ma il fatto che arrivi così tardiva contribuisce a far nascere in lei un profondo disagio per una condizione che non è abituata a gestire.
Non amo essere così esposta perché il mio lavoro nasce dalla parte segreta di me stessa
Pensare che lei andasse in cerca di notorietà sarebbe scorretto; estremamente riservata per carattere non rilasciava mai un’intervista più del dovuto, se non quando aveva qualcosa da dire che pensava meritasse di essere ascoltato, e accettava di buon grado l’anonimato della propria vita, vissuta da pecora bianca tra altre pecore bianche perché non è poi così male – diceva – «se ti rendi conto di non essere tu l’unico sconosciuto, se accetti che il mondo possa non conoscere te come tu non puoi conoscere il mondo.»
Dato che nel suo quartiere aveva sempre lo sguardo basso per evitare di vedere ciò che avrebbe potuto riservarle il futuro, non alzava gli occhi nemmeno nell’ambiente di lui, cercando di opporsi al violento tentativo di quei luoghi di sminuirla. Ma durante le loro passeggiate tentava di sollevare lo sguardo. Era per quello che andava da lui, perché le rivelasse come fare ad alzare gli occhi e guardarsi intorno 3
Dopo Donne nei loro letti e successivamente alla morte della Berriault, nel 2011 venne pubblicata Stolen Pleasures, un’antologia contenente ventuno racconti, tutti appartenenti al periodo di massima maturità letteraria: nell’edizione italiana Piaceri rubati ne sono stati scelti sedici, e sono utilissimi, se possibile, per creare una connessione più resistente con chi l’ha pensati, ideati e messi su carta.
In questa raccolta tornano proprio quei personaggi che si ritrovano isolati con o senza colpa; c’è un senzatetto che si chiede quale sia il suo posto nel mondo, c’è il figlio drogato che torna a trovare per l’ultima volta i suoi anziani genitori, il ragazzino che ha ucciso involontariamente il fratello e sembra non provarne rimorso, e tutti sono accomunati da un certo senso di perdita e dal rimpianto per un passato più felice che di sicuro non potrà tornare.
A un’altra finestra della stanza vidi mio padre in piedi con la divisa grigia che mi guardava andar via. E in quel momento capii di avere una colpa e che lui mi stava accusando proprio di quella: la colpa dello sguardo. Perché lui era un padre che crollava sotto agli occhi del figlio, un padre giunto ai suoi ultimi anni di vita, al momento in cui tutte le circostanze della vita lo imprigionavano e lo uccidevano, mentre il figlio stava lì a guardare i suoi ultimi istanti di lotta per poi andarsene a prendere il tram 4
Ma fra tutti, c’è quel Piaceri rubati, che è anche il racconto che dà il titolo alla raccolta, in cui è molto più che accennato il riferimento al passato della Berriault: è proprio attraverso le due sorelle Delia e Fleur, ancora bambine, che la scrittrice descrive un’infanzia difficile, vissuta in maniera squallida, un’esistenza per cui non esiste un solo spiraglio di speranza.
Delia, la più piccola, cresce convinta che il reale motivo della loro infelicità sia l’assenza di un pianoforte in casa: per lei non solo senza pianoforte non può esserci un soggiorno, e quindi un adeguato focolare domestico degno di questo nome, ma non può esserci neanche la promessa di un futuro migliore; neanche il fatto che la sorella maggiore Fleur riceva, dopo infinite suppliche, un violino come i suoi compagni di scuola può cambiare le cose perché presto mancano i soldi per pagarle le lezioni, e il violino rimane nell’armadio, unico testimone di una condanna già scritta.
Delia è quindi costretta a lasciare la famiglia per provare a salvarsi, ma quando si ricongiunge alla sorella dopo la morte della madre, la stessa sorella che ha sacrificato il proprio futuro per la famiglia, si scopre che il destino è stato impietoso con entrambe, e che ad entrambe molto del buono della vita è stato portato via.
Certe volte, di notte, il respiro di Fleur sembrava un dolore trattenuto nel petto. Dolore per il fatto che la sua giovane vita le era stata portata via proprio quando sperava di averla tutta davanti a sé. E Delia diceva alla sorella addormentata: dovevo andarmene, dovevo trovare la mia strada, ma non è mai stata e potrebbe non essere quella che tu pensavi mi stessi godendo 5
Tra un baratro esistenziale e l’altro, la capacità di Gina Berriault ci permette di metterci nei panni dei protagonisti di ciascuna storia, perché in tutte c’è un qualcosa di profondamente familiare che si insinua, ma dura giusto un attimo e poi se ne va via.
Perché, come ha confessato, Gina Berriault scriveva degli altri per non scrivere di se stessa, proprio come noi leggiamo di lei per non leggere di noi stessi e di tutti i nostri, di piaceri rubati.
Vorrei avere scritto venti racconti al posto di ogni romanzo. I racconti e alcuni romanzi brevi sono vicini alla poesia: con poche parole catturano l’essenza di una situazione, di un essere umano. È come provare a trafiggere con uno spillo il momento eterno.