La Seattle in cui nasce e diventa adolescente negli anni settanta Charles D’Ambrosio è una città sonnolenta e senza stimoli. La cosa più importante che c’è è la sede della Boeing, che dà lavoro ad un sacco di persone, tra cui lo stesso D’Ambrosio. Il giovane Charles vorrebbe lasciarla perché si sente lontano da tutto ciò che è fermento culturale e artistico; ogni cosa interessante sembra accadere e pulsare sempre da qualche altra parte, troppo lontano. L’unico modo che ha per accorciare le distanze è leggere e immaginare quell’altrove.

Seattle infatti, non è ancora l’epicentro del terremoto che il 24 settembre 1991 la trasforma nell’ombelico del mondo della musica. Quel giorno esce Nevermind, il secondo disco dei Nirvana e il grunge, grazie anche ai dischi di gruppi come Pearl Jam (il loro esordio, Ten, è proprio del ‘91), Soundgarden ed Alice in Chains, tutti nati a Seattle, si prende il proprio posto nella storia, scrivendo uno dei più vasti capitoli, per influenze e impatto commerciale, della storia della musica e dei fenomeni di costume.
Kurt Cobain e soci si tirano dietro una quantità impressionante di band, sia quelle a cui loro devono influenze e ispirazioni (e che non perdono mai occasione di omaggiare e ringraziare), sia le brutte copie che inevitabilmente spuntano come funghi sulla scia di quel successo.
Il Seattle sound va in mondovisione colonizzando Mtv, e affascinando milioni di ragazzini con l’attitudine autodistruttiva, sporca e trasandata, grungy appunto, espressa attraverso i testi e i vestiti dei propri profeti e martiri. I Nirvana sono il compendio di quello che il grunge era stato a partire dalla prima metà degli anni ottanta, e ora che il canone è definitivamente stabilito e riconoscibile è anche pronto per essere celebrato, strapazzato e mortificato, come ogni fenomeno culturale e commerciale di massa che si rispetti.
Tutti quei sentimenti di angoscia, noia, mancanza di stimoli che venivano cantati dai gruppi grunge, D’Ambrosio li ha già vissuti verso la fine degli anni settanta, quando il suono della sua Seattle tendeva nel migliore dei casi al silenzio. Ed è su una rivista della città, The stranger, che pubblica i primi saggi, la forma di scrittura che più di tutte lo aveva catturato da ragazzo. Con il saggio, afferma D’Ambrosio, l’autore batte il tempo della prosa in perfetta connessione con il proprio corpo, perché il saggio è una questione anche di carne, dalla quale non si scappa così facilmente come invece si può fare attraverso racconti o romanzi.
L’argomento di quei pezzi contava, certo, ma per me era importante che fossero le frasi, da sole, a risultare convincenti. […] Mi fidavo del mio orecchio a un livello ridicolo, convinto che se avessi azzeccato il suono – la musica, l’atmosfera, l’essenza delle cose – alla fine magari si sarebbe manifestato anche il senso.
La voglia di fare altre esperienze e il lavoro di insegnante lo portano nel tempo a vivere in altre città, ma Seattle resta l’ambientazione ideale e tipica delle sue storie. Seattle, 1974, brano contenuto nella sua raccolta di non fiction Perdersi, è dedicato proprio alle riflessioni su certi sentimenti di fuga ed evasione che in adolescenza si hanno verso la propria città d’origine, e sul rapporto che con essa cambia nel tempo, quando le aspettative fanno i conti con il vissuto. Nonostante tutto, per D’Ambrosio Seattle non sarà mai la città del fenomeno grunge o quella delle sedi di Amazon e Microsoft, nota ormai per essere annoverata ai primi posti tra quelle in costante crescita per numero di abitanti e qualità della vita.
Per Seattle ci cammino. Cerco di osservarlo, questo nuovo mondo di speranza e di bella vita, ma in qualche parte del mio cervello è sempre il 1974 e sta sempre piovendo e sono un ragazzino, e un uomo con un carrello da supermercato pieno di carne rubata passa sferragliando lungo il marciapiede rincorso con triste entusiasmo da garzoni in grembiule addetti a imbustare la merce, che sono in realtà uomini fatti e finiti licenziati di recente dalla Boeing e ridotti a fare i crumiri part-time da Safeway. Oggi vado in cerca di una città più antica, una città silenziosa. Di prima mattina le insegne dipinte sui palazzi sembrano staccarsi dai mattoni come sinopie disseppellite dal tempo.

D’Ambrosio ha una storia personale molto difficile e travagliata, piena di tragedie. Uno dei suoi fratelli si è sparato poco più che ventenne, mentre un altro, schizofrenico, ha tentato di il suicidio saltando dall’Aurora Bridge di Seattle, finendo col rompersi un sacco di ossa ma sopravvivendo.
Perdersi è l’occasione di leggere quindi un suo lato straordinariamente intimo e riflessivo, soprattutto in quelle parti in cui racconta come è stato vivere in adolescenza il suicidio del fratello, e l’impotenza e il vuoto che creano una perdita del genere e che non sono in nessun modo colmabili. Sono pagine strazianti, e già la dedica ad inizio libro è un assaggio della potenza e bellezza di tutta la sua scrittura.
[…] l’anima del libro appartiene ai miei fratelli Mike e Danny, che non ne leggeranno mai neanche una parola, anche se il loro silenzio è il diapason su cui accordo ogni frase che scrivo.
La vetta narrativa di questa raccolta, però, forse la raggiunge nel brano dedicato al padre, una figura amata ma altrettanto difficile da decifrare, quasi spaccata in due tra quella che era la sua personalità appena entrava nel suo ufficio a occuparsi di economia, e in cui si sentiva felice ed era solare con i colleghi, e quella a casa, di persona più silenziosa, di poche parole. In vecchiaia sarà ossessionato da un conservatorismo di stampo cattolico-complottista e si lascerà andare fisicamente, tagliando quasi tutti i rapporti con i propri figli.
Questa è vita è il ricordo di una giornata passata col padre quando ancora Charles era bambino. I due, dopo aver sbrigato alcune commissioni in banca, vanno in una pasticceria per mangiarsi una fetta di torta; un rito esclusivo in un luogo segreto. La perfetta costruzione narrativa che alterna la narrazione di quella giornata, vivisezionando il loro rapporto, con il passato del padre, figlio di un allibratore di Chicago, non fa altro che accumulare nel lettore un flusso densissimo di emozioni, un magma che poi si sfoga quando il piccolo Charles, finita la torta, osserva il padre esaltato, nell’attesa che dica quella sua frase mitica, quella che diceva sempre quando il momento era perfetto nella sua semplicità. E quell’attesa, soddisfatta da un semplice «questa è vita», ha dentro di sé il massimo grado della felicità.